Briganti e piemontesi

Nel ricordo di Luigi Angiuli, raffinato intellettuale del Sud che percorse i palcoscenici della sua e nostra terra …

Valentino Romano

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Una mia postfazione al bellissimo lavoro teatrale di Luigi Angiuli, artista raffinato e autentico intellettuale del Sud!

Luigi Angiuli, Briganti e piemontesi, prefazione di Pino Pisicchio, postfazione di Valentino Romano, Levante Editori, Bari, 2011.

“Non ha nome il protagonista di questa pièce teatrale.

Così come, quasi sempre, non hanno nome i protagonisti della rivolta anarcoide del mondo contadino che infiammò le terre del Sud all’indomani dell’unificazione dell’Italia: figli di una umanità dolente alla quale non soltanto vennero negate le ragioni, ma soprattutto il diritto ad un cantuccio nella storia; comprimari di vicende certamente più grandi di loro che ne avrebbero comunque condizionato l’esistenza.

Il protagonista è un vecchio, perché gli uomini e le donne del brigantaggio hanno bruciato, nello spazio di un soffio di vita, la loro giovinezza. Nel suo agire non c’è odio verso il carnefice al quale si rivolge: c’è solo ansia di spiegare, di far capire. E il suo proscenio è una “fossa”, dove però la giustizia dello Stato e le giustizie del vincitore, non sono riuscite a far espiare del tutto la pena: perché è “fossa”, ma “fossa dei viventi”; perché le ansie di confusa libertà, di lotta alla sopraffazione, di riscatto, di un’esistenza dignitosa, di una vita normale – pur imprigionate – sopravvivono, riemergono imperiose e irrompono sul palcoscenico della nostra storia. È vittoria parziale, dunque, quella del vincitore di allora che non è riuscito a sradicare del tutto la “mala pianta” dell’esigenza di affermare i propri bisogni e le proprie ragioni.

Le ragioni del malessere del mondo contadino dei primi anni della difficile Unità, che una letteratura cortigiana e superficiale e una storiografia bugiarda e partigiana hanno confinato con faciloneria nell’assai ristretto ambito della “delinquenza organizzata”, tornano – in questi anni di profonda lacerazione del sentimento unitario della nazione – alla ribalta: la lettura che se ne sta facendo – e questo a mio avviso è un errore – è più politica ed ideologica che sociale e antropologica. Fa “tendenza” e forse anche mercato parlare oggi di brigantaggio, di Sud, di Terronia. Lo dimostra il fiorire di tante pubblicazioni negli ultimi mesi. Ma le ragioni vere di dramma contadino stanno comunque emergendo, affidate anche alle geniali intuizioni di una pièce.

Luigi Angiuli, con una vena di discreta poesia e con la competenza di chi a quel dramma si è accostato con lo scopo duplice di capire prima e salvare la memoria dopo, sintetizza efficacemente le vere ragioni del ribellismo contadino

Il ricordo consapevole, il suo tramandare, il suo diffondere sono affidati a un postino inconsueto, al vento, perché spesso la storia del brigantaggio, più che nei saggi, nei romanzi, nelle carte d’archivio è affidata alla tradizione orale.

E il vento della memoria riporta l’eco di sofferenze lontane e vicine e cerca di far capire. Perché qui è il nocciolo della questione: comprendere, far comprendere.

Il giudice immaginario di Angiuli, quello che ha condannato una speranza e un’ansia di riscatto non ha capito. Probabilmente non è in grado neanche adesso di cogliere il messaggio della memoria.

Ma la sconfitta armata del mondo contadino che si ribellò al “nuovo” che avanzava non ne cancellò le istanze.

Al brigante incarcerato si è potuto negare la possibilità di vivere pienamente il suo tempo, si è vietato di continuare a lottare per una vita normale, ma non gli si è potuto impedire di continuare a sognare, a modo suo, di sperare, di pensare.

