La fine della società contadina

LA FINE DELLA SOCIETA’ CONTADINA
di Angelo D’Ambra

Per mezza Italia e più gli anni del “miracolo economico” sono anche gli anni della grande migrazione contadina, dello spopolamento delle campagne, della fine dell’agricoltura. Solo nel 1962 lasciarono la campagna quattrocentomila persone. Raggiungevano la “civiltà industriale” e ciò accadeva al Nord, dove le valli del Piemonte in cinquanta anni persero la metà della popolazione, ed accadeva al Sud, per esempio a Campobasso dove su cento figli di proprietari agricoli solo otto rimasero in campagna…
La fine della società contadina

Per mezza Italia e più gli anni del “miracolo economico” sono anche gli anni della grande migrazione contadina, dello spopolamento delle campagne, della fine dell’agricoltura. Solo nel 1962 lasciarono la campagna quattrocentomila persone. Raggiungevano la “civiltà industriale” e ciò accadeva al Nord, dove le valli del Piemonte in cinquanta anni persero la metà della popolazione, ed accadeva al Sud, per esempio a Campobasso dove su cento figli di proprietari agricoli solo otto rimasero in campagna.

In certi villaggi la raccolta delle olieve inizì ad essere affidata massicciamente agli zingari e conveniva: le trattative coi sindacati erano così sostituite da quelle coi capi nomadi, a loro le paghe risultavano così alte che era impossibile non accettare.

La migrazione contadina causò profondi sconvolgimenti dal punto di vista sia sociale sia culturale. Una scena caratteristica dei paesi del Sud divenne da allora quella dei vecchi seduti fuori i bar per lunghissime ore. I giovani erano al Nord, a Milano, a Torino, in Svizzera o in Germania. Soffriva la Toscana, soffrivano le terre venete; non c’era acqua, non c’erano comodità che le televisioni avevano mostrato. In certe campagne romagnole i mezzadri abbandonarono campi che rendevano trecentomila lire l’anno per unità lavorativa, mentre al Sud con lo stesso reddito campavano intere famiglie. Eppure il meridionale non andava a fare il contadino lì, no. Puntava a divenire operaio.

Scelte governative sbagliate uccisero l’agricoltura. Ne facevano le spese i consumatori, pur indifferenti ai lamenti dell’Italia contadina, che pagavano a caro prezzo i prodotti della terra, e ne facevano le spese assieme anche i produttori che traevano ben pochi utili: nell’estate del 1958 un nobile napoletano solo a gran fatica riuscì a a vendere pesche reginelle della sua tenuta a trenta lire al chilo ai mercati generali a Roma, poi passando per un mercatino rionale, vide le stesse pesche a centotrenta al chilo, allora esplose dalla rabbia e dovettero portarlo in commissariato (G. Bocca, La scoperta dell’Italia).

I contadini preferivano distruggere il frutto della loro fatica piuttosto che cederlo ai bassi prezzi imposti da grossisti e mediatori. Per esempio, l’8 giugno del 1959, la caserma dei carabinieri, il municipio e l’esattoria comunale di Marigliano, in provincia di Napoli, vennero incendiati e distrutti in una sommossa contadina con dieci feriti e più di cento arresti. La protesta era stata provocata dal calo dei prezzi delle patate costituenti l’unica fonte di guadagno per quei contadini, costretti a vendere a sole 6 lire al chilo un prodotto che i commercianti rivendevano a 35.

La fuga verso i centri urbani, dove la domanda di mano d’opera era in aumento, continuò inarrestabile anche nei decenni successivi. Inutile dire poi che la diminuzione della forza lavoro non fu adeguatamente sostituita dalla meccanizzazione: era la fine della società contadina. Qualcosa che covava da tempo nel seno della società capitalistica. Osservò infatti Villani che “se per contadini si intende genericamente definire coloro che lavorano la terra e abitano il contado, gli ‘altri’ dai cittadini, non vi sono problemi. Ma se con ‘contadini’ e ‘mondo contadino’ ci si riferisce a un insieme di valori e a un sistema di produzione contrapposto a quello della città, in contrasto con lo sviluppo mercantile e capitalistico, capace di porsi addrittura come alternativa, allora il discorso si fa molto più complesso. O ci riferiamo a un mondo precapitalistico o addirittura premercantile essenzialmente basato sull’autoconsumo, oppure a un mondo ideale, probabilmente ispirato al modello più o meno utopico di una vecchia civiltà contadina… un tale ‘mondo’, a partire dall’Ottocento, ma probabilmente da alcuni secoli prima, non esisteva più neppure nelle nostre regioni meridionali che erano ancora massicciamente agricole; se un tale mondo era mai esistito, l’espansione del mercato, l’organizzazione e la fiscalità dello stato, le conseguenti mediazioni e differenziazioni sociali, l’egemonia cittadina lo avevano introdotto in un circuito che rende inapplicabile ogni schema e modello di società contadina ‘pura’…” (P. Villani, trasformazione delle società rurali nei paesi dell’Europa occidentale e mediterranea, Napoli 1986).

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

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