La Tavola Amalfitana

La Tavola Amalfitana

La Tavola Amalfitana testimonia il notevole ruolo svolto da Amalfi nei traffici marittimi mediterranei.Le righe che seguono sono tratte da Storia del diritto marittimo italiano nel Mediterraneo (Giuffrè 1946, pp. 121-131) di Riniero Zeno ed illustrano il contenuto del codice marittimo che disciplinava le attività dei marinai della Repubblica di Amalfi intorno al XI secolo. Il documento, la cui scoperta risale solo al 1943, è conservato in una copia seicentesca presso il Museo Civico di Amalfi e la sua importanza è data dal fatto che raccoglie il più antico copro di consuetudini marittime del Mare Nostrum. Tali norme, riconosciute valide e adottate da diverse potenze marinare, costituirono per diversi secoli il codice universale del commercio per tutto il Mediterraneo.

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Dovendo parlare della legislazione marittima delle città italiane poste sui due versanti dell’Adriatico e del Tirreno è opportuno distinguere questi due bacini che formano entrambi parte di quello mediterraneo.
Sul versante tirrenico troviamo il primo gruppo di città che hanno una grande tradizione nella storia marinara: Genova, Pisa, Amalfi. Altri centri di minore importanza furono Napoli, Gaeta, Messina, Trapani, ma non tutti ebbero una vera e propria legislazione marittima. I documenti mercantili mostrano come, accanto alle consuetudini ed agli statuti del mare, vivesse rigoglioso nella pratica degli affari l’uso marittimo, quasi sempre limitato ai porti, ma talvolta esteso alla cosa viciniore col nome di “uso di riviera”. Quest’uso può anche cogliersi nei formulari, nei libri degli scrivani e principalmente nella giurisprudenza delle antiche curie marittime. Al bacino del Tirreno appartiene la cosiddetta “Tabula de Amalpha” la quale è una raccolta di consuetudini marittime osservate come legge del mare di Amalfi.
Dei 66 capitoli, che costituiscono tutto il corpo delle consuetudini, 21 sono scritti in latino e 45 in volgare. L’ordine dei capitoli non è regolare. Alcuni in volgare sono intercalati a quelli latini e qualche volta ne rappresentano la traduzione.
Notevole importanza per la storia di questo testo va data al fatto che gli Amalfitani, fin dai tempi della loro espansione coloniale, ebbero il privilegio del foro, cioè di essere giudicati da propri magistrati, il che porta che il loro “usus” potesse imporsi poi nelle curie del Regno anche quando Amalfi venne assoggettata al dominio normanno, e diventare il diritto comune marittimo del basso Tirreno, di cui la Tavola rappresenta la redazione forse più antica.
Tanta fortuna non fu del resto immeritata. Basterà guardare il contenuto per rendersene ragione.
Numerose sono le norme relative ai rapporti fra il “patrone”, i marinai ed i proprietari delle merci rimasti a terra o che viaggiano sulla nave. Su tutti campeggia la figura del “patrone del navilio” che poteva essere lo stesso proprietario della nave o, talvolta, un incaricato dei caratisti. Il padrone assume particolare aspetto nella “colonna” ad uso di riviera, che era il contratto tipico della Tavola amalfitana. Parecchi capitoli se ne occupano per disciplinare i rapporti con gli altri colonnisti. Il carattere essenzialmente associativo della colonna, diffusasi – com’è noto – largamente lungo le zone costiere del Tirreno per traffici di una certa entità, risulta dal fatto che la nave, l’equipaggio ed il carico formavano assieme ai mercanti ed ai loro capitali “una massa et unum corpus” con divisione così degli utili come delle perdite dell’impresa. Il “patrone” ne era il capo e come tale doveva dichiarare, prima d’intraprendere il viaggio, qual fosse la quota di partecipazione della nave, e far iscrivere nei registri del Consolato i patti e le condizioni della colonna. Appena dopo la partenza riuniva i marinai e i mercanti che is trovavano a bordo, mostrando loro il cartulare nel quale erano state annotate le merci imbarcate. Più che capitano-armatore era un socio d’impresa di cui era il capo con funzioni amministrative e tecniche, perchè era lui che aveva il governo della nave ed assumeva la responsabilità della navigazione, quantunque in certi casi le sue decisioni rimanessero subordinate al consiglio di bordo, cui partecipavano anche il nocchiero ed altri “boni huomini de lo navilio”; era lui che ingaggiava i marinai, ne sorvegliava la disciplina e stabiliva le condizioni di arruolamento; era lui, infine, che procedeva – a viaggio ultimato – al riparto degli utili e delle perdite.
Dall’arruolamento “ad usum de rivera” si distacca quello “ad soudo” che pure contemplato in parecchi capitoli. L’arruolato a salario non era socio della colonna e pertanto aveva diritto solo alla mercede, della quale gli veniva corrisposto un anticipo all’atto dell’ingaggio sotto forma di prestito, che doveva essere restituito in misrua doppia, qualora si fosse pentito e non avesse intrapreso il viaggio. Il salario aveva carattere privilegiato su qualunque altro credito, anche nel caso di vendita forzosa della nave.
Oltre al contratto di colonna ve ne sono altri nella Tavola. Quello di “conserva”, mediante il quale una nave contraeva società con un’altra in occasione di uno stesso viaggio, accomunando negli stessi rischi di mare gli utili e i danni e dividendoli in entrambi i casi secondo i patti del contratto; quello di noleggio che, pur non essendo minuziosamente regolato, in quanto buona parte delle norme del trasporto rientrava nella colonna, era certamente in uso nei lunghi viaggi con navi di grosso tonnellaggio, ond’è che la Tavola prevede i casi di cattivo stivaggio e di getto delle merci in rapporto alla responsabilità dell’equipaggio e della nave. Nel primo caso, quando il proprietario della merce adduceva che questa era rimasta danneggiata per colpa del padrone della nave, era tenuto lo stesso al pagamento del nolo, ma quello doveva prestare garanzia per il risarcimento del danno, se provato.
Quando occorreva procedere al getto della merce per la salvezza del rimanente carico e della nave, il padrone aveva l’obbligo di consultare i componenti l’equipaggio, dopo di che invitava i mercanti al getto, ed in loro assenza lo scrivano di bordo annotava nel suo registro ciò che era stato gettato in mare, mentre all’arrivo in porto della nave veniva fatta in consolato la relazione di avaria dal padrone stesso assieme allo scrivano ed ai marinai.
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