«IO, MERIDIONALE, VOGLIO RESTARE ITALIANO»

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Gentile Luciano Garibaldi, nel numero 129-130 della vostra rivista riportate un articolo di Pino Aprile dal titolo «Quanti morti fanno un genocidio?». Concordo pienamente con la vostra risposta che non fa altro che riportarsi al significato che si è dato a questo termine per indicare il reato di genocidio. Purtroppo il sig. Pino Aprile si è posto sulla scia dei c.d. «neobobonici» che da tempo stanno conducendo, con sempre maggiore veemenza, una campagna diffamatoria contro il Risorgimento e l’Unità d’Italia, scimmiottando in questo (ma peggiorandone il comportamento) i leghisti del Nord Italia. Orbene è giusto ed è nell’interesse della Storia, revisionare quanto di errato o volutamente falso ci è stato tramandato dalla storiografia ufficiale che spesso è, quanto meno, inesatta perché tende a sostenere una tesi che fa comodo a chi governa (la vulgata) ed è, per così dire, politicamente corretto. La revisione è auspicabile se fatta nell’interesse della Storia il cui unico scopo è stabilire, per quanto possibile, la verità. Ma questo lavoro meritorio di revisione va fatto con assoluta onestà e senza indulgere alla tentazione di voler dimostrare l’esattezza di tesi che fanno comodo alla propria visione politica. In ciò la prima esigenza da rispettare è la correttezza dei dati e delle cifre dalle quali poi si potranno trarre le necessarie conseguenze sull’interpretazione degli avvenimenti e i giudizi sull’opera di chi della storia fu protagonista. Tutto questo non pare sia il caso del sig. Aprile e dei neoborbonici che si proclamano meridionalisti e non lo sono ed il cui unico scopo sembra essere non la ricerca della verità, ma quello d’infangare il Risorgimento, i suoi ideali e quelli che l’hanno fatto. Il sig. Aprile lamenta che nei libri di testo delle scuole non si parlò mai di brigantaggio. Ciò non è esatto, di brigantaggio si è sempre parlato, sia pure in tono minore e presentato come un fenomeno di delinquenza comune. In realtà il brigantaggio (che era endemico nel Sud) non fu quel fenomeno di idealismo, di fedeltà al Re Borbone e sorto a difesa della propria terra. Fu Un fenomeno reazionario, fortemente fomentato, sostenuto e sovvenzionato dal clero minuto, dal Vaticano e dalla Corte di Francesco II il quale sperava che, come ai tempi del cardinale Ruffo, le «insogenze» delle plebi meridionali lo ripotassero sul trono. Si avvalse pure dell’apporto di giovani stranieri e di militari idealisti come il Borges, ma molti altri erano gente che cercava il proprio utile. Non erano tutti meridionali del Sud basta leggere i nomi di chi comandava o tirava le fila della matassa: Lagrange, De Cristen, Ttrazeignes, Zimmerman, Bryan, Tristany, De Guiche, Maqssot, De Rivière etc. per capire che non si trattava di un movimento patriottico.
Dicono i neoborbonici che solo adesso apprendiamo fatti e stragi della conquista del Sud. Non ne parlavano i libri di scuola, ma tutto o quasi era noto. La strage di Bronte era arcinota tanto che ispirò una novella di Giovanni Verga. La strage però la commise la teppaglia scesa dalle montagne che massacrò il barone, sua moglie (che venne pure violentata) e due ragazzini suoi figli, il notaio ed altre 12 persone tutti rei di essere possidenti. Cosa avrebbe dovuto fare Bixio un quelle circostanze? Il vecchio ordine ere caduto il nuovo stentava a crescere, v’era il pericolo che i tumulti popolari si estendessero in quei tragici momenti. Bisogna contestualizzare i fatti e i comportamenti: così Bixio riunì un improvvisato tribunale militare che condannò a morte cinque paesani e ne rinviò 150 al Tribunale regolare di Catania. Si disse che uno dei fucilati, il sindaco Romano nominato dagli insorti, fosse presumibilmente innocente. Egli probabilmente non aveva preso parte personalmente all’eccidio ma, ragionò Bixio, per essere nominato sindaco dalla teppa era certamente uno dei promotori della rivolta.
