” IL DOVERE” n.23 Forze riparatrici dell’incivilimento Italiano 2

dovere n 23Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da ” IL DOVERE” GIORNALE POITICO,SETTIMANALE PER LA DEMOCRAZIA – Genova sabato 18 luglio 1863 Num. 23
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CENNI SUL’ITALIA MERIDIONALE V.
Forze riparatrici dell’incivilimento Italiano
(Continuazione e fine)

Fra le leggi intese a correggere gli effetti dei cattivi ordini sociali nelle provincie napoletane, quella che concerne laffrancamento del Tavoliere di Puglia, votata con lodevole cura dal Senato nello scorso maggio, vuolsi annoverare fra le più importanti. È legge da emendare in alcune parti, onde rendere più agevole la liquidazione del canone agli attuali possessori, e con ciò accrescere nei medesimi la facoltà di estendere le colture, colonizzare le terre, e migliorare lo statu dei lavoratori del suolo. Ed alcuni ufficii della Camera dei Deputati raccomandarono ai loro Commissari utili emendamenti a tal fine. Ma tolto qualche vizio nei modi dell’applicazione, il concetto che informa la legge è giusto e conforme ai precetti della buona economia, ed ai principii della lilertà. Secondo la medesima, i censiti del Tavoliere saranno, dal 1.° gennaio 1864, costituiti nella condizione di liberi proprietari, e le loro obbligazioni verso lo Statu dovranno redimersi, mediante successivi pagamenti, in 12 anni di tempo, od in più breve termine, ad elezione dell’affrancato. Siccome il tempo prescritto dalla legge per la redenzione del canone e la conseguente gravezza delle quote dei pagamenti, potrebbero riuscire di non lieve danno ai possessori delle terre, massime ai meno agiati ai quali si devono usare maggiori riguardi di equità, così è probabile che la Camera allarghi su questo capo i limiti del progetto ministeriale e della deliberazibne del Senato. Ad ogni modo però, il fatto dell’affrancamento del Tavoliere porterà grandissimi beneficii alla Capitanata, anzi all’intera nazione, la quale ha un grande e generale interesse nello sviluppo delle speciali industrie e della straordinaria ricchezza naturale di quella importantissima provincia.Pel libero movimento della proprielà territoriale, per lo ampliarsi dell’industria agricola, pel restringersi della pastorizia nomade a vantaggio della pastorizia stabile e ben curata, 300,000 ettari del suolo più fertile che si conosca in Italia muteranno faccia in pochi anni,fioriranno d’ industrie, di commerci, di ricche, popolate, e ben costituite fattorie; mentre oggi di quei 300,000 ettari di terreno, 225,000 sono pasture selvatiche, possedute da non più di 4600 censiti, che maritano la propria inerzia all’ozio della terra; e gli altri 75,000 ettari sono mal coltivati poderi, appartenenti a 3220 possessori, la più parte carica di debiti fra pochi ricchi da un lato, ed una affranta e malsana Popolazione di miseri braccianti dall’altro.
