“la Messa della benedizione degli ulivi”

Le Rubriche della Meridionalità | Uomini e Donne del Sud (13) DOMENICA DELLE PALME: ALTRO CHE RAMOSCELLO D’OLIVO.
di Valentino Romano (*)

Oria, Pasqua del 1863.
La Domenica delle Palme dovrebbe essere una giornata che prepara e introduce i riti della Settimana Santa: lo scambio dei ramoscelli d’ulivo è un segno di pace e di tolleranza per tutti. O meglio, quasi per tutti. Certamente tale, infatti, non fu per il clero di Oria, popoloso centro agricolo del brindisino, che scelse proprio quella ricorrenza per dare sfogo ai propri risentimenti, invidiuzze, gelosie e beghe personali.
Era il mattino del 29 marzo e i fedeli del paese affollavano la cattedrale prima che cominciasse la Santa Messa a lungo attesa, quella appunto che è conosciuta come “la Messa della benedizione degli ulivi”: un’antica usanza propiziatoria che affondava le sue radici nei culti precristiani; si facevano benedire i rami d’olivo che poi venivano riposti in bella vista, a protezione della pace domestica, sotto un quadro sacro e negli oliveti perché ne propiziassero rispettivamente pace domestica e un futuro abbondante raccolto. Un rito contadino, entrato nella cultura di chi a questo mondo, in qualche modo si richiamava, fosse proprietario o giornaliero agricolo: io ricordo, ad esempio, come mio padre curava personalmente, raccogliendoli in casa e nelle nostre campagne, che i ramoscelli della “Domenica delle Palme” precedente, quando sostituiti dai nuovi, non fossero gettati nella spazzatura ma bruciati, a mo’ d’incenso sacrificale, nel camino di casa perché benedetti.
Va beh, lasciamo stare, sennò mi monta l’ennesimo groppo in gola …, torniamo alla nostra storia.
A Oria, per partecipare al rito della benedizione delle Palme e alla processione successivi che doveva richiamare l’ingresso di Gesù erano convenute anche le comunità religiose e tutte le confraternite del paese. E tutti dovettero attendere per almeno due ore.
Dietro le quinte, in sacrestia, si stava consumando una velenosa diatriba tra le dignità capitolari: il canonico Antonio Zecca, in qualità di parroco, aveva indossato i paramenti sacri e aspettava che altrettanto facessero i sacerdoti capitolari Pietro Conte, Cosimo Candita, Carmelo Carone, Filippo Mazza, Francesco Errico e Giovanni Carone che avrebbero dovuto assisterlo nella liturgia sacra. Ma questi “fratelli nel sacerdozio” non avevano digerito la nomina dello Zecca a parroco, voluta dal Vicario Capitolare, don Ciro Pignatelli, nomina riconosciuta dalle autorità civile ma avversata dal Vescovo Margarita.
Il clero oritano era diviso infatti in due opposte fazioni: una, legata al Vicario, era su posizioni progressiste e liberali e schierata con il nuovo Stato unitario, l’altra, guidata dal vescovo, difendeva strenuamente la caduta dinastia borbonica.
Per inciso, il vescovo Margarita la difendeva a tal punto da finire poi …al confino!
La diaspora, però, non affondava le sue radici esclusivamente nelle diverse impostazioni ideologiche ma riguardava soprattutto problemi assai più prosaici e sentiti come la gestione degli ingenti beni capitolari. Questione di soldi e di potere locale, per farla breve. Quasi sempre mascherate da inesistenti idealità politiche.
I sacerdoti summenzionati, perciò, benché obbligati dai regolamenti capitolari, si rifiutarono di assistere il parroco, tolsero i paramenti e se ne uscirono dalla chiesa, sostenendo di non «volere servire un Parroco illegittimo». E così «guastarono le sacre funzioni», come ebbe a commentare poi il can. Pignatelli (proprio quello dell’indirizzo ai membri della Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio …).
