Il meridionalismo di Giustino Fortunato

Il meridionalismo di Giustino Fortunato

fortunato (2)Nel meridionalismo di Giustino Fortunato vi è una innegabile componente storica di natura strutturale. Non solo la dimensione storica rappresenta un aspetto primario della sua analisi politica, ma l’intero suo pensiero si articola in una prospettiva storica. L’ansiosa ricerca delle cause che spiegassero i problemi del Meridione d’Italia lo guidò verso l’individuazione di una relazione fra geografia-clima e vicende storico-sociali. Così sostenne che “le condizioni fisiche dei paesi influiscono sulle condizioni storiche” (Scritti vari, Trani 1900) argomentando che “il grande fattore storico della disparità o dello sviluppo dei popoli è il clima, poichè gli uomini non sono altro se non argille pieghevoli nelle sue mani” (Pagine e ricordi parlamentari, Bari 1920).

I suoi testi condensano una continua attenzione ai dettagli storici ed alle notizie geologiche, botaniche e geografiche in un determinismo naturalistico fu base di un realismo storico intriso di rigido moralismo conservatore; al Croce che gli suggeriva il titolo di “Vandea Napoletana” per una sua opera sul brigantaggio, Fortunato rispose che questo fenomeno, “espressione e frutto di una società rosa dalla miseria e moralmente fradicia, non merita tanto” (Z. Bianco, cit. in G. Galasso “Da Mazzini a Salvemini”). Tale società, “rosa dalla miseria e moralmente fradicia”, è il risultato di un ambiente ostile che deturpò i legami sociali ed impose una economia arretrata attraverso i secoli.

Lo studio della terra del Vulture fu per Fortunato la prova concreta del legame tra geografia e sviluppo perchè nella storia della Valle di Vitalba (I feudi e i casali di Vitalba nei secoli XII e XIII, Trani 1898) individuò clima nemico dell’agricoltura, malaria e terremoti come componenti di una lacerazione secolare del tessuto civile e morale. L’Italia meridionale, scriveva, “è quello che ne han fatto la natura ingrata e la sorte avversa: una gran causa di debolezza, politica ed economica, per tutta quanta l’Italia, il cui destino è quindi riposto nella resurrezione del Mezzogiorno” (Scritti vari). Ciò rese il Sud facile preda di dominazioni straniere che pure fallirono contro i problemi naturali. Se il Nord Italia conobbe il feudalesimo prima del Sud, quest’ultimo lo conobbe più aspro e duraturo; se il Nord Italia conobbe la mezzadria, forma di partecipazione del capitale proprietario alla valorizzazione della terra, il Sud conobbe l’enfiteusi, contratto che “suppone la impossibilità di qualsiasi anticipazione da parte del proprietario” (Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, Bari 1911); l’espansione dei mercanti e dei banchieri toscani nel Trecento fu risucchiata dall’aspro ambiente sociale locale senza riuscire ad essere feconda; la Chiesa, fortemente influente al Sud, perpetuò il latifondo e lo stato di servaggio del Regno di Napoli.

Questi elementi caratterizzanti l’analisi storica di Fortunato si intrecciano ad un revisionismo borbonico che si sostanzia in una delimitazione delle responsabilità dei Borbone di Napoli e Sicilia. All’ultima dinastia preunitaria del Sud, Fortunato riconobbe il merito d’aver a lungo preservato l’indipendenza contro l’aggressività di Francia ed Inghilterra nel Mediterraneo.

