La scuola non muore di solo virus

La scuola non muore di solo virus

La chiusura delle scuole, il balletto sugli esami e sui concorsi e la farsa del plexiglas tra i banchi sono stati solo il colpo di grazia. Ma la scuola sta male da prima del virus. Ogni governo, ogni ministro è stato un gradino per scendere più in basso. Vi ricorderete la Fedeli, senza titoli di studio, al Ministero della Pubblica Istruzione nel nome del gender, del femminismo e del sindacato. Ricorderete Fioramonti che attaccava le merendine e incitava i ragazzi a non andare a scuola per scioperare con Greta sull’ambiente. Avete presente la corrente Azzolina, asina di Buridano fra chiusure e aperture, divieti e rimedi. Andando a ritroso c’è una lunga scia di ministri democristiani invertebrati che, con rare eccezioni (una di queste fu il liberale Salvatore Valitutti), ridussero la scuola a un pachiderma obeso, senza spina dorsale, che si muove con fatica; onnivora, ridotta ad area di parcheggio per docenti e studenti.

Eppure la scuola fu il motore dell’Italia unita. Dalle scuole, pensavano già Mazzini e i risorgimentali, sarebbe passata la formazione e l’istruzione degli italiani; e la scuola fu per cent’anni, tra cento contraddizioni, il volano principale della nazionalizzazione, della modernizzazione e della formazione dell’Italia moderna. Attivò anche, con fatica, l’ascensore sociale, permise ai bravi ma poveri, di studiare e laurearsi. Non starò a citarvi le tappe, i ministri, le riforme. La scuola assolse a un compito decisivo, fu centrale per lo sviluppo del nostro paese. Poi venne il degrado, la strategia di conquista del Pci, venne soprattutto il ’68; e venne la scuola che cancella il merito e la selezione, l’autorità e la conoscenza, la scuola assembleare, da occupazione e da corteo che non insegna più doveri ma predica solo diritti, la scuola politicizzata e ideologizzata, sindacalizzata e vigilata da collettivi di genitori democratici, studenti democratici, professori democratici. Con gli anni la scuola da centro diventò periferia ingombrante e fatiscente della società, i professori furono declassati, persero status sociale e anche i giovani da protagonisti del domani divennero i molesti marginali che si chiudono nelle loro tecno-solitudini.

All’onda ideologica che investì la scuola in pieno, sulle strisce pedonali, seguì l’onda tecnocratica che fece della scuola solo un master d’avviamento al lavoro e al mercato: il risultato fu destrutturare l’impianto umanistico e formativo della scuola senza peraltro rendere l’istruzione adeguata alle esigenze della società. Americanizzarono la scuola dopo averla sovietizzata; cioè imitarono gli Usa nell’aspetto peggiore, quello scolastico. Il fuggi fuggi nelle scuole private ne fu la conseguenza. Private come rifugio di qualità, consentita ai più abbienti; private come scorciatoia (tipo due anni in uno) e rifugio per gli scadenti furbi. Fu goffo e ridicolo il tentativo della scuola di inseguire i cambiamenti sociali e di ripiegare sul presente, adeguandosi da un verso al politically correct e dall’altro alle nuove tecnologie, dotandosi di strumentazioni superate e inadeguate, come il personale docente: restò nel mezzo, e fu la versione demente del primo e la versione tardiva della seconda. La scuola, notava giustamente Galli della Loggia ne l’Aula vuota (Marsilio), deve principalmente preparare alla vita, non al lavoro. E non deve porsi come la palestra del cambiamento, della sperimentazione e delle rotture, ma in una società dai saperi rapidi e labili, utilitaristici e specialistici, e dai consumi pratici e veloci, deve bilanciare offrendo continuità, tradizione, visione. Capacità di capire e dunque modificare la realtà, senza appiattirsi sulle sue tendenze.

Infine riassumo il compito della scuola in quattro prediche inutili. Il primo: non inseguire la realtà ma fornire chiavi per affrontarla. Traduco: la scuola non può diventare la caricatura tardiva del quotidiano, appiattendosi sulle pratiche di vita, da smanettare sui pc a fare i camerieri; i ragazzi lo fanno già per conto loro. La scuola dovrebbe piuttosto filtrare le esperienze, insegnare come affrontarle con profitto e con giudizio, dotare di saperi, finalità e contenuti gli strumenti tecnici ed economici. Il secondo: formare e selezionare le classi dirigenti e lavoratrici di domani. Indispensabile per dare un ruolo alla scuola e un futuro alla società. Il terzo: promuovere comunità e progetti condivisi. La scuola va ricollegata al tema dell’appartenenza nazionale, dell’identità culturale e civile d’Italia. Il quarto: educare cittadini a un’etica pubblica, alla responsabilità, al rispetto dell’autorità e al riconoscimento del merito.

La scuola d’oggi è abitata in gran parte da docenti demotivati o motivati ideologicamente o inadeguati. A loro corrispondono alunni e genitori che vivono la scuola con fastidio e pensano solo a farla franca. I restanti prof, famiglie e alunni tengono in piedi la scuola pubblica, minoranze eroiche e virtuose. Non si vede una riforma organica, ariosa e lungimirante, da svariati decenni. Solo sgorbi, scarabocchi passati per riforme. Le scuole chiuse d’oggi e i ragazzi intubati sono il simbolo di un funerale dal vivo della scuola.

MV, La Verità 15 giugno 2020

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