Achab e la balena bianca

Achab e la balena bianca

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12 dicembre 2017 pubblicato da Redazione 
Moby Dick
di Marinella Ciamarra

Debutta in prima assoluta, nella stagione 2017-2018 del Teatro del Loto di Ferrazzano, “Moby Dick, la bestia dentro”, la nuova, ambiziosa produzione della Compagnia del Loto, con Stefano Sabelli e Gianmarco Saurino, per l’adattamento e la regia di Davide Sacco e le musiche dal vivo di Giuseppe Spiedino Moffa.

Il testo è la sapiente riscrittura di quello che Herman Melville, suo autore, definiva “il libro malvagio”, perché il male è il protagonista del racconto.

Classico della letteratura americana, precursore del modernismo, Moby-Dick, or The Whale (“Moby Dick, ossia la balena”) si presta a molteplici interpretazioni. Incarnazione del Leviatano di biblica memoria (non a caso in ebraico moderno, la parola livyatan significa “balena”), terribile mostro marino dalla leggendaria forza presentato nell’Antico Testamento (“Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe.” (Giobbe 40:25-32), simbolo del caos primordiale, la potenza priva di controllo, o simbolo della potenza del Creatore, allegoria del Male, dell’Ignoto, dell’Infinito, del Fato, dell’Inconscio, della parte oscura dell’uomo, Moby Dick alimenta, per l’intero romanzo, il desiderio di vendetta del comandante della baleniera Peaquod, il capitano Achab, a cui ha strappato una gamba, portandolo all’infermità.

Lo spettacolo è portato in scena da Stefano Sabelli, nelle vesti cucitegli addosso del capitano Achab, e da Gianmarco Savino, che abilmente inscena Ishmael, il narratore dal sapore biblico, che richiama nel nome il figlio di Abramo e della schiava Agar, cacciati nel deserto, fra altri reietti, dove impara a sopravvivere, in solitudine, indurito contro le avversità. E così, nell’incipit del romanzo, come in quello dello spettacolo, Call me Ishmael, “Chiamatemi Ismaele”, è come dire “Chiamatemi esule, vagabondo”…

Che è poi la condizione che accomuna Ishmael e Achab, forse padre e figlio, sospetto che si insinua ad un certo punto della narrazione, o comunque anime affini, seppur lontane per età, l’uno giovane, forte, ancora inesperto, ma tuttavia non ingenuo, l’altro al bivio di un’esistenza maledetta, dannata e che continua a fare i conti con la parte oscura del Sé che lo trascina irrimediabilmente verso l’abisso.

E Moby Dick è l’ossessione di Achab, che Sabelli personifica magistralmente nell’eroe romantico tormentato, assetato di sapere, moderno Ulisse che non vuol negare a se stesso l’esperienza del mondo “sanza gente” e che con i remi della sua nave fa ali al suo “folle volo”, per “seguir virtude e conoscenza”.

E come l’Ulisse dantesco, nel corso della sua sfida estrema all’ignoto, contro ogni volontà divina e prudenza umana, rinuncia agli affetti più cari e mette a repentaglio altre vite, per immettersi nell’“alto mare aperto”, allo stesso modo Achab intraprende il suo folle volo contro la virtù della prudenza, infrangendo il divieto rappresentato per Ulisse dalle colonne d’Ercole, volte ad indicare i limiti delle forze umane, e si getta in un pazzo inseguimento, animato dall’unica linfa per lui possibile, la forza della ragione, del sapere, dell’Arte. ([…] Ma siccome nell’assenza della terra soltanto sta la suprema verità senza rive, infinita come Dio, così meglio è perire in quell’abisso ululante che venire vergognosamente sbattuto a sottovento, anche se in questo fosse la salvezza. Poiché, allora, oh! chi vorrebbe come un verme strisciare vilmente a terra? Terrore dei terrori!).

Contro ogni volontà divina, perché manca, in Achab come nell’Ulisse dantesco, qualsiasi credo in una realtà superiore all’uomo e ad un’altra vita.