E i suoi non sono pensieri di rabbia e neanche di rassegnazione: i silenzi del carcere gli hanno consentito di interrogarsi lucidamente sulle reali motivazioni della lotta: perché ho lottato, contro chi ho lottato?

Il “brigante” lo ha fatto perché la lotta di chi è lupo e non coniglio è nel suo dna, perché ha visto aggredito e ridotto il suo spazio vitale, perché si è sentito accerchiato da interessi più grandi di lui, perché si è visto stretto all’angolo. Ha lottato alla cieca, come un animale braccato, ha reagito con violenza alla violenza; talvolta ha provocato la reazione violenza. Una lotta istintiva, confusa, senza esclusione di colpi, spesso contro un nemico non bene individuato. Comunque una lotta contro il potere che lo opprime.

Già, il potere. La rivoluzione che in un primo tempo il mondo contadino ha appoggiato, inneggiando al Garibaldi liberatore, era quella che si aspettava: una rivoluzione sociale. Ma le premesse e le promesse si sono subito manifestate come non veritiere. I contadini si sono trovati di fronte a una rivoluzione borghese, ad un cambiamento più di facciata che reale, ad una sostituzione di padroni. E la consapevolezza di ciò è stata la scintilla che ha fatto esplodere la violenza, incendiando il Sud.

La lotta del brigante postunitario, affrancata dalle molte motivazioni ideologiche pure fortemente esistenti, è dunque lotta contro un nemico spesso invisibile, raramente ben individuabile; contro un nemico non organizzato in strutture visibili, ma del quale si avverte la presenza, impalpabile ed a allo stesso tempo opprimente. E’ lotta contro il potere, quale esso sia.

Così gli uomini che prontamente saltano il fosso – siano essi i pavidi generali borbonici acquistati a poco prezzo, siano gli uomini dell’apparato burocratico statuale del Regno delle Due Sicilie che cambiano bandiera con la stessa disinvoltura con la quale ci si cambia d’abito – sono l’espressione tangibile di quello scontro di poteri forti che costituisce una delle motivazioni remote della nascita della nuova Italia.

Detto a lettere più chiare: gli ideali nobili del Risorgimento sono stati traditi per fini molto meno nobili e, purtroppo, assai più concreti. L’Italia savoiarda, che è nata sulla punta delle baionette e si è consolidata con i fucili dei plotoni d’esecuzione dei Tribunali Speciali di Guerra, è la vittoria finale delle forze moderate, la sconfitta di quelle autenticamente rivoluzionarie. La causa nazionale, dopo la sconfitta del 48, è stata sostanzialmente sequestrata dai moderati e dal Piemonte (come giustamente, a mio avviso, affermava Carlo Rosselli), svuotata nella sostanza di tutto ciò che era realmente “rinnovatore” per essere ricondotta in un alveo assai più ristretto di un semplice problema di libertà esterna e territoriale, di libertà apparente dallo straniero.

I contadini del Sud, seppur inconsapevolmente, vagheggiarono semmai un Risorgimento popolare, una forma di autoriscatto del popolo, una sorta di affrancamento sociale.

Un sogno al quale non seppero dare un nome e non potettero dare una progettualità politica; furono capaci soltanto di dargli la forza della violenza immediata. E diventarono briganti.

Oggi, con la serenità che una sedimentazione delle passioni di parte lunga 150 anni comporta, non li si può inquadrare complessivamente in un’ottica solamente criminale, né li si può idealizzare al punto di trasformarli in eroi partigiani. Li si può solo comprendere.

In fondo è ciò istintivamente chiedevano, è ciò che il vecchio protagonista della pièce di Angiuli chiede: capitemi, non dimenticatemi, lasciatemi vivere il sogno di “volare pure io”.

E la negazione sistematica di queste istanze costituisce il più grave torto della storiografia ufficiale e di regime, che sulle sofferenze del mondo contadino del Sud ha preferito stendere gli “interessati veli” di una retorica falsamente celebrativa e patriottarda”.