Non ci resta che credere

Non ci resta che credere

immagineÈ tutta questione di… volontà.
Quante volte abbiamo dato la colpa alla volontà, la nostra oppure quella altrui, per giustificare, nel positivo, come nel negativo, i nostri comportamenti? Credo tante volte, e forse non sono il solo ad averlo fatto.
Eppure, non è semplice definire la volontà, e tanto meno i processi cognitivi che intervengono quando decidiamo di utilizzarla. Sappiamo molto sul funzionamento della zona critica del nostro cervello, la corteccia prefrontale e frontale, ma non abbiamo ancora compreso come arriviamo a determinare quella serie di azioni che ci conducono all’esercizio della volontà. In questo processo, la coscienza, di cui sappiamo ancora meno, interviene in modo determinante, e gli studi sul decision making affrontano con serietà il tema.

Per far comprendere ai miei studenti la complessità della volizione cito questa poesia della mia amata Emily Dickinson:

“Ci sono due potrei,

e poi un devo

e dopo ancora un sarò.

Che infinità di compromessi

per indicare l’io voglio”.

E siamo alla fine dell’Ottocento, quando questa grande donna riesce, nella sua solitudine e con la sua sensibilità poetica, ad indicare perfettamente il processo mentale che ci porta ad esercitare la volontà, in tutte le situazioni della vita, da quelle sentimentali, le più difficili ma importanti che possiamo incontrare nel nostro cammino, a quelle professionali, altra faccia delle prime.

Ebbene, dopo anni di riflessione, ma non solo su questo tema, credo che l’atto più evidente e sublime della nostra volontà sia il credere, ossia l’avere fede in qualche cosa o qualcuno, e non importa affatto conoscere l’identità di questo qualche cosa o qualcuno. Solo la fede, di qualsiasi tipo essa sia, è l’atto magistrale della nostra volontà, perché dipende esclusivamente da noi, senza altro tipo di condizionamento. Non crediamo con la ragione, altrimenti non inizieremmo mai a credere; non lo facciamo con l’analisi delle cose, perché avremo sempre qualche elemento che ce lo sconsiglia; non crediamo con l’esempio altrui, altrimenti, facendo generalmente riferimento al negativo, nessuno penserebbe positivo.

Crediamo per necessità e per bisogno. Sì, e non si tratta di un delitto della ragione, come sostengono e hanno sostenuto alcuni intellettuali. Non è un paradosso dire che abbiamo bisogno di credere, perché tutta la nostra esistenza è un bisogno, perché non possiamo rimanere consapevolmente soli, mentre desideriamo che la nostra conoscenza, di noi stessi e delle cose, ci porti a sentirci uniti al mondo intero, anche quando questa unione ci fa male.

E il dolore diventa così la forma più evidente e sovrana della nostra fede.

 

 

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Alessandro Bertirotti
, antropologo della mente, è nato nel 1964. Si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È Vice Segretario Generale dell’Organizzazione Internazionale della Carta dell’Educazione CCLP Worldwide dell’UNESCO, membro del Comitato Scientifico Internazionale del CCLP e Membro della Missione Diplomatica, per l’Italia, Città del Vaticano, Repubblica di San Marino e Malta, del CCLP Worldwide presso l’Unione Europea. È docente di Psicologia Generale presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Genova. Il suo sito è www.alessandrobertirotti.it

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