Memoria senza retorica

𝐌𝐞𝐦𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐫𝐞𝐭𝐨𝐫𝐢𝐜𝐚
Da anni critico il monopolio della memoria e l’abuso, politico, ideologico, retorico, mediatico e perfino mercantile della Shoah. Lo faccio a viso aperto, in solitudine apparente, sopportando qualche conseguenza.

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Memoria senza retorica

Da anni critico il monopolio della memoria e l’abuso, politico, ideologico, retorico, mediatico e perfino mercantile della Shoah. Lo faccio a viso aperto, in solitudine apparente, sopportando qualche conseguenza. Ma nella giornata della memoria vorrei stavolta parlarvi, senza ipocrisie, di due opere di Primo Levi, Se questo è un uomo e La Tregua di Primo Levi. Mi hanno toccato profondamente. Ho tardato a leggerle, per il rigetto che provo quando una lettura è obbligata, da ossequiare a priori. Ma rilette al di fuori di quel cono mediatico ed enfatico acceso giorno e notte; rilette da uomo a uomo, con mente e cuore aperti, le ho trovate di struggente umanità.
Le ho lette, certo, con la mia, personale sensibilità e sono stato toccato in particolare da due cose che di solito passano in secondo piano: il suo pensiero del ritorno e la sua nostalgia della casa, dell’Italia, degli italiani.
“Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno” scrive Levi mentre lo deportavano e passando il Brennero figurava “l’inumana gioia” del passaggio inverso, in libertà, verso l’Italia, coi “primi nomi italiani”. Un’altra volta nel lager, sentendo passare un treno e sibilare la locomotiva, Levi sogna il treno del ritorno a casa: “sentirei l’arie tiepida e odore di fieno, e potrei uscire fuori, nel sole: allora mi coricherei a terra, a baciare la terra, col viso nell’erba. E passerebbe una donna e mi chiederebbe: “Chi sei? In italiano e io le racconterei, in italiano, e lei capirebbe e mi darebbe da mangiare e da dormire”. “In italiano”, ripete, con una densità evocativa del tutto priva di retorica.
Poi ne La tregua, Levi racconta la nostalgia come “una sofferenza fragile e gentile, essenzialmente diversa, più infima, più umana delle altre pene che avevamo sostenuto fino a quel tempo: percosse, freddo, fame, terrore, destituzione, malattia. E’ un dolore limpido e pulito, ma urgente; pervade tutti i minuti della giornata, non concede altri pensieri, e spinge alle evasioni”. E la voglia di raccontare, il veleno di Auschwitz dentro le vene, quei versi memorabili: “Sognavamo nelle notti feroci/ Sogni densi e violenti/ Sognati con anima e corpo/Tornare; mangiare; raccontare”. In quei tre verbi è riassunta non solo la speranza di chi è internato nei campi (non solo nazisti) ma anche di ogni agognato ritorno: il cammino a ritroso è spinto dalla fame originaria del cibo di casa, le pietanze della madre nell’infanzia, il pane condiviso coi famigliari e i commensali (compagni da cum-panis, non compagni politici). E raccontare, perché solo dicendo, condividendo, è possibile sgravarsi da quell’immane peso. Levi parla di ritorno, non di esodo, parla di casa e d’Italia non di terra promessa.
Levi, lo ricordano in pochi era stato balilla e avanguardista, proveniva da una famiglia blandamente fascista, suo padre indossava la camicia nera, come molti ebrei che parteciparono alla marcia su Roma, furono fascisti o si sentirono soddisfatti quando nel 1931, il regime fascista firmava un concordato con la comunità israelitica, riconoscendo per la prima volta statuto giuridico alla comunità ebraica. Poi arrivò la feroce demenza delle leggi razziali e Lefi, come altri ebrei, diventa antifascista. Il suo capolavoro, Se questo è un uomo, dapprima rifiutato da Einaudi, pubblicato da de Silva, è il canto dolente di ogni uomo di ogni tempo, terra e razza. E racconta il male patito da ogni uomo. Se parla all’umanità intera non può che raccontare il male universale e non uno, esclusivo, unico, assoluto. Sconfiggi il razzismo se rispetti le differenze ma comprendi che gli ebrei sono come noi, né eletti né maledetti. E vanno riportati all’umanità, rispetto a cui non stanno né sopra né sotto, né a lato, ma dentro. Come tutti noi.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 26 gennaio 2023)