So che taluni preferirebbero al modo di liquidazione proposto nella legge, che il capitale corrispondente al dominio diretto dello Stato fosse dedotto dai possedimenti degli affrancati in altrettante porzioni di terra, e queste distribuite a censo ai terrazzani e braccianti per conto del governo. Ma se tali operaziorri possono produrre utili effetti eseguite dai municipii nei loro demanii per la facilità, la presenza e la economia delle amministrazioni locali, non affermerei che praticamente fossero per riuscire a buon termine per iniziativa ed ingerenza dello Stato; nè che la classe che vorrebbesi in tal modo beneficare, mancando di mezzi, d’associazione e di educazione agricola, potesse per tal via sollevarsi a miglior condizione. Trattasi di terre che richiedono vaste e dispendiose bonificazioni, e che a cominciare dalle case coloniche, sono prive d’ogni elemento di buona agricoltura. Certo é poi, d’altronde, che l’affrancamento per se stesso, e la conseguente circolazione della proprietà, colla applicazione di capitali proporzionati alle necessarie colture, produrranno una profonda rivoluzione anche nelle condizioni del lavoro; che i salari si alzeranuo in ragione del maggior bisogno di braccia; e che il contadino, importaudo agli stessi proprietari di averlo industrioso, aitante, associato ai beneficii della terra, otterrà migliori patti, sia come colono parziario, sia come affittaiuolo. Il terrazzano, mutato ad un tratto in piccolo proprietario senza le scorte opportune a dissodare la terra,renderla fruttifera ed atta a stanziarvi la famiglia,rischierebbe di essere in breve divorato dall’usura, o spogliato dalla concorrenza dei ricchi proprietari. II mezzaiuolo e l’atffituario invece sarebbero solidamente garantiti dalla natura stessa dei loro contratti, e dal mutuo interesse dell’eque relazioni fra il capitale e il lavoro.
Più sicuro, a parer mio, è il successo dei piccoli censi redimibili dopo un determinato numero d’anni, nelle terre municipali, entro la cerchia per così dire domestica d’ogni Comune. Ivi il Municipio, naturale tutore dei suoi paesani, può agevolmente vegliare e promuovere l’industrià dei censiti, somministrar loro, occorrendo, aiuto e protezione nei primi esperimenti, allevare e crescere a vita propria il nascente ceto colla geniale influenza delle istituzioni comunali, colle casse di risparmio, colle scuole, colla solidarietà cittadina. I nuovi possessori delle terre divise, essendo le medesime a piccola distanza entro i territori della città, non hanno d’uopo di stabilirvisi, sinchè colle migliorie non vi abbiano sanificata l’aria, e cogli avanzi progressivi non si siano procacciato modo di fabbricarvi case a perpetua dimora; oltre di che, avendo altre industrie ed occupazioni nel Comune, non sono costretti a lasciarle. Ond’è che la divisione dei demanii comunali vuolsi incoraggiare con ogni studio, siccome vantaggiosa a tutte le parti, ed atta veramente a fare che i poveri lavoratori del suolo, i braccianti, gl’indigenti,diventino, a poco andare, utili, sobri, ed ordinati agricoltori. Meritano quindi lode que’Municipii, che diedero opera a questo provvedimento; fra i quali citerò a esempio la città di Canosa in Terra di Bari, che, nello scorcio dell’anno passato,deliberó di partire in novecentotrentaquattro lotti fra i novecentotrentaquattro padri di famiglia non possidenti (che tanti n’aveva il Comune) una terra incolta nelle vicine Murgie, concedendola a censo ai medesimi con la condizione di non poter vendere il fondo, senza la espressa volontà del Consiglio comunale; se non dopo un ventennio, e ciò per impedire che la tentazione di poco danaro conduca i censuarii a lasciarsi spogliare de’nuovi possessi da facoltosi e avari competitori, e renda vano il beneficio. Passati 20 anni, ciascun censuario rimane libero di alienare la terra, dando però la preferenza al Comune; o, se a questo non convenisse di ricomprarla, pagandogli il laudemio come a padrone diretto. II canone fissato pe’censi è lieve, distribuito in 4 classi secondo la diversa bontà del suolo, e ascende da 4 a 12 ducati all’anno per versura. La divisione fu stabilita a mezza versura per famiglia, di modo che ciascun censuario pana da 2 a 6 ducati soltanto; ma è tenuto, sotto pena della devoluzione del fondo, non solo a dissodarlo, ma a piantarvi alberi e metterlo a buona coltura; e se questo non fa nel termine di sei anni gliene segue la perdita del suo diritto. La ripartizione de’lotti o quote fu fatta a sorte per torre l’invidia della varia qualità de’terreni. La entrata annuale, che il Municipio di Canosa ricavava dalla detta possessione nel suo stato erboso ed incolto, aggiungendovi iJ reddito d’altra proprietà; che formava con quella un insieme di 610 versure, era di ducati 3329: 91, netti. Ora invece le 467 versure divise a censo, rendono per sè solo ducati 4148 al Comune; e sommando con esse i profitti dell’altre 433 versure non dissodabili, l’intera rendita netta ammonterà a ducati 4348: il che da un guadagno di 1049 ducati all’anno a quella provvida amministrazione municipale.