Di Pontelandofo e di Casalduni chi voleva essere informato lo fu.
Nel 1863 il tenente colonnello Negri, che aveva eseguito la rappresaglia a Pontelandolfo, pubblicò in Torino un suo diario di quella azione: sono riportati molti particolari, ma naturalmente le cifre dei morti non sono quelle care agli storici della fantascienza. Sul brigantaggio vennero pubblicati numerosi libri che certamente non avevano grande diffusione, ma che erano a disposizione di chi voleva sapere. Cito a memoria:
«Brigantaggio nelle zone militari dal 1860 al 1865» di Giuseppe Borrelly, pubblicato a Napoli nel 1865; «Il brigantaggio nelle province napoletane» pubblicato nel 1864 che riporta le relazioni parlamentari Massari- Castagnola ed una serie di documenti coevi; «Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano» di Cesare Cesari pubblicato nel 1920 e tanti altri scritti tutt’ora a disposizione del lettore. Per inciso va detto che la Legge Pica [un provvedimento straordinario per la repressione del Brigantaggio NdR] era una legge provvisoria esecutiva per un solo anno, il 1863, poi prorogata di un altro fino al 31 dicembre 1865. Non la si applicò nella provincia di Reggio Calabria, dove brigantaggio non c’era, e non in Sicilia, se non limitatamente alla renitenza alla leva. Del resto il sig. Aprile non è il primo a «revisionare» la storia d’Italia basti qui riportare l’opera degna del teatro dei pupi di Antonio Ciano che nel 1996 diede alle stampe un fantalibro intitolato «I Savoia ed il massacro del Sud» dove tutto è inventato maldestramente, così come le numerose antistorie pubblicate da vari autori semi sconosciuti. Molti anni fa Carlo Alianello scrisse due romanzi, «L’alfiere del Re» e «L’eredità della priora» il primo sulla fine della dinastia borbonica il secondo sulla conquista del Sud e dal quale la RAI trasse un sceneggiato di notevole successo. Non è per nulla è anche vero che la storia ufficiale attribuì esclusivamente alla malavita il fenomeno del brigantaggio. La relazione parlamentare Massari istituita per studiare il fenomeno e proporre rimedi, riconosce esplicitamente che il fenomeno aveva anche radici sociali nelle condizioni misere delle plebi meridionali, aggravate dalla abolizione degli usi civici. Tutti questi neoborbonici si professano meridionalisti ritenendo che per esser tali occorra negare il valore e gli ideali del Risorgimento e dell’Unità d’Italia. Dimenticano che se il Sud venne conquistato dal Piemonte lo fu perché una dinastia (non italiana) era abbarbicata al concetto dell’inviolabilità della discendenza legittimista e non capiva dove andava la storia e cioè verso la costituzione di uno Stato nazionale che raccogliesse tutti i popoli italiani fino al quel momento «calpesti e derisi». Era infatti il regno delle Due Sicilie lo Stato più popoloso, più ricco e, forse pure, in certo senso, più progredito che avrebbe dovuto prendere l’iniziativa per l’unificazione della penisola, ma i Borbone questo non lo capirono e finirono come dovevano finire. Non è ammissibile che per portare alla ribalta della storia i torti subiti dal Sud si debba denigrare il Risorgimento, si debbano tenere nel nulla i grandi ideali di quei giovani che sacrificarono la vita per fare della nostra penisola un Paese unito, libero ed indipendente. Io sono con Pisacane, con i Fratelli Bandiera, con i fratelli Cairoli, con Luciano Manara, con Goffredo Mameli: sono nato italiano e voglio morire italiano e non duosiciliano.

CARLO BACCELLIERI
Reggio Calabria