Suicidi culturali

fragilitàSuicidi culturali
E’ tutta questione di… fragilità.

Il pensiero della morte di per sé turba (il padre lo sgrida: “Usi troppo il cellulare” e lui si suicida.
Un ragazzo di 15 anni si è suicidato dopo l’ennesima lite avuta col padre). È l’ultimo cambiamento, quello irreversibile.
Quando di mezzo ci sono i nostri giovani, è anche più difficile da accettare e siamo più propensi alla riflessione e a puntare il dito contro chi, secondo noi, è il potenziale colpevole, spesso non sapendo come i fatti sono realmente accaduti.

E in casi come questi non lo sapremo mai. Non lo sapranno nemmeno i genitori di questo ragazzo. Almeno in questa vita, ora. In futuro, se credono in qualche cosa d’Oltre, forse.

E’ chiaro che viviamo in un periodo storico nel quale abbiamo un’infinità di strumenti tecnologici. Sono questi che velocizzano e bypassano gli ostacoli che si presentano nella vita quotidiana, specialmente nella vita dei nostri figli. Crescono così i nativi digitali, e il rapporto che stabiliscono con gli strumenti tecnologici è spontaneo, acritico e spesso privo di qualsiasi consapevolezza cognitiva. E non parliamo di empatia cognitiva, quella della giunzione temporo-parietale del nostro cervello, che ci fa comprendere le emozioni, prima ancora di provarle.

È così che le debolezze umane si confinano in un cellulare, senza volerlo e questo confinamento alcune volte procura smarrimento. E l’autostima si abbassa, con conseguenze a volte definitive in alcuni giovani. Ma non vi sono colpe precise nei genitori che educano, perché chiedersi se ogni atto educativo sia davvero quello opportuno, in quel momento e per quel nostro figlio o figlia, diventerebbe una ossessione intollerabile, con la conseguenza di vivere in un ricatto morale continuo tra il giusto per noi e il gradito per il figlio. Un genitore non può vivere col timore di rimproverare o consigliare il proprio ragazzo con lo spauracchio di perderlo in nome della sua fragilità.

Certo, una soluzione la si deve trovare, e forse la pazienza costante, una continua interazione e partecipazione attiva ma discreta alla vita dei nostri figli, senza per questo dimenticare il proprio ruolo di educatori potrebbe essere uno stile valido. Eppure, queste cose, queste tragedie, non sono preventivabili, non sono ipotizzabili. Accadono e sono fulmini a cielo più o meno sereno.
Tag: antropologia della mente, educare, figli, Fragilità, genitori, morte, soluzione

Questo articolo è stato scritto giovedì 16 marzo 2017 

 

 
alessandro_bertirotti2Alessandro Bertirotti si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia per il Design all’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica, Dipartimento di Scienze per l’Architettura. Visiting Professor di Anthropology of Mind presso l’Universidad Externado de Colombia, a Bogotà; vice-segretario generale della CCLPW , per la Campagna Internazione per la Nuova Carta Mondiale dell’educazione (UNEDUCH), ONG presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Parlamento Europeo, e presidente dell’International Philomates Association. È membro della Honorable Academia Mundial de Educación di Buenos Aires e membro del Comitato Scientifico di Idea Fondazione (IF) di Torino, che si occupa di Neuroscienze, arte e cognizione per lo sviluppo della persona. Ha fondato l’Antropologia della mente (www.bertirotti.info).

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