Lo sciuscià

Lo sciuscià
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L’umile mondo, petulante e lamentevole, d’uno sciuscià emerge in questo testo di Carlo Bernari, scrittore e partigiano, nato a Napoli nel 1909 da una famiglia d’origine francese. Il dialogo con un lustrascarpe presso la stazione di Piazza Garibaldi, riportato in “Napoli silenzio e grida” del 1977, è un viaggio nelle miserie del sottoproletariato napoletano.
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Non è ancora l’alba; mentre m’avvio verso la stazone qualcuno mi viene incontro con voce supplichevole e insieme perentoria: “Non vorrete partire con le scarpe sporche?” tracudo alla men peggio la frase, nell’illusione di riprodurne il tono. E non è facile. Bisognerebbe essere come colui che mi ha fermato: cinquant’anni, ma ne dimostra trenta (o forse gli somiglierebbe di più se dicessi: un uomo di trenta, che ne dimostra cinquanta?). Biondo, con qualche filo bianco che soltanto da vicino riesci a scoprire; viso asciutto da scugnizzo, ma solcato da rughe; sorridente, ma sdentato. Non basta: bisognerebbe vederlo com’è vestito; un giaccone kaki da militare, sopra un maglione dello stesso colore, e un paio di pantaloni di tela leggera che sventolano al minimo alito. Infine qualche parola sul pezzo di pane che gli oho visto fra le mani mentre lo addentava con fatica da tutte le parti: era un pane che passando di tasca in tasca e da una mano all’altra ha acquistato un colore fra il grigio e il marrone.
Cedo al suo invito. E lui, già chino spazzolare e senza distogliere gli occhi dalle scarpe: “Se non s’esce di notte non si fa giorno”. Significa che chi dorme non piglia pesci. E continua. “Ho quattro figli, e tutti e quattro disoccupati. Il primo che lavorava da lettrauto, gli è andato il piombo dell’acido dentro, che ora, con rispetto parlando, sputa che, salute a voi… Quattro lastre all’assicurazione e tutte positive, ma ora la Cassa mutura, d’accordo col padrone, dice che non è piombo e non è acido”.
“E dove abiti, lontano?”.
“Alle scuole”.
“Alle scuole?”.
“Ci dovevo capitare a cinquant’anni alle scuole! All’Alessandro Volta… A piazza Carlo III, ne siamo cinquantamila, un paese… Quasi tutti sinistrati… Il guaio è quando ci levano la luce… Sapete, siamo tanti… All’oscuro può capitare qualunque cosa”.
“E non protestate?”.
“E con chi?… C’è uno che ci tiene a bada… Ogni mese piglia a chi cinquanta, a chi cento, a chi duecento… Dice che è per la luce… Mentre a noi la luce ce la dovrebbero dare gratis… Sarebbe ancora niente; il guaio è che mia moglie è malata… Faceva la pigiamista in una fabbrica, ma come sì’è chiusa la fabbrica lei s’è messa a letto… Il medico della Cassa dice una cosa, chiami un altro medico e ne dice un’altra… Ci avevano detto che chi metteva la firma per tre mesi, poi prendeva la disoccupazione per altri tre mesi… Moglie mia l’ha messa per sei mesi, malata e buona, (cioè malata com’era) ogni mattina andava all’ufficio di disoccupazione e invece ora se ne vengono che non so che certificato ci manca, e bisogna rifare tutto da capo…”.
“Ossia, firmare per altri tre mesi la presenza di disoccupazione”.
“Magari… Anche per sei mesi! Abbiamo scritto al signor ministro”, (il povero lustrascarpe, all’oppsoto di quanto ci si aspetterebbe da lui, ci tiene a mantenere le distanze) “e il signor ministro, proprio in persona ha risposto che dobbiamo fare un altro certificato… Sempre difficoltà quando devono cacciare un soldo”.
Il fatto che io mi sia interessato della sua via, che gli abbia promesso una visita alle scuole o di fare qualcosa per lui o per suo figlio, assai più che non i pochi soldi che gli offro, hanno aperto il cuore del piccolo Formisano ad una speranza. Vorrebbe darmi testimonianza di gratitudine chinandosi di nuovo sulla scarpa già pulita, per farla ancora più lustra. Ma la scarpa comincia a scottarmi, ora che dal Formisano lustrascarpe è emerso l’uomo Formisano, che s’aggrappa persino alle più fatue promesse, ma pur sempre con dignità.
“Magari mi ci avessero mandato a scuola quand’ero scugnizzo!” sospira appannando con un sospiro la punta della scarpa che ritiro dal trespolo.
“Basta!” dico e gli offro da fumare.
“Un’altra passatina alla sinistra!” mi dice con una strizzata d’occhio, per farmi capire che mi fa un lavoro speciale.
“No”, insisto. “E’ tardi, il treno mi parte”.
“Allora vi aspetto alle scuole, buon viaggio!” mi grida dietro, mentre io monto sul prim otram per la stazione.
Dalla piattaforma lo scorgo mentre riprende a morsi rabbiosi il pane diventato ancora più nero fra le sue mani, rispetto al bianco dei pantaloni di tela che palpitano alla prima brezza.

Fonte foto: dalla rete

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