D’Annunzio, Napoli e ” ‘a vucchella “

D’Annunzio, Napoli e ” ‘a vucchella “

di Sabino Morano

Quando nell’inverno del 1891 Gabriele D’Annunzio arrivò a Napoli, avrebbe dovuto restarci soltanto poche ore, ma, travolto da quello straordinario e vivace ambiente culturale che la Napoli di quegli anni, come altri pochi posti al mondo, poteva offrire, finì per restarci per circa ventiquattro mesi.

Era giunto in città, infatti, spinto solo dal desiderio di salutare il vecchio amico Edoardo Scarfoglio, anche lui di origini abruzzesi, che, insieme a sua moglie Matilde Serao, aveva diviso con il “Vate” l’esperienza della redazione romana del “Capitan Fracassa”. Il rapporto del grande Poeta con la coppia era di profonda amicizia tanto che, quando i due intellettuali erano convolati a nozze nel 1885, sul quotidiano La Tribuna era apparsa la cronaca della giornata, sotto il titolo “Nuptialia”, scritta dallo stesso D’annunzio.

I due si erano trasferiti trasferiti a Napoli pochi anni prima, nel 1888, su invito del banchiere livornese Matteo Schilizzi che, innamorato della città, vi aveva spostato la propria residenza abituale, per dar vita al quotidiano “Il Corriere di Napoli”.

Proprio nel primo periodo di quella lunga permanenza napoletana dell’”immaginifico”, la coppia Scarfoglio-Serao stava accingendosi a compiere quello che (anche se probabilmente determinante per la fine della loro unione matrimonial), si rivelerà un passo decisivo per la storia del giornalismo napoletano: avrebbero infatti di lì a poco lasciato il “Corriere di Napoli”, per fondare “Il Mattino” che vedrà il suo primo numero uscire il 16 marzo del ’92.

La nuova redazione de Il Mattino diviene immediatamente il crocevia di incontro di una serie di personaggi straordinari che in quegli anni popolano il panorama intellettuale della città, gente come Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco, Mario Giobbe, Arturo Colautti, Ferdinando Russo.

Gabriele D’Annunzio fu amico di molti tra questi, lasciandosi andare a quella vita di travolgenti passioni che il poeta tanto amava condurre, e che la Napoli di quel tempo, così bene, sapeva offrire senza avarizia. Tra i pomeriggi al caffè Gambrinus e le “spedizioni” in carrozzella allo Scoglio di Frisio per godere del panorama posillipino e dei leggendari vermicelli alle vongole di ‘o pacchianiello, questa eccezionale comitiva fu la compagnia abituale del D’Annunzio che, in modo particolare, si legò a Ferdinando Russo, il grande poeta napoletano, eterno amico-rivale di Salvatore di Giacomo, intelligenza pirotecnica della Napoli eccezionale di quegli anni.

In una edizione dell’”Inferno della poesia napoletana”, il sempre compianto Angelo Manna racconta come Russo, in cui il Vate riconosceva il simbolo della napoletanità, fosse capace (in una sorta di vesuvianissima versione de “Lo strano caso del dottor Jekyll e di mr. Hyde”) di trasformare “l’immaginifico D’Annunzio nel figlio di ‘ntrocchia don Nunzio”, aduso al modus vivendi della migliore tradizione degli scugnizzi partenopei.

I due grandissimi poeti, al tempo nemmeno trentenni (Russo aveva 25-26 anni e D’Annunzio 28-29), formavano una coppia formidabile che furoreggiava in tutta Napoli: dal Gambrinus ai caffè di Toledo, dalle redazioni dei giornali ad ogni angolo di strada, si parlava di loro, dei loro versi, delle loro conquiste sentimentali.

In quel periodo la città conosceva probabilmente il suo massimo splendore dal punto di vista letterario e musicale: erano gli anni del teatro di Edoardo Scarpetta, delle poesia di Bovio, di Di Giacomo e dello stesso Russo, della musica di Gambardella e Tagliaferri. Fu proprio in questo clima straordinario che Don Gabriele D’Annunzio scrisse la famosissima “‘A vucchella” che, successivamente musicata da un altro grande abruzzese trapiantato a Napoli Francesco Paolo Tosti (quello stesso che compose la melodia per le parole della poesia “Marechiaro” di Salvatore di Giacomo, dando così vita ad uno dei più grandi successi della canzone napoletana di tutti i tempi), diventerà, grazie alla voce leggendaria di Enrico Caruso, un successo internazionale.

Circa la nascita di questa canzone si sono diffuse almeno tre versioni. La prima vuole che D’Annunzio l’abbia scritta per dimostrare allo stesso amico e corregionale Tosti d’essere capace di poetare anche lui in napoletano, al pari dei poeti suoi amici.

Secondo Roberto De Simone invece la canzone sarebbe nata in un bar della galleria Umberto I che stava di fronte al salone di un certo barbiere De Francesco, nipote di un barbiere-cantante noto come ‘O zingariello, e sarebbe stata ispirata dalle labbra della trentenne siciliana Maria Gravina di Cruyllas di Rammacca, moglie del conte Anguissola di San Damiano (fiamma dannunziana da cui il Vate, nel gennaio 1883, avrà una bambina, Eva Renata Adriana) e “proprietaria” della “vucchella”, per descrivere la quale il Vate inventò l’ormai celeberrimo neologismo “appassiuliatella”.

