Le donne dell’Olocausto

Le donne dell’Olocausto nella Germania nazista

Da Benedetta La Penna il 26/01/2020

Vittime della persecuzione e dello sterminio nazista furono sia gli uomini che le donne di etnia ebraica. Tuttavia, le donne – sia ebree che non ebree – furono spesso soggette ad una persecuzione eccezionalmente brutale da parte del regime, poiché vennero internate non solo le donne ebraiche ma anche donne “scomode” che non erano necessarie per la sopravvivenza e la gloria del Reich.
I Nazisti non facevano distinzione di genere nella “soluzione finale”: le donne in stato di gravidanza o le madri con bambini piccoli erano considerati come inabili al lavoro, e venivano spedite direttamente nei campi di sterminio, condotte quindi a morte celere perché inutili per la produttività del campo. Infatti, anche le donne venivano selezionate per partecipare ai lavori forzati o, se non abbastanza forti, per esperimenti di sterilizzazione specifiche o per altre pratiche di ricerca completamente disumane e non etiche. In entrambi i casi, la morte era assicurata.
Molte donne, soprattutto le polacche, le jugoslave e le sovietiche, nonostante fossero considerate “impure” da parte delle guardie, venivano stuprate costantemente, causando molto spesso gravidanze indesiderate. Nascondere lo stato interessante per queste donne era fondamentale però per la sopravvivenza, come detto in precedenza, sia perché diventavano inabili al lavoro sia perché venivano costrette ad abortire in cliniche improvvisate. I neonati appena nati, poi, venivano uccisi poiché non sarebbero mai diventati dei veri “tedeschi”, essendo loro dei veri “esperti della razza”.
Fortunatamente, molte donne sono riuscite a sopravvivere all’interno dei campi: alcune perché venivano spedite nei reparti destinati al rammendo degli abiti, nelle cucine, lavanderie e servizi di pulizie (lavori di per se meno duri rispetto alle fabbriche e ai lavori forzati) ma anche perché riuscirono a creare dei gruppi di mutua assistenza all’interno dei campi di concentramento, dove le donne riuscivano a riunirsi per scambiarsi informazioni, cibo, vestiario, per garantirsi loro la sopravvivenza.

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                                                                                                                                          Foto del campo di Ravensbruck

Il campo di concentramento di Ravensbrück
Nei lager, spesso, c’erano zone prettamente femminili: ad Auschwitz, per esempio, c’era “Auschwitz II”, un area riservata a sole donne (comprese le guardie), come anche a Bergen-Belsen e molti altri. Ci furono però interi campi specifici per le sole donne, e non se n’è mai parlato abbastanza: nel 1939, infatti, venne creato il campo di concentramento di Ravensbrück, al cui interno vi erano più di 130.000 prigioniere provenienti da ben venti paesi diversi e solo il 20% di loro erano di origine ebraica. Il restante 80% erano prettamente rom, disabili, donne con problemi mentali, prostitute o lesbiche. Sul lesbismo ci fu un vero e proprio accanimento: nonostante l’omosessualità nell’era di Weimar era all’inizio molto diffusa e in un certo senso tollerata, successivamente fu repressa esattamente come cercarono di fare con tutti coloro che non rispettassero il canone tedesco (anche se al suo interno anche molte guardie erano lesbiche).
Di Ravensbrück non si hanno immagini dell’Armata Rossa o dell’esercito britannico per consegnare alla storia i fotogrammi dell’orrore, ma di questo campo sappiamo che si contano ben 90.000 vittime tra fame, malattie, lavoro insostenibile e uccisioni. Moltissime anche le vittime dovute agli esperimenti genetici nazisti sulle prigioniere: alcune vennero addirittura mutilate in seguito all’introduzione di batteri nelle gambe e braccia per testarne l’efficacia.

KZ Mauthausen, Lagerbordell

                                                                                                                                      I bordelli nei campi di concentramento
I bordelli nei lager (i Sonderbauten).
Da Ravensbrück (e non solo) le detenute venivano selezionate anche per un’ulteriore mansione: quella di prostituirsi nei bordelli all’interno dei lager. Queste strutture, presenti sia ad Auschwitz, Birkenau e molti altri, sono esistite dal 1942 fino al 1945 e venivano considerate un “incentivo” per i prigionieri per aumentarne la loro produttività all’interno dei campi. Per i nazisti i campi avevano anche un alto valore economico come luoghi di produzione, e vista la bassa produttività dovuta al cibo scarso, alle violenze quotidiane e alle cattive condizioni igieniche, consideravano questi bordelli come stimolo per lavorare di più (e per evitare la “degenerata” omosessualità diffusa nei campi tra prigionieri e le guardie).
Le donne reclutate, che diventavano predisposte a prostituirsi dopo un periodo di violenze erano circa 200 e sotto i 25 anni. Il 70% di loro erano tedesche e il restante 30% polacche, bielorusse o ucraine. Non vi erano le italiane e le ebree che, secondo loro, potevano infettare i prigionieri e le guardie con il loro sangue contaminato. Ad alcune di loro veniva promessa la libertà dopo soli sei mesi di servizio, promessa che, ovviamente, non veniva mantenuta.
Le donne che si prostituivano venivano considerate “antisociali”, ma avevano dei ritmi di lavoro più blandi sino al turno della prostituzione che andava dalle 20 alle 22 e avevano una razione di cibo di maggiore, consentendo loro l’aumento di le probabilità di salvezza.
I potenziali “clienti” che avevano la possibilità di frequentare il bordello, considerato come un “bonus”, erano prettamente le guardie e i detenuti-funzionari che avevano compiti di sorveglianza. Non erano assolutamente ammessi ebrei o prigionieri sovietici.
Per accedervi si seguiva una rigida pratica burocratica: dovevano prima fare domanda, attendere il loro turno, fare una visita medica e solo allora potevano usufruire della prestazione di soli 15 minuti nella posizione del missionario. Non venivano usati contraccettivi: le donne, prima di entrare nel bordello, venivano brutalmente sterilizzate senza anestesia, per impedire le gravidanze indesiderate.
Alcuni lavoratori, però, non andavano in questi Sonderbauten per fare sesso. Molti facevano domanda per accedervi anche solo per ritrovare il senso di umanità in tutto quel dolore che li circondava. È capitato, infatti, che alcune persone, conosciutesi in questi luoghi, si siano addirittura sposate nel 1945.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale le donne vittime di questi bordelli non hanno mai ricevuto alcun risarcimento. Il motivo principale è stata la mancata testimonianza delle stesse vittime che, pur costrette alla prostituzione, si ritenevano in colpa di essere sfuggite alla sorte delle altre donne nei campi. Per questo cadde tutto nel silenzio fino agli anni novanta, dove i “Lagerbordell” (i bordelli dei lager) cominciarono a essere conosciuti dal grande pubblico attraverso l’opera di studiosi che sono riusciti a dare luce a questa ulteriore tragedia nazista in Germania.