Riecheggia Victor Hugo: “Ogni uomo ha in sé la sua Pathmos. Egli è libero di andare o di non andare affatto su quel terribile promontorio del pensiero donde si vedono le tenebre. Se non ci va affatto, egli resta nella vita comune, nella coscienza comune, nella virtù comune, nella fede comune, nel dubbio comune, ed è bene. Per la pace interiore, evidentemente è meglio. Se va su quella cima, è preso. Le profonde onde del prodigio gli sono apparse. Nessuno guarda impunemente quell’oceano…Egli si ostina a quell’abisso che attira, in quel sondaggio dell’inesplorato, in quella noncuranza della terra e della vita, in quell’entrare nel proibito, in quello sforzo per toccare l’impalpabile, in quello sguardo sull’invisibile, ci rivà, ci ritorna, vi si affaccia, vi si sporge, fa un passo, poi due, ed è così che si penetra nell’impenetrabile, ed è così che si va nell’allargarsi senza limiti della condizione infinita“.

Nessuno guarda impunemente quell’oceano, no.

Non il capitano Achab. E il mare è infatti la cifra, metafora potentissima della vita e della morte, e le onde che fanno la differenza tra chi resta sulla riva in una vita strozzata e in una moltitudine di morti, come l’Arsenio di Montale, e chi decide di affrontare la tempesta.

Di buttarsi. In un’altra orbita. Di immettersi per l’alto mare aperto.

E Achab, “re del mare e gran signore delle balene”, si butta in questa impresa disperata, che è dentro e fuori di Sé, in questo viaggio nella natura e contro la natura. Che poi è anche la Natura umana. (O natura, e tu, anima umana! come le vostre intrecciate analogie giungono al di là di ogni dire! non c’è minimo atomo che si agiti o viva nella materia senza avere un duplicato raziocinante nella mente dell’uomo).

Con una scenografia originale e finemente architettata in un Teatro del Loto trasformato in una nave baleniera, con le belle musiche di Giuseppe Spiedino Moffa, cantautore e polistrumentista molisano, Stefano Sabelli realizza un’intensa interpretazione, non facile, né scontata, data la complessità interiore del personaggio, alla cui tipologia, d’altro canto, aveva già abituato il suo pubblico, nell’altrettanto bella interpretazione del Saul alfieriano.

Non da meno Gianmarco Savino, esemplare Ishmael che fa da valido controcanto alla tragica grandezza del capitano Achab.

Entrambi tengono legato il pubblico in 80 minuti di forti emozioni, che solcano i mari dell’anima e dell’inconscio di ciascun singolo spettatore, attraverso questa riscrittura di Melville che attinge ai grandi scritti di Shakespeare, Moliere, Artaud.

Che scuote le coscienze. Che fa riemergere in ciascuno quella parte spesso troppo sommersa che il capitano Achab rappresenta. L’anima Nera. Ruggente. Ardita. Quella che grida con Achab e invoca vendetta. Contro la balena bianca, “gran demone che scivola nei mari della vita”, che attraversa il mare di ciascun Sé. Con protervia. Con immane grandezza. Giacché c’è sempre qualcosa di grande in ciò che odiamo e combattiamo. E verso cui siamo inevitabilmente e morbosamente attratti. E desideriamo, come Achab, annullarlo per annullarci in esso.

E alla fine Achab, che non accetta rassegnato la potenza distruttrice della Natura, il mistero che è in essa, sebbene forse sa che uscirà sconfitto dall’ìmpari duello, muore, caparbio, titanico, in preda ad un furor senza pari, che lo rende dannato ed orgoglioso, scagliando sul dorso di Moby Dick l’arpione al quale rimarrà impigliato, inabissandosi per sempre con la sua bianca creatura mostruosa.

Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.

E il silenzio del mare, di cui il capitano Achab era stato compagno e signore incontrastato per tutta la vita, come per l’Ulisse dantesco, è la conclusione del suo folle volo.