Fortunato stabilisce un giudizio più equilibrato e sereno sulle condizioni preunitarie: il Regno delle Due Sicilie godeva, ad un livello assai basso di sviluppo sociale ed economico e con un bilancio su cui pesava la spesa militare a discapito dei servizi pubblici, di un equilibrio tra struttura economica ed organizzazione civile che fu squassato con l’Unità. Così scrisse in Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano: “Quali i dati, secondo cui le due Sicilie sarebbero state, al 1860, superiori alle altre regioni d’Italia, in particolar modo al Piemonte ? Poche le imposte, un gran demanio, tenue e solidissimo il debito pubblico, una grande quantità di moneta metallica in circolazione… È quello che ogni giorno si ripete comunemente. Ora, né tutto è esatto né esso vale come indice di maggiore ricchezza pubblica e privata. Poche le imposte, perché la ricchezza mobile e le successioni erano del tutto libere; ma ben gravi le tariffe doganali e la imposta sui terreni, assai più gravi che altrove. La fondiaria, con gli addizionali, saliva tra noi a circa 35 milioni, mentre in Piemonte non dava più di 20; così anche per le dogane, che avevano cinto il Regno d’una immensa muraglia, peggio che nel medio evo, quando almeno ora Pisa e Venezia ora Genova e Firenze avevano quaggiù grazia di privilegi e di favori. Tutto ricadeva, come nel medio evo, per vie dirette sui prodotti della terra, per vie indirette su le materie prime e le più usuali di consumo delle classi lavoratrici. Eran poche, si, le imposte, ma malamente ripartite, e tali, nell’insieme, da rappresentare una quota di lire 21 per abitante, che nel Piemonte, la cui privata ricchezza molto avanzava la nostra, era di lire 25,60. Non il terzo, dunque, ma solo un quinto il Piemonte pagava più di noi. E, del resto, se le imposte erano quaggiù più lievi, non tanto lievi da non indurre il Settembrini, nella famosa «Protesta» del 1847, a farne uno dei principali capi di accusa contro il Governo borbonico, assai meno vi si spendeva per tutti i pubblici servizi: noi, con 7 milioni di abitanti, davamo via trentaquattro milioni di lire, il Piemonte, con 5, quarantadue. L’esercito, e quell’esercito!, che era come il fulcro dello Stato, assorbiva presso che tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe dell’Oriente. Secoli di miseria e di isolamento, non i Borboni, ultimi venuti e, come un giorno sarà chiaro allo storico imparziale, non essi — di fronte al paese — unici responsabili del poco o nessun cammino fatto dal ’15 al ’60, durante quei tre o quattro decenni di fortunata tregua economica non mai avveratasi per lo innanzi: lunghi e tristi secoli di storia avevano compressa ogni forza, inceppato ogni moto, spento ogni lume, perché, suonata l’avventurosa ora del Risorgimento, noi avessimo potuto essere qualche cosa dippiù di quel niente che eravamo. De’ due terribili malanni — secondo il Cavour — del Mezzogiorno, la grande povertà, e, frutto di questa, la grande corruttela, i Borboni furono la espressione, non la causa: essi trovarono, forse aggravarono, non certo crearono il problema meridionale, che ha cause ben più antiche e profonde”.

Il Risorgimento dunque strappò il Sud all’Africa ed alla depressione mediterranea e lo consegnò all’Europa ma senza risolvere le problematiche di sempre ritenendo sempre che “il sistema tributario italiano, proporzionalmente alla ricchezza delle due parti del Regno, manchi, nonché dell’uguaglianza economica, dell’assoluta parità aritmetica a danno del Mezzogiorno… soprattutto per il modo di concezione e di applicazione delle imposte dirette” (Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano). Tutto ben riassunto in questo passo de La Badia di Monticchio (Trani 1898): “Perchè giacque il Mezzogiorno, come corpo morto, negli ultimi due secoli della repubblica e durante l’impero? perchè nel nono secolo, frantasi l’unità romana, il nord si suddivise in comuni e regioni autonome, il Sud restò immobile, tutto di un pezzo, raccolto intorno a un sol centro? perchè nella bassa Italia venne sempre meno il tentativo di sostituire alla vita nomade dei pastori una stabile organizzazione territoriale? perchè ricademmo sempre, come se costretti da forza irresistibile, in uno stato economico di mera agricoltura estensiva, senza mai nè industrie nè commerci, indifferenti ad ogni forma di governo, ma ognora pronti alle più feroci rivolte servili? I socialisti rispondono, meglio che altri prima di loro: “il fattore economico”. Senza dubbio. Ma è l’uomo o la natura che determina, prevalentemente la ricchezza di un paese? può un paese naturalmente povero, le cui fonti di ricchezza sono state, e sono, più o meno scarse allo stesso movimento demografico, durare ancora, come da’ tempi più remoti, in uno stato di vera tirannia fiscalee, che non gli ha lasciato prendere nè lena nè respiro? E’ il “capitale circolante” ciò che è sempre mancato, insieme con la borghesia, al Mezzogiorno, sempre spogliato da una eccessiva contribuenza di stato, dispersa o in opere improduttive o al di fuori del paese, mediante governi di classe ognora costosi e vessatori”. La storia del Sud diventa dramma e condanna, ineluttabile lotta familiare per la sopravvivenza. Fortunato, imprigionato nella convinzione che la storia sia la storia dell’opposizione dell’uomo alla natura, mitiga il suo pessimismo nell’idea di una politica capace di conseguire comunque dei risultati, in qualche modo modesti, ma sicuri, in una realtà dai limiti insuperabili: occorreva anzitutto una “riduzione di imposte ed [un] aumento del capitale circolante:… i due termini correlativi per il primo rifiorire dell’agricoltura meridionale” (Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano).

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: G. Galasso, Da Mazzini a Salvemini, Firenze 1974
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