Indro, una pagina nera dieci grigie, cento splendide

Indro, una pagina nera dieci grigie, cento splendide

Indro Montanelli finì sul piedistallo solo alla fine della sua vita. Molti italiani lo amarono per i suoi settant’anni di grande giornalismo, la sinistra di stampa e di potere lo riabilitò per i suoi sette anni finali di antiberlusconismo. Così finì in monumento, lui che era convinto di avere “scritto sull’acqua” e di essere presto dimenticato. Invece si parla di lui da svariati giorni. Non come Principe del giornalismo ma come stupratore di minori, razzista e schiavista. Montanelli ha avuto una vita lunga, come le sue gambe. Se vogliamo dirla tutta, e considerare Indro nel contesto di tutta la sua vita e opera, diciamo che ha scritto una pagina nera, dieci pagine grigie e cento pagine splendide.

La pagina nera è quella di cui si parla in questi giorni: nera perché accadde nell’Africa, nera perché la vittima era un’abissina di 14 anni, nera perché lui era in camicia nera, nera soprattutto perché imperdonabile. Ma ogni cosa va ricondotta al suo tempo e al suo luogo: era l’epoca del colonialismo e del potere dei bianchi, era l’epoca in cui le africane, appena avevano il menarca erano da maritare; si sposavano a quell’età. Fu comprata, come usavano lì allora, non ci fu violenza ma consenso dei genitori e della ragazza, che chiamò poi il suo primo figlio Indro nel ricordo di Montanelli. E si rividero quando lei era già sposata. Non fu stupratore, nel senso violento che diamo, ma resta una pagina nera.

Poi, dicevo, ci sono una decina di pagine grigie, che sono i lati d’ombra d’Indro. Ve li riassumo in estrema sintesi. Montanelli fu fascista fino a guerra inoltrata e non diventò antifascista, come lui ha voluto far credere, prima del ’38. Tra tante testimonianze, ci sono due suoi libri: uno, Albania una e mille, pagato dal Minculpop fascista, un libro apologetico dell’Italia fascista che annetteva nel ’39 l’Albania. L’altro, uscito postumo, era una serie di suoi reportage in Romania nel ‘40, entusiasti del Capo delle Guardie di Ferro, Corneliu Zelea Codreanu, leader del fascismo spirituale (e antisemita) che lui intervistò prima che lo uccidessero.

Resta poi un’ombra sul suo passaggio da l’Universale di Berto Ricci al Corriere della sera; c’è chi disse, nel gruppo della rivista, che lui barattò il fascismo eretico della rivista (che poi fu chiusa, seppur d’intesa con lo stesso Ricci) con l’entrata nel prestigioso quotidiano milanese.

Del Montanelli grande giornalista restano un paio d’ombre: i reportage all’estero che i suoi colleghi facevano sul fronte e che lui faceva spesso dalla camera d’albergo, sulla base dei loro racconti; ma i suoi resoconti erano più veri e più smaglianti di quelli dei diretti testimoni. E poi alcune improbabili interviste, in cui sembrava che grandi leader (perfino Hitler) avessero detto a un giovane inviato italiano in un minuto quel che non avevano mai raccontato a nessuno. Montanelli fu uno scrittore di giornalismo che elevò a letteratura. Bisogna gustarne la narrazione e il giudizio, non la precisione e l’attendibilità. Nel dopoguerra, quando scoprì la vena di storico si avvalse di molti giovani di talento come ghost writer (uno dei primi l’abbiamo perso in questi giorni, fu l’enfant prodige Roberto Gervaso, altri furono Staglieno, Granzotto, Cervi). Ma prima, quando non c’era qualcuno a fare lavoro di bottega– mi è sempre spiaciuto dirlo, ma lo tirai fuori io, lui vivente, nel 1994 – ci fu la storia di un plagio: uno dei suoi primi libri di storia antica aveva pagine intere riprese da quelle dello storico Will Durant.

Ombre su Indro velarono poi i suoi rapporti con i suoi maestri e amici. Il modo con cui scaricò Longanesi e il Borghese, su cui pure aveva scritto con pseudonimo (Antonio Siberia), le distanze prese da Guareschi e il suo Candido, il suo maestro Prezzolini che non portò al Giornale perché troppo connotato a destra, e si potrebbe continuare. Salvo poi, post mortem, rivendicare la loro eredità. E ancora, l’atteggiamento ambiguo con la destra: i suoi lettori venivano in gran parte da lì, ma lui poi li portava a votare Dc o Pri, civettava col potere… In questa penombra c’è pure la sua campagna contro Enrico Mattei.

Infine la sua storia con Berlusconi che aveva salvato il suo Giornale, non si era mai ingerito nella sua direzione; ma quando il Cavaliere stava per scendere in campo contro la sinistra, temendo che avrebbe avuto una rovinosa sconfitta in cui avrebbe trascinato pure il Giornale, Indro si tirò fuori, e ruppe. A 85 anni fondò la Voce e scrisse una bella pagina di libertà ma anche di rancore, adorato dalla sinistra: il papa della destra scomunica la destra di governo. Per quella gloria fu riabilitato anche da coloro che quando fu gambizzato dai terroristi rossi, fecero finta di non riconoscerlo.

Queste sono le dieci pagine grigie di Indro. Ma sono dieci ombre rispetto alle cento pagine splendenti che ha scritto: ritratti magnifici, reportage brillanti, narrazioni incalzanti, editoriali e corsivi spumeggianti, stile scintillante d’ironia e paradossi, libri che avvicinavano alla storia i refrattari. E il merito di aver fondato quando gli altri vanno in pensione, Il Giornale; direttore in età senile dopo una vita da solista. E poi il coraggio, l’intelligenza, il non conformismo, la sua prosa inarrivabile, il suo cinismo scettico, ribelle e conservatore, antitaliano e arcitaliano. Non sono appassionato di busti e statue, come del resto neanche lui, ma Indro è a pieno titolo il Principe del giornalismo italiano. Una pagina nera, dieci pagine grigie, non fanno tutto Montanelli. Grandeggia sulle sue ombre e i suoi peccati.

MV, Panorama n.26 (2020)