Due altri canonici, il tesoriere Pasquale Maggio e il penitenziere Cosimo Braccio apostrofarono duramente il parroco e, dandogli del “protestante e ribelle”, aizzarono i padri conventuali francescani e carmelitani che Zecca riteneva «avanzo gli uni e gli altri di fetido retrivismo e scandalo al paese». Così anche i religiosi si defilarono discretamente.
A questo punto la situazione era diventata veramente difficile: i fedeli premevano, volevano la celebrazione dei riti, nella semplicità della loro fede non capivano i motivi del dissidio e poco o nulla si curavano delle ideologie politiche o dei contrastanti interessi personali. Sacerdoti e religiosi, uscendo dalla chiesa, invitavano i fedeli a fare altrettanto, ma con scarso risultato. Che fare allora?
Il parroco Zecca, allora, ruppe gli indugi e aiutato dai pochi sacerdoti a lui fedeli, dette finalmente inizio alle celebrazioni: le Palme vennero benedette e la processione ebbe inizio «con pochi preti e molto popolo» che non aveva proprio un atteggiamento “pacifico”.
Visto vano il tentativo di sabotare i riti, i preti dissidenti fecero buon viso a cattivo gioco decisero allora di aggregarsi; lo fecero quando la processione aveva già raggiunto la «strada Piazzetta», provocando l’ira dei fedeli che li accolse con grida ostili e minacciose.
Dirà poi il canonico Zecca – nel corso del processo al quale furono sottoposti i preti ribelli per «fatti tendenti ad eccitare il disprezzo e il malcontento contro le Istituzioni e le leggi dello Stato» e per «rifiuto dei propri uffizi onde turbare la coscienza pubblica» – che i confratelli dissidenti «volevano lordare di sangue la nostra Patria con suscitare la ribellione».
Nella stessa deposizione il prelato lasciava intuire tutti gli altri motivi della contestazione: «si vedono girar per le case a far da confessori, amministrare i Sacramenti, celebrare forse 30 matrimoni clandestini ed altre sozzure». E, naturalmente, riscuotendo le relative offerte… La vicenda ebbe uno strascico ancor più pesante anche il venerdì successivo: un sacerdote, d. Francesco Errico, che curava personalmente la processione della Vergine Addolorata “sparse voce che il Governo non sentisse religione pel culto del Cristo” e provò pure a non fare la processione. Apriti cielo! I fedeli oritani che proprio dovevano essersi rotti le scatole … organizzarono una colletta, presero la statua dell’Addolorata e se la fecero da soli. Per loro Vittorio Emanuele o Francesco II in quel momento, quanto ad interesse, si equivalevano perfettamente: “nungliene potevafregàdemeno”, tanto dell’uno quanto dell’altro; pretendevano solamente il rispetto delle tradizioni religiose e, sia pure inconsciamente, dettero al clero una dimostrazione di saggezza e insieme di forza, non mischiando il sacro con il profano.
Naturalmente i preti oritani – tutti insieme -, retrivi e liberali – si guardarono bene dal metterci becco alcuno: il sospetto che, nella circostanza, i bravi popolani potessero essersi portati dietro non solo innocenti rametti d’olivo benedetti ma assai più nodosi rami principali della stessa pianta, ancor più “miracolosi”, era troppo forte e ben motivato per giunta.
Il risultato? Bastò un semplice ma fondato sospetto a mettere d’accordo gli uni e gli altri. E i bravi popolani fecero volentieri a meno di entrambi. I documenti d’archivio non dicono come fosse celebrata poi la Santa Pasqua, ma vogliamo scommettere che i riti furono celebrati regolarmente dal clero riunito?
Adesso, visto anche il particolare buonismo della giornata odierna, non vorrei dire, ma mi si affaccia prepotente un’ipotesi, simile a quella realizzata dai fedeli oritani, altrettanto utile e applicabile anche oggi. Quale? Quella dei rami …più consistenti! Dagli “antichi” abbiamo sempre da imparare. O no?
Amici, non mi resta che augurarvi serene vacanze pasquali. Ci risentiamo subito dopo. Intanto … buona domenica!

(*) Promotore Carta di Venosa