Flaiano tradusse lo scontento in ironia

𝐅𝐥𝐚𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐭𝐫𝐚𝐝𝐮𝐬𝐬𝐞 𝐥𝐨 𝐬𝐜𝐨𝐧𝐭𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐢𝐧 𝐢𝐫𝐨𝐧𝐢𝐚
Cinquant’anni fa se ne andava dalla vita, con un certo anticipo e un certo fastidio, Ennio Flaiano

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Flaiano tradusse lo scontento in ironia

Cinquant’anni fa se ne andava dalla vita, con un certo anticipo e un certo fastidio, Ennio Flaiano. Il suo nome e cognome sembrano appartenere a un classico latino. Facile immaginare Lucio Anneo Seneca che scrive epistole a Ennio Flaiano anziché a Lucilio. Flaiano stesso raccontò che un giornalista inglese lo scambiò per un autore latino e lo citò come Ennius Flaianus. E dire che Flaiano non proveniva da una formazione classica ma da giovane era stato bocciato come ragioniere. Osservatore acuto e smaliziato del nostro tempo, nacque a Pescara nel 1910 e visse nella nostra repubblica terrena e italiana fino al ’72. Passò indenne a fianco di un secolo agitato, feroce e passionale. Visse in mezzo a due guerre, più rivoluzioni e intermezzi coloniali, attraversò con l’impermeabile il fascismo e l’antifascismo, l’Italia cattolica e comunista, senza inzupparsi né intrupparsi. Si trovò per puro caso a Roma il giorno della marcia su Roma. Aveva dodici anni e di quel 28 ottobre di cent’anni fa ricordava la vetrina di una farmacia in via Tomacelli che esponeva una serie patriottica di profilattici, marca Fascio, marca Ardito tra nastri tricolori. Non erano in camicia nera. Agli altri l’epopea della storia, a lui l’ironia del dettaglio. Scrisse perfino, lui così immune, sul più razzista dei fogli fascisti, Il Tevere di Telesio Interlandi e poi si ritrovò nel dopoguerra tra i radical chic dell’Espresso e i progenitori più sobri del Mondo. Benché pescarese, col concittadino d’Annunzio non c’entrava nulla; al tasto eroico preferiva il grottesco, all’esaltazione lirica del Vate preferì la malinconia asciutta del satiro. Attraversò, schivandole, e un po’ schifandole, le stagioni del nostro paese, ma anche nella letteratura, nell’arte e nel cinema. Flaiano fu scrittore di frammenti, giornalista letterato, critico teatrale e autore cinematografico. Vinse lo Strega con Tempo di uccidere che gli pubblicò Leo Longanesi. Come Longanesi, anche Flaiano convertì il proprio scontento nell’ironia (ne ho scritto nel mio recente Scontenti). Flaiano colpiva in alto e in basso e soprattutto in mezzo, dove si annidava la borghesia, classe di riferimento e di tormento. I due si divertirono alle spalle delle proprie disgrazie, di italiani, di borghesi e di contemporanei. Dal disgusto nacque il loro gusto della boutade, dalla scontentezza fiorì la battuta di spirito. Memorabile fu l’epitaffio che Flaiano dedicò sul “Mondo” alla morte precoce e improvvisa di Longanesi: “Più di un amico perduto, è la fine di un incontro e uno spettacolo”.

La fama di Flaiano è associata ai Vitelloni e alla Dolce vita di Fellini, di cui scrisse la sceneggiatura che narrava di un giornalista come lui venuto a Roma dalla provincia. Fu lui a battezzare i fotografi della mondanità come paparazzi, dal nome di un albergatore calabrese: una società sguaiata, scrisse, merita fotografi petulanti. “Emigrato intellettuale senza speranza di tornare”, ma anche senza voglia, Flaiano ebbe un rapporto di amore-disprezzo per Roma e i romaneschi. Ma anche per l’Italia, in cui si sentì un marziano, seppure bene integrato. Per Flaiano l’italianità non è una nazionalità ma una professione e gli italiani non sono una razza ma una collezione. E in una pagina che sa di oggi: “da parecchi anni l’Italia è stata invasa da un barbaro autoctono. Questo barbaro assedia la città dall’interno delle mura. Chiamatelo provinciale, neoricco, cafone, per me resta un barbaro”. Raccolse in versi nel fatidico 1968 una sequela di luoghi comuni rimasti quasi tutti ancora intatti, del tipo Venezia è da salvare, l’edilizia è in crisi, le acque sono inquinate, i treni ritardano, la famiglia in crisi, il comune di Roma aumenta il disavanzo. Sembra oggi ed era più di mezzo secolo fa.

Corrosiva la sua satira sui vantaggi di dirsi comunisti e sui primi radical chic. “Vogliono la rivoluzione ma fanno le barricate con i mobili degli altri”. I fascisti, invece, restano per lui “una trascurabile maggioranza” nel paese e Mussolini “era un tiranno accomodante e pieno di buona volontà…Non è da escludere che travolto dai nazisti, sarebbe diventato lui il presidente del Comitato di Liberazione”. Oggi sarebbe stato denunciato…

La sua prosa fu amara e lieve, mai pomposa. Il suo pessimismo, anziché appesantire, donava leggerezza alla sua pagina, scansando intenti pedagogici e velleità propositive, anche perché si accompagnava a quella capacità epigrammatica e sintetica che fu il dono di grazia di una generazione: quella dei Maccari, Longanesi e Montanelli. Flaiano fu uno scrittore sprecato, dissipatore di talento in battute e in dispersive attività, poligrafo ai danni della sua stessa prosa. Flaiano, il più scettico e antiprofetico degli intellettuali italiani, predisse e precorse l’avvento di un paese scettico, annoiato e psicolabile, con la sua Roma eterna e caciarona, cazzara e vitellona; c’è er core verace de Roma e c’è l’umanità delle periferie e dei ministeri, delle matrone e delle signorine, visti con gli occhi del moralista ironico e distaccato. Oscillò tra due disincanti: quello conservatore di Longanesi e quello laico-liberale di Pannunzio. Alla fine Flaiano confessò: “La noia è la verità allo stato puro” . Una volta guardando il numero di un autobus, il 92, Flaiano pensò e annotò: “Chissà se ci arriverò al ’92. Però che noia”. Il fato lo imbarcò con forte anticipo sul ’72 barato, come dicono a Roma sdoppiando la erre, risparmiandogli la noia di vivere altri vent’anni e più. A noi lasciò il rimpianto per quel che avrebbe potuto ancora scrivere, andando via così di fretta.

(Panorama n.47)