Cosa resta dopo la festa tricolore

𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐫𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐨𝐩𝐨 𝐥𝐚 𝐟𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐭𝐫𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐫𝐞
Cosa resta dell’euforia patriottica a pochi giorni dalla Vittoria? Il ricordo gioioso di una notte magica e di un trionfo imperiale per le vie di Roma.

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Cosa resta dopo la festa tricolore

Cosa resta dell’euforia patriottica a pochi giorni dalla Vittoria? Il ricordo gioioso di una notte magica e di un trionfo imperiale per le vie di Roma. Gli abbracci liberatori di un popolo a lungo segregato, pur col rischio di tornare in castigo. La sorpresa di riscoprire l’appartenenza e l’italianità dopo fiumi di retorica global, di arcobaleni e inginocchiatoi.

Oltre le emozioni, la vittoria agli Europei magari porterà un riflesso benefico sul sistema Italia, sul governo Draghi e sulle istituzioni, una maggiore considerazione del brand italiano nel mondo, magari un effetto positivo per rifrazione sull’economia oltre che sulla motivazione e l’orgoglio italiano dei nostri connazionali sparsi nel mondo.

D’altra parte, la sorte è beffarda e infedele, appesa a un esile filo. Sarebbe bastato sbagliare un rigore o non pararlo, e oggi staremmo a imprecare contro la Nazionale di Mancini che elaborava troppo e non andava mai in verticale; ci divideremmo tra Vittime Permanenti che se la prendono con la Sfiga Patria e gli autodisprezzatori che riprendono le loro solfe su questo paese di vigliacchi, di ladri e di egoisti, altro che amor patrio ed elmo di Scipio.

Così come forte era stata la tentazione di molti, di dimettersi da tifosi al primo, stupido, vile, conformista inginocchiarsi di riflesso o alla maglietta Black lives matter indossata da Berrettini (il patriota che non paga le tasse in Italia). Uno si chiede: ma perché dovrei tifare per questi? E questi sarebbero i nostri, che si inginocchiano come i loro avversari al politically correct globale? Poi arriva la vittoria e cancella tutto, o almeno sospende. Ma per quanto, fino a quando?

Alla fine della fiera siamo contenti di questa abbuffata patriottica, di questo bagno popolare nel tricolore, di questa esultanza di un popolo bambino che scopre nel calcio il suo ritorno all’infanzia e ama delle cose il lato giocoso, festoso, brioso; le coppe, gli spari, i sorrisi, le lacrime, i balli, i baci…

In fondo fa bene una sospensione dalla realtà e un tuffo d’orgasmo nel noi, dopo tanta, troppa solitudine ringhiosa nei confronti del vicino. Però elogiato l’evento e il suo strascico popolare, rimane la domanda: cosa resta del patriottismo dopo il dì di festa? Si può mettere a frutto qualcosa di questa esperienza, al di là dei veri o presunti benefici sul Pil e sul sistema Italia?

Qualche astioso demente ha obiettato che lui ama l’Italia multietnica, mica “la vostra Italia fascista e razzista”. Premesso che la società globale è multietnica e dunque non ha senso tifare per un’Italia multietnica, il patriottismo non può coincidere con l’intera umanità per la semplice ragione che se ti esalta una vittoria, vuol dire che qualcun altro piange la sconfitta; non ci sarebbe agonismo senza antagonismo, non ci sarebbe appartenenza se non ci fosse distinzione tra noi e loro, il tifo sarebbe insensato. Se fossimo veramente cittadini del mondo, dovremmo brindare con la nazionale italiana, piangere con gli inglesi, rimpiangere coi francesi e i tedeschi, consolare le nostre vittime belghe, svizzere, spagnole… A una festa patriottica non ha senso rivendicare l’amore globale. Ogni amor patrio, per quanto aperto, civile e rispettoso degli altri, si fonda su una linea di confine, tra noi e loro. Altrimenti non c’è appartenenza né tifoseria.

Ma una cosa è vera: non basta nascere italiani per esserlo davvero. Nascere italiani è una gran cosa, e malgrado tutto è una fortuna. Ma non basta, poi bisogna meritarselo sul campo. L’Italia è di chi la ama e la rispetta, nel corpo e nell’anima, nella storia e nell’identità; l’Italia è di chi osserva le sue leggi e concepisce i diritti insieme ai doveri; l’Italia è di chi rispetta il prossimo, a cominciare dai compatrioti, di chi si chiede cosa debba dare al suo paese e non solo cosa debba ricevere; e di chi si cura degli altri, è solidale, di chi ha premura verso la natura, il paesaggio, i borghi e le città d’Italia; l’Italia è di chi la difende quando è in pericolo o è oltraggiata. Non ci sono barriere etniche ma non c’è nemmeno l’idea che l’Italia l’abbia fatta Benetton coi suoi United colors variopinti e i suoi ponti (pericolosi) verso il mondo.

L’Italia è una patria, non un magazzino multietnico, è una terra con una storia e uno spirito, è la terra dove sono sepolti i miei morti e dove vivono i miei cari e i miei figli, non un corridoio umanitario, un luogo di prima accoglienza e un distributore automatico di sussidi.

Dal versante opposto qualcuno mi ha ricordato che Julius Evola scriveva nel dopoguerra: “Nell’idea va riconosciuta la nostra vera patria. Non l’essere di una stessa terra o di una stessa lingua ma l’essere della stessa idea è quel che conta oggi”. Bello evocare le affinità ideali, soprattutto quando si oscura l’amor patrio e si rifugia in sparuti gruppi; ma se una patria è solo un’idea perde la sua concretezza reale e oggettiva, la sua tradizione incarnata, la sua terra, i legami e il suo lessico; perde paternità, maternità e fratellanza; si fa solo ideologia, scelta soggettiva e mentale, da società di pensiero, si fa illuminista e protestante…

Insomma, l’Italia va amata nella buona e nella cattiva sorte, quando chiede e non solo quando dà, e soprattutto non va amata solo di domenica, ma tutti i santi giorni, e non solo per gioco. È più difficile, ma questo è il vero amor patrio.

MV, Panorama (n.31)