Per tal guisa la città di Canosa, mentre procacciava l’utilità del comune e ponevasi in grado di sopperire alle crescenti spese senza imporre nuovi balzelli, faceva nello stesso tempo opera benefica ed incivilitrice, migliorando la condizione de’paesani e dell’agricoltura nel proprio distretto. Principale promotore del beneficio fu il Consigliere, oggi Sindaco, signor Fabrizio Rossi, secondato con pronta e volenterosa cooperazione dall’ intero Consiglio. E il fatto merita onorevo!e ricordo. Altri Municipii, fra’quali quello di Potenza, o già dieder mano alla divisione di alcune terre, o si preparano a soddisfare questo ardente e giusto voto delle popolazioni di quelle provincie. Taccio, confidando nel tempo – il quale per ogni parte d’Italia importa moto rinnovatore ed affrancamento dalle tristizie del passato – di que’Comuni, che ai bisogni materiali e morali del paese si oppongono per ignoranza, avarizia, antichi abusi, odio del bene; preferendo all’educare
l’opprimere, all’istituire scuole il conservare in una cieca abbiezione le classi inferiori, all’aprire strade, industrie, commerci, il vivere in villana e ringhiosa salvatichezza, quasi fuori del mondo civile, pieni delle passioni e delle sette minuscole d’un’altra età. Fortunatamente sono pochi e poco importanti.
La maggior parte delle ciltà e delle terre dell’Italia meridionale segue, colla fortuna della patria comune, il moto civile de’tempi; e l’ impulso dato dalla libertà commerciale e industriale, dalle più frequenti e più rapide comunicazioni, dalle necessità della vita collettiva della nazione, al progresso economico, intellettuale e morale del paese, è incontestabile, malgrado tutte le contrarietà e tutti gli errori che si frammettono ad un più spedito avanzamento.
Ma, pur troppo, mentre le forze benefiche dell’incivilimento e del patriottismo italiano si affaticano al bene; mentre una nazione, che sorge a nuovi destini, cerca risollevarsi da lunga abbiezione a dignità morale, ed apportare il suo tributo ai progressi dello spirito umano, alla pace, alla prosperità dell’Europa; una funesta ingerenza straniera si adopera a dissolvere ciò che noi tentiamo edificare, facendosi custode ipocrita delle tradizioni barbare del passato, e fautrice del male. Quella ingerenza toglie all’Italia la metà dell’anima, occupandole il centro stesso dalla vita nazionale; e riesce assai più perniciosa, ne’suoi effetti, della dominazione militare dell’Austria, la quale è come un campo nemico attendato all’aperto, la cui presenza suscita le virtù guerriere de’nostri e li tempra alla lotta.

La Francia invece si striscia ed introduce con insidiosi avvolgimenti nelle cose nostre, come Tartuffo nell’altrui famiglia. E la debolezza della politica ufficiale, che governa le sorti della nazione, e prende norma a’suoi atti dalle esigenze di una falsa alleanza più che dagli intenti della rivoluzione italiana, fa maggiore il danno e la vergogna.