La terza versione invece vuole che la canzone sia nata in risposta ad una sfida lanciata proprio da Ferdinando Russo tra i tavolini del Gambrinus e la redazione del Mattino, e che la “vucchella” a cui si riferiva il D’Annunzio non fosse quella della sua contessa, bensì invece si trattasse della bocca soave che completava divinamente il viso di una conquista del Russo.

Una laectio di quest’ultima versione ce la riporta anche un delizioso racconto che fa proprio Angelo Manna ne “L’inferno”, la sua antologia della poesia “peccaminosa” napoletana, che, oltre a contenere numerosi versi “proibiti” di Russo, ospita la famosa (per i cultori del genere) “ Ad lunae sororem…”, la lirica elegantemente scollacciata che D’Annunzio dedicò alla descrizione poetica del deretano.

Nel racconto di Manna una sera don Gabriele, recatosi alla redazione del Mattino, trovò ad attenderlo un plico contenete dei versi anonimi che erano la parodia della più belle liriche del “Poema Paradisiaco” di D’Annunzio:

Anima taci. Quante dolci cose
vo’ dirti! Quante cose desiate
io vo’ dirti, così le cose amate
(anima senti) son come le rose
disfatte, a mala pena profumate.

Anima non temere. Il violento
battito del mio cor non ti spaventi…
(Oh, senti, anima mia, senti)
Non dunque, allor, ne le foreste i venti,
si lamentano com’io or mi lamento?

(Odi ruggir lontano il fiume antico?)
Amico, vieni; appressati all’amico,
l’amico tuo che t’ama e ti sorregge,
le cose umane nell’umana legge
dell’infinito, sono vaporose.

(Odi ruggir lontano il fiume antico?)
Riscaldati le mani, Anima dico:
riscaldati le mani. Sono fredde
le tue mani. Ed il letto è sì pudico!
E’ sì pudico, è sì pudico il letto!

Non c’era firma, ma la natura dello scherzo e la grafia non lasciavano adito a dubbi: l’autore dei versi era Ferdinando Russo che aveva lanciato il suo scherzoso guanto di sfida all’immaginifico, guanto che inevitabilmente don Gabriele avrebbe raccolto riproponendosi di render pan per focaccia alla prima occasione utile.

Occasione che si presentò puntuale poche sere dopo, quando Roberto “Baby” Bracco, alla presenza del D’Annunzio, iniziò a descrivere gustosamente l’ultima conquista amorosa del Russo, provocando, tra l’ilarità e la curiosità dei presenti, l’ira di quest’ultimo che era notoriamente di carattere gioviale e scherzoso, fino a quando non si parlava di suoi fatti personali. Proprio quando Russo, infastidito dalla poca discrezione dell’amico, polemicamente stava per andarsene dopo aver pronunciato un perentorio “Bona sera a’ stanza!”, il Vate lo fulminò con lo sguardo e puntandogli l’indice iniziò a scandire:

Sì, comm’ a ‘nu sciurillo
tu tieni na vucchella,
nu poco pocurillo
appassiulatella…

Verso l’aprile del 1893, quando D’Annunzio si era ormai fatto persuaso di dover abbandonare Napoli, scrive all’amico Angelo Conti: “Sono nauseato di questa vita napoletana. Questa è una Beozia. (…) Scriverò a Martini con calore. Egli mi ha offerto una cattedra liceale. Che dici? L’accetto?”.

Più della stanchezza della vita di bagordi partenopei, pare però che a mettere in fuga da Napoli il Vate sia stata una interminabile lista di creditori, tra cui figuravano diverse consorterie di poco raccomandabili usurai, a cui il Poeta aveva sovente fatto ricorso per appagare la propria notoria passione per le spese smodate. Probabilmente è vero, come dissero molti, che il biennio napoletano non fu per D’Annunzio un periodo particolarmente prolifico, ma, in ogni caso, come scrisse Scarfoglio, “fu da Napoli che il riconoscimento pubblico di Gabriele D’Annunzio come poeta della nuova latinità fu portato ai confini del mondo, e dalle frontiere più lontane della cultura rifluì in Italia e si impose con la forza di una mole schiacciante”.

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profile_photo-200x200Scritto da Sabino Morano

Nato ad Avellino nel 1981, da sempre mi incuriosiscono l’uomo ed i suoi comportamenti, potrei dir di me stesso d’essere un “Appassionato studioso del genere umano” come Luigi Natoli fece autodefinire il Cavaliere Coriolano, della Floresta nel suo “I Beati Paoli”. Conseguenza quasi diretta, ne sono stati il mio gusto per la discussione ed il ragionamento, il piacere nello scrivere (sperando di non arrecare troppi dispiaceri in chi legge) e la ricerca perpetua dell’impegno politico in tempi in cui la politica è caratterizzata dalla richiesta del disimpegno. Tradizionalista, ma non tradizionale, per necessità d’animo, prima che per vocazione, in quanto trovo la modernità di una noia mortale…

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