Il bivio del pensiero moderno tra eterno e infinito

𝐈𝐥 𝐛𝐢𝐯𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐫𝐨 𝐦𝐨𝐝𝐞𝐫𝐧𝐨 𝐭𝐫𝐚 𝐞𝐭𝐞𝐫𝐧𝐨 𝐞 𝐢𝐧𝐟𝐢𝐧𝐢𝐭𝐨
Tra Napoli e Nola c’è un bivio dove si dividono le strade del pensiero, non solo la filosofia italiana ma la filosofia moderna: da una parte è il pensiero cosmico che va verso l’infinito, dall’altra è il pensiero storico che va verso l’eterno. Quello è il bivio decisivo in cui si divarica il pensiero al crocevia della modernità

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Il bivio del pensiero moderno tra eterno e infinito
di Marcello Veneziani
05 Marzo 2024

Tra Napoli e Nola c’è un bivio dove si dividono le strade del pensiero, non solo la filosofia italiana ma la filosofia moderna: da una parte è il pensiero cosmico che va verso l’infinito, dall’altra è il pensiero storico che va verso l’eterno. Quello è il bivio decisivo in cui si divarica il pensiero al crocevia della modernità. A esprimere il primo fu un filosofo dal destino funesto, Giordano Bruno da Nola, che rivolse lo sguardo del suo pensiero all’infinito, si aprì agli infiniti spazi e all’infinito divenire. A esprimere il secondo fu un pensatore incompreso, Giambattista Vico da Napoli, che volle scrivere la storia ideale eterna dell’umanità e ritenne l’uomo mosso dal desiderio d’eternità. Filosofia del divenire la prima, come si addice alla modernità, o filosofia dell’essere, la seconda, coerente a un pensiero realista e metafisico.
Li separava un secolo; anzi nello stesso seicento, Bruno lo inaugurò tragicamente con la sua morte sul rogo, e nacque poi Vico. Ma Bruno si espresse tutto nel cinquecento, e Vico espresse tutto il suo pensiero nel settecento. Bruno prefigurava il cammino della modernità, Vico segnava il ritorno alla metafisica. Li separò il cristianesimo, anche sul piano esistenziale: Bruno fu fieramente anticristiano e ne patì le conseguenze estreme, Vico fu cattolico, cristiano e vide la Provvidenza agire nella storia.
Bruno viaggiò per l’Europa, Vico restò sempre a Napoli e dintorni. Bruno scopre l’infinità del mondo senza confini, senza identità, senza un centro, mobile ed espansivo; un mondo in divenire perpetuo in cui l’essere cede al non essere, e la sapienza è concepita come eroico furore, un tormento e una brama inesausta di ciò che non è. Ciò che diviene procede all’infinito, senza limiti.
In Vico, invece, ciò che è perdura per sempre, ma tutto ciò che vive ha i suoi limiti di spazio e di tempo. L’essere è eterno, il vivente è morente. Ma la storia degli uomini è dentro una storia ideale, eterna e universale.
A pensarli insieme fu Giovanni Gentile nella linea comune della filosofia italiana. A tentare l’impresa di un paragone è ora il filosofo napoletano italomarxista, Biagio de Giovanni, alla veneranda età di 93 anni. Ha scritto un libro, Bruno, Vico e la filosofia meridionale (ed. Scientifiche, Napoli) in cui sottolinea sintonie e convergenze e prende atto di incolmabili distonie e divergenze tra i due pensatori. Li considera innovatori nel linguaggio, soli e incompresi, proiettati negli scenari aperti della modernità, entrambi critici verso l’Europa. Ma in Vico c’è l’idea di un sapere organico, umano e divino, che congiunge il mito, la teologia, la filosofia, l’arte, la scienza e la storia. Benché cristiano, nota de Giovanni, Vico non parla mai di Creazione e di Rivelazione. In realtà Vico, da filosofo, indaga il mondo dopo la creazione, si occupa del corso storico che ne discende, senza risalire alle cause prime, oggetto di fede e rivelazione e non di ricerca e comparazione; la sua è una teologia civile ragionata, intuisce il vero ma sa che la verità appartiene solo a Dio; l’uomo deve accontentarsi del certo, del verosimile, del senso comune, dell’autorità e della tradizione, delle intuizioni poetiche e dei frammenti di verità alla sua portata. Bruno, invece, ironizza sull’Incarnazione e sulla Rivelazione, è feroce soprattutto con la religione protestante, luterana e calvinista, che reputa “una setta da sterminare”; ma è molto critico anche verso la fede cattolica e la religione mosaica. Indaga sulla natura e sul cosmo, più che sulla storia e sulla fede; reputa che in tutte le cose viva il suo contrario, nella luce è l’ombra e anche la vita ci fa essere “in tristitia hilaris, in hilaritate tristis”, gioiosi nella tristezza, tristi nella gioia. Il pensiero di Bruno vive la vertigine dell’infinito, nell’immensità dell’universo perde l’uno, l’essere, l’eterno; una volta aperta quella porta, non si può restare dentro un mondo concluso; alla fine il non essere vanifica l’essere. Il pensiero di Vico è invece ontologico, gira intorno all’essere e cerca il lume eterno, anche se delinea una “metafisica corpolentissima”, che si incarna nella storia e nella vita, come Cristo si fa uomo. E rigetta il razionalismo e il cogito cartesiano.
De Giovanni non ritiene antimoderno o controriformista il pensiero di Vico, ma ipotizza che ci siano più modernità, non una sola. Vico delinea un’altra possibile modernità, sia rispetto a Bruno che rispetto a quella prevalente, affermata sull’onda delle scienze, delle rivoluzioni e dell’autonomia razionale del soggetto. Ma non è contro la scienza, ammira Bacone, elogia “il gran Galileo”, ricerca una scienza nuova. Ha ragione de Giovanni a notare che la filosofia italiana, almeno la più significativa, si svolge nel sud d’Italia, tra la Campania, l’Abruzzo, la Calabria e la Sicilia e la sua capitale resta Napoli, dove confluirono Tommaso d’Aquino, Campanella, Bruno, Vico, Spaventa, Labriola e Croce. Sottolinea il grande spessore teorico di Gentile (incompreso anche lui, nota) rispetto a Croce, scrittore esimio di filosofia, cultura e varia umanità.
Resta, al di là dei filosofi, il tema di fondo: il bivio essenziale tra il pensiero dell’infinito e il pensiero dell’eterno. E’ la linea che demarca due visioni del mondo. Dante è il sommo poeta dell’eterno, Leopardi è il sommo poeta dell’infinito. Nel primo splende la luce metafisica e teologica, nel secondo vibra la tragica maledizione di vivere. In Leopardi l’infinito è sgomento cosmico, orrore, brivido, vuoto e infine abbandono, naufragio senza grazia. Per i greci l’apeiron, l’infinito, era dannazione, abisso da cui tenersi lontani. Per Borges l’infinito è il concetto che corrompe tutto, più del male. Nella Breve storia dell’infinito il matematico Paolo Zellini avverte: “Non c’è nulla di più pericoloso della perdita del limite e della misura”. L’infinito disceso nella nostra vita, diventa “vertigine delle possibilità”(Kierkegaard), delirio d’onnipotenza o dolore d’impotenza. Ambedue inconcepibili per noi, l’eterno e l’infinito coincidono nel mistero di Dio o dell’Uno. Ma la passione d’eterno vuole per sempre ciò che è, la passione d’infinito vuole sempre ciò che non c’è. Quello è il bivio cruciale.

La Verità – 4 marzo 2024