Una visita al Museo Lombroso

UNA VISITA AL MUSEO LOMBROSO

di Antonella D’Addazio
Devo la scoperta del caso Villella a Pino Aprile, che ne parlò diversi anni fa nel corso di una conferenza che ebbi modo di ascoltare. Fu grande la curiosità suscitata in me, ma soltanto poche settimane fa ho avuto modo di visitare il museo Lombroso, a Torino, che ospita il cranio del famoso “brigante”, almeno così è stato definito per troppo tempo. Ladro, brigante o altro Villella non è stato che un reperto scientifico per un secolo e mezzo. Nel 2009 l’inaugurazione del nuovo museo Lombroso ha provocato una grande resurrezione mediatica di questo infelice essere umano che, per qualche motivo, morì in carcere e non ha ancora trovata una dignitosa sepoltura.
Nel dicembre del 1870 Marco Ezechia ( Cesare) Lombroso esaminò il cranio di Giuseppe Villella, originario di Motta Santa Lucia (Calabria) e morto a Pavia, sei anni prima, dove era detenuto. Il giovane scienziato si convinse di aver fatto una scoperta sensazionale: rilevò che la fossetta occipitale mediana, dove si annida una parte del cervelletto, era più grande del normale. Poiché questa caratteristica compare nei lemuri ed in altri mammiferi, dedusse che in Villella erano riemersi caratteri primitivi, causa principale del suo comportamento; nacque così l’antropologia criminale, destinata a riscuotere enormi e controversi successi nel mondo. Queste teorie hanno fatto epoca, inculcando nell’immaginario collettivo una diversificazione razziale tra Nord e Sud Italia che, in realtà, non è mai esistita. Ed anche se le teorie di Lombroso sono state completamente confutate non soltanto dalla scienza moderna, ma già dal prof. Verga nel 1872 (i cui studi avevano in passato rilevato l’esistenza della fossetta in molti individui senza attribuire ad essa alcuna rilevanza), alcune sue idee sono così radicate che, troppo spesso, qualche ignorante di turno si esprime ancora oggi in modo infelice sottintendendo una presunta superiorità del settentrionale sul meridionale.
Non dimentichiamo, tra l’altro, che il cranio fu ritrovato da Lombroso nel 1870. Se autopsia vi fu, dovette avvenire alla morte del soggetto, nel 1864, ad opera probabilmente del dott. Zanini, che firmò l’atto di morte (come dovette ammettere lo stesso Lombroso pochi anni dopo). Nel 1906 invece, dichiarando il falso ad un congresso, L. affermò di aver egli stesso effettuato l’autopsia a Villella e ciò non era vero. Se avesse ammesso di non essere l’esecutore dell’autopsia avrebbe, in radice, destituito di fondamenta la sua teoria avallando, di fatto, le parole del luminare Verga che, più di trenta anni prima, aveva richiesto a Lombroso la prova del rinvenimento di un terzo lobo del cervelletto a sostegno della sua tesi, prova che avrebbe potuto fornire soltanto l’esecutore dell’esame autoptico.
Nel 1882, Lombroso, per le sue deliranti affermazioni, venne addirittura radiato dalla Società Italiana di Antropologia ed Etnologia. Aveva infatti svolto ricerche sul cretinismo, basandosi su comportamenti legati alla fisiognomica e , per compiacere i Savoia, quando il Veneto non era ancora parte dell’Italia unita, non ebbe timore di affermare persino che i Veneti rappresentassero i cretini tipici per eccellenza… Era di origine veneta anche lui.
Nel 1876 inaugurò a Torino un museo di psichiatria e criminologia che venne successivamente chiuso per un periodo lunghissimo e poi riaperto nel 2009, sempre intitolato a lui, nonostante sia stata ampiamente dimostrata la nullità scientifica dei suoi studi. Inoltre il cranio di Villella, calabrese, è ancora in mostra, e da protagonista, all’interno della struttura quale offesa e vilipendio nei confronti dei meridionali.
