Ischia, il terremoto del 1883

Ischia, il terremoto del 1883 ed il racconto di Benedetto Croce
Il racconto del filosofo scampato a 17 anni alla catastrofe: «I miei anni più dolorosi»
di Antonio Castaldo

«È successa una Casamicciola», si dice ancora a Napoli per indicare un grosso disastro. Un modo anche scherzoso per parlare di un «guaio capitato» che dopo i fatti della serata di lunedì 21 agosto assume tutt’altra connotazione. Non è la prima volta che la terra trema e scuote fino alle fondamenta il borgo di mare sulla costa settentrionale dell’isola. Il 28 luglio del 1883 un sisma molto più devastante distrusse quasi completamente quello che all’epoca era un villaggio di pescatori e di villeggianti. In quel caso la magnitudo fu di 5,8 gradi, ci furono ben 2.313 morti, anche nei comuni di Lacco Ameno e Forio. Tra le vittime anche il padre, la madre e la sorella di Benedetto Croce. Il grande filosofo napoletano, allora 17enne, si salvò ma con gravi ferite che segnarono il suo corpo e la sua psiche in modo indelebile. Per tutta la vita, come ricordò la figlia Lidia, rivisse quei momenti: «Aveva appena conseguito la licenza liceale ed era in vacanza presso con la famiglia quando la terra tremò. Mio padre si salvò e fu estratto dalle macerie dopo due notti riportando la frattura di una gamba e di un braccio».

Il racconto di Croce

Era stato lo stesso Croce a lasciare un resoconto di quelle drammatiche giornate. Raccontò il momento esatto della scossa. Si trovava nel soggiorno della Villa Verde, dove la famiglia del proprietario terriero Pasquale Croce risiedeva per le vacanze. Il terremoto fece sprofondare il padre ingoiato dalle macerie, Benedetto Croce vide la sorella sbalzata verso il soffitto, quindi raggiunse la madre che si era rifugiata sul balcone, e da lì entrambi precipitarono: «Rinvenni a notte alta – scrisse poi il filosofo nel Contributo alla critica di me stesso del 1915 – e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò ch’era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo, come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina (ma più tardi), fui cavato fuori, se ben ricordo, da due soldati e steso su una barella all’aperto. Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio».


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