Alcune-guardiane-dei-campi-di-concentramento

                                                                                                                                                       guardie naziste donne
Le guardie donne nei campi di concentramento nazisti.
Oltre alle vittime, molte sono le donne carnefici. Delle 55.000 guardie naziste, solo 3700 erano donne. L’esclusione delle donne nelle SS, divenuta assoluta nel 1942, era dovuta dalla loro “scarsa attenzione nella sorveglianza” e perché ritenute molto spesso troppo gentili con le detenute.
Queste guardie venivano reclutate tramite annunci di giornale in cui si invitava ad esternare il loro amore verso il Reich arruolandosi nella SS-Gefolge, (cioè nei reparti femminili delle SS), e provenivano prettamente dai ceti medio-bassi (ad esclusione di Ravensbrück di cui alcune erano aristocratiche). Venivano considerate prettamente delle “aiutanti” (SS- Helferin) poiché le donne non potevano diventare dei membri ufficiali delle SS, ma il loro addestramento era molto simile a quello degli uomini: le esercitazioni potevano durare dalle quattro settimane ai sei mesi, e, secondo alcune fonti, veniva insegnato loro di praticare il sadismo verso le prigioniere donne definendolo come “piacere malizioso”.
Ovviamente, di queste donne moltissime furono processate dopo la guerra ed alcune vennero rilasciate per buona condotta. Ma l’unica ad aver raccontato pubblicamente ciò che avveniva all’interno dei lager è stata Herta Bothe, incarcerata per 10 anni in seguito al Processo di Belsen e rilasciata negli anni 50.
In una sua intervista del 2004, quando le avevano chiesto se si fosse vergognata di essere stata una guardia, se pensava di aver commesso un errore, ha risposto:
“Cosa intende? Ho fatto un errore? No… l’errore era stato il campo di concentramento. Ma dovevo andarci, altrimenti avrei voluto esserci dentro. Questo è stato il mio errore.

resistenza

                                                                                                                                                      Le donne della resistenza
Le donne nella Resistenza
Concludo brevemente con loro, le donne della resistenza, senza le quali la Seconda Guerra Mondiale avrebbe sicuramente preso una piega diversa. Queste donne, provenienti da movimenti giovanili socialisti, comunisti e sionisti, aiutarono attivamente le operazioni in Europa per mettere in salvo gli Ebrei impegnandosi come corrieri per portare informazioni, nascondendoli nelle loro abitazioni, diffondendo le ideologie anti-naziste e anti-fasciste. Donne così straordinarie che un solo paragrafo non basterebbe a rendere loro giustizia, soprattutto per l’importanza che hanno avuto nella storia della guerra in Italia e non solo.
Un ruolo preminente assunsero anche molte appartenenti alla Resistenza francese (e ebraico-francese): Sophie Scholl, studentessa all’Università di Monaco di Baviera e membro dell’unità della Resistenza chiamata “Rosa Bianca”, venne arrestata e fucilata nel 1943 per aver distribuito volantini contro il Nazismo.
Altre invece, come Haika Grosman, di Bialistok, furono leader o membri di organizzazioni della Resistenza nei campi di concentramento. Ad Auschwitz, cinque donne assegnate al reparto per la lavorazione del metallo, fornirono la polvere da sparo con la quale membri di un’Unità Speciale Ebraica fecero saltare in aria una camera a gas, uccidendo molte guardie delle SS, nel corso della rivolta dell’ottobre 1944.
Numerose donne furono anche attive nelle operazioni che vennero organizzate nell’Europa occupata per mettere in salvo gli Ebrei. Tra di loro ci furono la paracadutista ebrea Hannah Szenes e l’attivista sionista Gisi Fleischmann. Hannah Szenes fu paracadutata in Ungheria nel 1944, mentre Gisi Fleischmann, leader del Gruppo d’Azione (Pracovna Skupina) facente capo al Consiglio Ebraico di Bratislava, tentò di fermare le deportazioni degli Ebrei dalla Slovacchia.
Milioni di donne furono perseguitate e uccise durante l’Olocausto. Tuttavia, alla fine non fu tanto la loro appartenenza al genere femminile a farne dei bersagli, quanto il loro credo politico o religioso, oppure il posto da loro occupato nella gerarchia razzista teorizzata dal Nazismo.
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Scritto da Benedetta La Penna

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