Il nuovo allestimento del museo vorrebbe comunque offrire al visitatore gli strumenti concettuali per comprendere come e perché questo personaggio, ancora oggi troppo controverso, formulò la teoria dell’atavismo criminale e quali furono gli sbagli che lo portarono a fondare una scienza poi risultata errata. Una visita in un luogo del genere potrebbe insegnare, ad una scolaresca saggiamente guidata, che occorre cautela nel leggere i risultati della scienza in quanto non è sempre così semplice comprendere il metalinguaggio di quelle informazioni che orientano la comprensione del messaggio espositivo.
Nella prima sala, ad esempio, un video basato su un dialogo immaginario tra due personaggi introduce al museo rievocando gli anni in cui visse Lombroso. La conversazione presenta il contesto sociale di quegli anni e si trasforma in una riflessione sul progresso, i suoi limiti ed i suoi pericoli. Non mancano, purtroppo, riferimenti inesatti a quella che era la condizione dell’ ex Regno delle due Sicilie al momento dell’annessione. Il positivismo di Lombroso si esprime comunque già nei primi ambienti del museo da un lato nell’ estrema attenzione per la statistica e l’accumulo di documenti e dall’altro nell’applicare il metodo scientifico a discipline anche preesistenti, con una speciale attenzione per la devianza: psichiatria, antropologia criminale, sociologia del genio, del folle e del delinquente.
Il museo accoglie lo scheletro dello stesso Lombroso, per sua volontà, in una teca in una delle prime sale. Una trentina di maschere in cera, che riproducono il volto di detenuti morti in carcere, rappresentano forse lo spettacolo più macabro; furono donate a Lombroso da Lorenzo Tenchini, docente di anatomia all’università di Parma, che le realizzò come una personale galleria degli aspetti anatomici, fisiognomici ed antropometrici propri dei criminali. Vengono inoltre conservati reperti umani raccolti e studiati da Lombroso e dai suoi allievi; tra questi una collezione craniologica alquanto ricca. Non sono più riportati provenienza e nome della maggior parte dei teschi, probabilmente sono stati rimossi.
E’ interessante anche ricordare che il primo importante lavoro scientifico di L. fu dedicato alla pellagra, malattia molto diffusa nelle popolazioni contadine dell’ Italia settentrionale, che si manifestava con dermatiti, diarrea e demenza, fino alla morte. Egli rilevò la correlazione tra pellagra e alimentazione a base di mais. Ipotizzò che a causare la malattia fosse la farina di mais avariata e ritenne così dimostrata la propria tesi che difese contro ogni indizio discordante, che addirittura nascose. Con il trattato profilattico e clinico su questa malattia (1892) la tesi di Lombroso si affermò anche all’estero. Anche in questo caso siamo di fronte ad un clamoroso errore scientifico: non è la farina avariata a provocare la malattia, bensì una dieta quasi esclusivamente basata sul mais. Infatti, nel 1937, ricercatori americani dimostrarono che la pellagra era dovuta alla carenza di acido nicotinico; questa sostanza, presente in uova, carne e lievito di birra verrà chiamata vitamina PP, da Pellagra Preventing.
Sono molte le fotografie presenti nel museo: ladri, assassini, pederasti ed anche bigami. Tanti volti inquietanti senza nome. Non dimentichiamo che nella seconda metà dell’ 800 la fotografia assunse un ruolo centrale sia nelle pratiche di controllo/repressione del crimine, sia nelle scienze come strumento conoscitivo dotato di un valore al tempo stesso rilevatore e certificatorio. La fotografia poteva supplire allo sguardo diretto e si sostituiva all’ oggetto stesso dell’analisi scientifica.
Al suo esordio come antropologo culturale, Lombroso incominciò a vedere anche nel tatuaggio un indicatore di criminalità che metterà successivamente in stretto rapporto con l’atavismo: sarebbe la regressione verso forme biologiche primitive a spingere i criminali ad imprimere indelebilmente sul proprio corpo disegni, simboli e scritte. Osservò infatti che l’uso del tatuaggio prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale.
Destano interesse, in una delle sale, le piante carnivore che offrono esempi di caratteri atavici nel mondo vegetale, quasi come se si trattasse di “piante criminali”. Atavismo deriva dal latino atavus, cioè il padre del trisnonno (atta=nonno). Il termine compare in Francia nel 1838 (atavisme) per indicare il ritorno dei caratteri di un antenato in un lontano discendente.
