L’altro Sartori dimenticato

𝐋’𝐚𝐥𝐭𝐫𝐨 𝐒𝐚𝐫𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐝𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢𝐜𝐚𝐭𝐨
Dopo l’homo videns venne l’homo social.

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L’altro Sartori dimenticato

Dopo l’homo videns venne l’homo social. Cosa avrebbe detto Giovanni Sartori, morto il 4 aprile di cinque anni fa, scopritore del primo davanti al dilagare del popolo social? Avrebbe sottolineato la spaccatura profonda tra il regime del mainstream, l’establishment politico-informativo e la libertà ribelle dei social, a volte sgangherata e urlante, ma sacrosanta per non conformarsi alla dominazione a senso unico in atto? Sartori è stato il maestro di color che sanno nel regno della politica. Non ha insegnato solo agli studenti ma anche agli studiosi, e avrebbe voluto impartire lezioni di politica anche ai politici. La sua amarezza di consigliere inascoltato in tema di riforme e costituzione si stemperò nell’ironia fiorentina con cui seguì le vicende della politica in Italia. Il suo prestigio era pari alla inapplicabilità dei suoi precetti: i politici furono impermeabili ai teoremi del professore e ai suoi rimbrotti. Sartori fu per anni uno zio d’America, un maestro con passaporto Usa. In un paese esterofilo come il nostro, i pensieri in trasferta, valgono il doppio. Figuriamoci dagli States.

Sartori ha generato negli studi politologici come Hegel, una destra e una sinistra sartoriana, oltre che naturalmente un centro. Lui si tenne super partes; da ultimo scriveva sul Corriere della sera e su l’Espresso, ovvero il giornale-istituzione con fama d’equidistanza (ormai perduta) e il settimanale collocato nettamente a sinistra. Ma c’è un saggio di Sartori che è stato rimosso. È il saggio sull’immigrazione – Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Ha un taglio conservatore, realista, non ideologico.

Sartori polemizza col “fasullo terzomondismo nel quale confluiscono sinistre e populismo cattolico”. Non conosceva ancora i predicatori istituzionali e vaticani dell’accoglienza e la retorica. Se non fosse stato Sartori a scriverle, usato come vessillo contro il berlusconismo e le destre al governo, non gli avrebbero perdonato riflessioni di questo tipo: “L’Europa è sotto assedio, e oramai accoglie immigranti soprattutto perché non sa come fermarli” ma “il problema non può essere risolto e nemmeno attenuato dall’accogliere più immigrati…Gli entrati non servono a ridurre il numero degli entrandi; semmai servono a richiamarne di più”. In particolare Sartori critica le sanatorie in massa e l’indulgenza verso l’immigrazione clandestina che resta, a suo parere, “una cattiva immigrazione”. Una linea avversa al filantropismo prevalso poi negli anni, che non considerava il disagio e la contrarietà delle popolazioni.

Sartori negava che l’Italia potesse diventare un paese razzista. Negava che estendere il diritto di voto potesse prevenire atteggiamenti razzisti e negava che ci fosse discriminazione fondata sul colore della pelle o sulla povertà: gli asiatici, notava Sartori, sono entrati poverissimi ma non sono affatto disprezzati. E i neri, aggiungerei, sono visti con minor diffidenza dei pur bianchi albanesi o romeni, a causa della maggiore inclinazione alla criminalità, fondata sui dati e non su teorie razziste.

Resistere a un’invasione di immigrati non è razzismo, diceva Sartori. Ma “ammesso e non concesso che questo sia razzismo, allora la colpa di questo razzismo è di chi lo ha creato”. Il razzismo è per Sartori “un’accusa sbrigativa, superficiale, che generalizza troppo, e che rischia di essere altamente controproducente. Chi viene denunziato come razzista senza esserlo, s’infuria, e magari finisce per diventarlo davvero”. Per Sartori il progetto multiculturale può solo approdare a un “sistema di tribù”, separate e non integrate. Poi riteneva che il criterio principe per assorbire gli immigrati è la reciprocità: ti accogliamo e ti tolleriamo a condizione che tu non ti senta estraneo e ostile alla nostra società, alle sue leggi, ai suoi valori. La stessa reciprocità dovrebbe riguardare gli stati. Resta difficile per Sartori la compatibilità con gli islamici che a suo dire hanno una visione del mondo teocratica, opposta a quella occidentale. La reciprocità è un ottimo ideale regolativo: ma nella realtà è impossibile.

Ma la vera “scoperta” in età senile di Vanni Sartori è la comunità. Il politologo nota che quando la sovrastruttura (la nazione, lo Stato sovrano, l’impero) si disgrega, torniamo inevitabilmente all’infrastruttura primordiale, la comunità, intesa come organismo vivente. Sartori sposa l’idea di comunità nell’accezione più classica e più forte, quella di Tonnies che identifica con la “comunità concreta”. La comunità per Sartori si coagula intorno al comune sentire e può riferirsi anche a comunità larghe. Ma parlare di comunità mondiale, come fa Ralf Dahrendorf è retorica, “è vaporizzare il concetto di comunità”. (Ne parlai in un dialogo su la Repubblica con Dahrendorf che commentò il mio saggio Comunitari o liberal). Sartori difese il principio d’identità; il senso del confine resta fondamentale in politica, per Sartori critico verso l’ideologia senza frontiere dello sconfinamento, oggi predominante.

Per Sartori, poi, la causa dell’immigrazione è la sovrappopolazione e una responsabilità speciale è della “Chiesa cattolica che si ostina irresponsabilmente a promuovere le nascite”. La sovrappopolazione, ha ragione Sartori, è un’emergenza mondiale ma l’immigrazione è innescata più dalla globalizzazione che è poi il girone di ritorno della colonizzazione e del villaggio globale. Quanto al boom demografico, le colpe della Chiesa sono modeste se si considera che più dei cinque sesti del pianeta non sono cattolici o cristiani e i paesi a più alto tasso di natalità sono islamici, induisti, cinesi, tribali o d’altri culti. Il messaggio cristiano, crescete e moltiplicatevi, vale per l’Europa cristiana dove le bare superano le culle. Ma resta inascoltato. Con Sartori ebbi alcuni dibattiti e qualche diverbio, sul presidenzialismo e sul pensiero di san Tommaso. Ma era un piacere litigare con la sua intelligenza vivace.

MV, La Verità (5 aprile 2022)