Quelle parole clandestine che ci insegnano coraggio e libertà

Quelle parole clandestine che ci insegnano coraggio e libertà

Una mostra racconta la dura lotta degli scrittori per non farsi schiacciare dalla dittatura sovietica
Matteo Sacchi 

Succedeva di nascosto, anche se lo sapevano tutti. Il luogo deputato per farlo nelle scalcinate case popolari dell’Unione sovietica, come racconta il premio Nobel Svetlana Aleksievic nel suo libro Tempo di seconda mano, era spesso la cucina, la stanza più vivibile e calda della casa.

Qualcuno estraeva da un nascondiglio uno o più samizdat e si iniziava a leggere e, magari a discutere, cercando di sussurrare per non farsi sentire da fuori. A leggere col gusto del proibito, perché la letteratura era vietata dallo Stato, quasi fosse una droga. A leggere ciò che non era gradito al Pcus e che non poteva essere stampato. Questi libri clandestini (ma a volte erano semplici opuscoli) venivano chiamati samizdat che, letteralmente, vuol dire «pubblicato da sé». Il termine fu coniato dal poeta Nikolaj Glazkov per l’edizione autopubblicata delle sue raccolte degli anni ’40. Le copertine riportavano la definizione «sam-sebja-izdat» (edizione di me stesso medesimo). Darne una definizione univoca però è quasi impossibile, questi testi circolavano sui più diversi supporti. A volte qualcuno copiava a mano. A volte c’era un ciclostile, più tardi le fotocopie. Il metodo più usato era la carta carbone. Ma anche con questi (…)

(…) sistemi rudimentali un libro, un pamphlet, un singolo comunicato poteva fare il giro del Paese, scatenando le furie del Cremlino. Sul finire degli anni ’50 si dedicarono a questo pericoloso «gioco» autori che adesso sono dei veri e propri classici: Ginzburg, Bukovskij, Galanskov. C’era poi chi aveva deciso di rischiare anche più grosso. Pubblicando all’estero libri che erano stati «pensati per il cassetto». Come Andrej Donatovic Sinjavskij o Julij Markovic Daniel’ che cercarono di proteggersi con lo pseudonimo. Ricevendone in cambio processi e galera.

A ricostruire questo mondo sotterraneo, che ha dato speranza a milioni di cittadini sovietici, è una piccola mostra all’università Statale di Milano che inaugura domani. Si intitola: Dalla censura e dal samizdat alla libertà di stampa. Urss 1917-1990. Questa raccolta di immagini (non ci sono ovviamente i delicatissimi originali, ma tavole che li riproducono) è stata creata dal Memorial Mosca e dalla Biblioteca statale di storia della federazione russa, con la curatela di Boris Belenkin e di Elena Strukova, e con un progetto grafico che si deve a Pëtr Pasternak. Presenta un florilegio, che va dalla rivoluzione d’Ottobre sino alla perestrojka, dei protagonisti e dei documenti dell’opposizione al regime sovietico, dando risalto a questo fenomeno di letteratura clandestina unico nel suo genere. Una resistenza fatta quasi solo di parole perché a tutti era chiaro che battere il regime nell’immediato era impossibile. Come ha scritto lo stesso Bukovskij lo scopo era un altro: «Non ci poteva essere la minima speranza di vittoria. Ma ognuno voleva avere il diritto di dire ai propri figli: Io ho fatto tutto quello che ho potuto».

Ecco allora riemergere dai dieci tabelloni della mostra una serie infinita di piccole rivolte, anche molto diverse tra loro. C’è il samizdat puramente letterario che ebbe il suo momento di massimo fulgore tra gli anni ’50 e gli anni ’80. La società, dopo la morte di Stalin e il XX Congresso del 1956, cercò un’alternativa al monopolio dello Stato sulla cultura. Il samizdat della prima generazione del disgelo fu alimentato da un boom poetico senza precedenti: tutti a leggere su dattiloscritto Cvetaeva, Gumilëv, Mandel’tam, Pasternak, Achmatova. Poi iniziarono a circolare testi più politici di denuncia dello stalinismo come la lettera a Stalin di Fëdor Raskol’nikov, espatriato dall’Urss. Ai testi sull’epoca staliniana si aggiunsero saggi di politologia sul ruolo dell’Unione Sovietica e sul suo futuro. Uno più diffusi fu il saggio di Andrej Amal’rik Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984? (1969). Visto com’è andata non era una domanda peregrina e la previsione è sbagliata di poco. Ma c’era anche un samizdat dei diritti umani e un samizdat religioso…

Se il regime aveva gettato l’Unione sovietica in un’era di ignoranza «pre-Gutenberg», in cui la censura annientava il ruolo della stampa, i diffusori di samizdat si ritagliarono un ruolo da nuovi amanuensi. Ed era una rivolta non solo politica, ma anche prettamente spirituale. Basti pensare che per via di carta copiativa circolavano anche capolavori assoluti: Il Maestro e Margherita, Il Dottor ivago, Arcipelago Gulag, Vita e destino. E fu proprio questa imponente produzione di samizdat, trovando la via dell’Occidente, a generare un effetto boomerang. Gli editori di qua dalla Cortina iniziarono, oltre che a promuovere le traduzioni, a dare veste tipografica ai testi originali e anche a rispedirli clandestinamente in Urss (questi testi reimportati erano più propriamente chiamati tamizdat). Così queste «copie» smisero di essere singole punture di spillo, trasformandosi in qualcosa che il regime non poteva più ignorare. Come spiega Sergio Rapetti nell’introduzione italiana all’e-book che verrà realizzato a partire dalla mostra, si arrivò al punto che il capo del Kgb Andropov si trovò a riferire preoccupato ai suoi colleghi del Comitato centrale che il biologo ores Medvedev e un suo conoscente nella città di Obninsk (Kaluga) avevano «dattilografato in varie copie il romanzo inedito di A. Solenicyn Il primo cerchio per distribuirlo tra i ricercatori della città». Oppure si trasformò in una questione di Stato il fatto che sempre più persone avessero iniziato a ricopiare Requiem di Anna Achmatova.

Fu la follia di questa assurda caccia alle poesie, ai dischi importati di nascosto dall’Occidente che dimostrò in modo evidente che lo stalinismo non era mai morto davvero, nonostante l’effimero disgelo di Kruscev. Basta scorrere i pannelli della mostra per rendersi conto di quanto, anche con i suoi successori, continuasse lo strapotere del partito unico. Ma questa cappa ormai diventava sempre più insostenibile a tratti persino ridicola. Sino a spingere Mikhail Gorbaciov ad ammettere che così non era più pensabile vivere. Durante il periodo della perestrojka tutto iniziò a cambiare. All’inizio dell’87 i condannati per pubblicazione e diffusione di samizdat riottennero la libertà. La stampa non autorizzata cessò di essere un crimine. Era l’inizio di un nuovo mondo. Ma questo inizio deve molto a quegli amanuensi clandestini. E non parliamo solo degli scrittori, ma di tutti i lettori che rischiarono in proprio per diffondere, se non la libertà, la speranza della libertà.

Matteo Sacchi