Sconvolgente l’abito di Versino (situato all’ interno di uno spazio dedicato al rapporto tra arte e devianza), una divisa altamente simbolica: non ha nulla a che vedere con i modelli di abbigliamento dell’ epoca, né con le divise dei manicomi. “L’ammalato di demenza precoce Versino G., ricoverato nel manicomio di Collegno, essendo incaricato delle pulizie quotidiane, ogni giorno dopo essersene servito, lava accuratamente gli stracci, poi li sfilaccia, quindi ne forma dei cordoncini coi quali intesse indumenti (…..) Il peso del suo vestito è di 43 kg e l’ammalato ben raramente, estate e inverno, si astiene dall’ indossarlo.” E’ quanto viene riportato sulla didascalia di una foto dell’ epoca.
Nella sala delle cosiddette menti criminali sono esposti manufatti realizzati da detenuti, ad esempio sculture in creta con scene che rievocano probabilmente le esperienze dell’autore. Una parete è occupata da una serie di orci per l’acqua, incisi con scritte e disegni da detenuti nel carcere di Torino, tristi tracce lasciate da vite oscure.
Un’altra sala è dominata dal grande plastico del carcere di Philadelphia, che costituì uno dei principali punti di riferimento delle carceri ottocentesche.
Nel corridoio di uscita sono esposti una serie di pannelli che illustrano alcuni degli argomenti più annosi e scottanti toccati da Lombroso: come affrontare la criminalità, come identificarla, che cos’è un genio, quali cure per la malattia mentale, come funziona il cervello, emancipazione femminile, identikit del criminale, spiritismo e paranormale per finire alla tanto discussa e annosa questione legata alla cosiddetta “razza”. Il razzismo lombrosiano è innegabile (e deprecabile anche nell’ottocento) e va ovviamente inquadrato in un contesto culturale e sociale che appartiene alla sua epoca; oggi la conoscenza del DNA ha demolito il concetto stesso di “razza” in quanto il colore della pelle (o la provenienza geografica) non possono avere alcuna rilevanza dal punto di vista intellettuale e morale.
Quasi alla fine del percorso una sala ospita quello che fu lo studio personale di Lombroso, che fu donato al museo nel 1947 dalla famiglia del suo allievo e genero Carrara. In questo spazio il visitatore vede il cranio di Villella protagonista sulla scrivania ed ascolta una voce sicuramente accattivante che pronuncia un discorso immaginario nel quale lo stesso Lombroso traccia un bilancio della sua esperienza culturale e scientifica.
Una considerazione andrebbe subito fatta: possiamo esporre un cranio con nome, cognome e luogo di nascita senza preliminari indagini per verificare se sia presente o meno una memoria locale di questa persona o, quanto meno, una traccia della sua esistenza ed eventualmente negoziare l’opportunità e/o le modalità dell’esposizione con i discendenti, qualora ve ne siano? Se fosse stato esposto, a mia insaputa, un cranio con il mio nome, cognome e luogo di nascita, magari di una mia omonima antenata, come avrei reagito?
Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che alcuni decenni dopo il cosiddetto “Risorgimento” un gruppo di esaltati criminali ha identificato in alcune razze l’origine dei mali del mondo fino a teorizzarne lo sterminio totale: questi signori sono stati chiamati nazisti e sono tuttora condannati in tutto il mondo mentre chi ha sterminato i meridionali, “confortato” anche da false e pericolose teorie, oggi viene considerato ancora un eroe ed ha grandiosi monumenti nelle nostre piazze. Si può comprendere che l’Università di Torino voglia mantenere un museo dedicato alla criminologia, scienza riconosciuta, ma non capisco perché non si debba restituire il cranio del povero Giuseppe Villella al paese d’origine, oltretutto dopo il pronunciamento in tal senso del Tribunale di Lamezia Terme. E mi chiedo perché non si possa cambiare nome al museo per dedicarlo ad uno scienziato più serio e credibile.