Le grandi questioni della indipendenza, dell’autonomia, del diritto del popolo italiano alla piena signoria di se stesso nell’assetto delle sue relazioni interne, sembrano poste dai nostri uomini di Stato fra le cose che dipendono dalla fortuna e dall’arbitrio altrui, più che dalla volontà e dalla virtù nostra. E questo avviene e si tollera in un paese, nel quale, tre anni or sono, una mano di eroi sorti dal popolo scrissero col sangue santamente versato per la libertà della patria, quel sublime poema “Da Marsala al Volturno” che ricorda ai contemporanei le più grandi gesta de’nostri antichi; in un paese, dove ogni forte e dignitoso appello alleultime prove troverebbe unanime risposta, non di parole, ma d’opere. Senonchè i nostri reggitori, lunge dal giovarsi con sapiente audacia delle generose dimostrazioni del patriottismo italiano, ad apparecchiarsi alla lotta – alla lotta possibile, necessaria, opportuna – alla lotta pel riscatto del Veneto; non osarono trarne argomento neppure a resistenza morale contro l’inganno francese, nè levar voce di severa protesta alla pe¬manente ingiuria dell’occupazione di Roma. E se alcuno d’ essi tentò assumere contegno più conforme alla coscienza ed alla dignità dell’Italia verso l’importuna e bifronte alleanza, cadde nel vuoto che gli fece intorno la pusillanimità del suo partito. Tanto é immedicabile nella maggioranza moderata il difetto d’orgoglio italiano!
Se, nella poca accortezza e nella sommessione della politica governativa, la forza delle cose e le intrinseche repugnanze degli Stati europei non soccorrono ai nostri casi, vedremo probabilmente le armi italiane fatte strumento di collegate ambizioni a vantaggio dei due imperi che ci calpestano.
V’è (nè vale il negarlo) un triste contrasto fra le tendenze del popolo italiano e l’attitudine del governo sì dentro che fuori. E questo contrasto è fonte di scoraggiamento, di dubbio, di discordie di parte. La unità di un grande partito nazionale più non esiste in ltalia, ne può. Esiste una profonda, maravigliosa unità morale ne’buoni istinti del popolo, e questa ci salva. Ma i partiti errano senza certo indirizzo, senza comune intento, per diverse vie, e finiscono nello scetticismo politico. Colpa di chi siede al timone dello Stato, senza, quella potenza assimilatrice, che nasce dall’intendere ed abbracciare nell’opera del governo il fine, il dovere, la missione di tutto un popolo. Né il frequente ed arbitrario frapporsi ad impedire l’esercizio pacifico de’diritti politici, l’offendere la libertà di associazione e di riunione, la libertà individuale, la libertà della stampa, giova alla autorità de’governanti, mentre nuoce alla educazione politica del paese. Sono errori di un falso sistema; razioni della effetti di una meschina politica, la quale, essendo inferiore alle aspirazione, le teme e le perseguita come rimprovero e sindacato importuno. Sinché il governo italiano, dimenticando i voti solenni del popolare suffragio, trascurando il mandato della nazione e l’intento supremo dell’unità della patria, piegherà la fronte al beneplacito di un potere straniero, il quale, sotto pretesto di proteggere la indipendenza della Chiesa, mira in realtà a distruggere l’Italia, né chi regge avrà solido fondamento nella stima e nell’ amore de’popoli, nè questi acquisteranno fede nelle proprie sorti o sicurtà nel proprio diritto. E la opposizione a questa politica da minorenni e da paggi diventerà, più forte ogni giorno, avendo con sè la miglior parte della coscienza pubblica. L’Italia è tratta dalla necessità della sua esistenza e dal suo buon genio a più nobili ed alti portamenti; e quella forza morale, che sta sopra alla prosunzione e agli arbitrii degl’imperatori e dei re mostra da 50 anni, nelle rivoluzioni europee, che poco valgono ad arrestarla gli eserciti più agguerriti, favorisce e fortifica la nostra causa contro l’indecorosa tutela. La politica che afflisso questi primi tre anni del nostro risorgimento, riuscirebbe, se continuata, a disfare – non la nazione italiana, – che Dio creò a vivere e progredire – ma qualunque governo o partito che s’ostinasse a proseguirla malgrado i segni de’tempi e la protesta della pubblica apinione.

Aurelio Saffi