Sulla fortuna e la sorte

SULLA FORTUNA E LA SORTE
Seneca mio diletto maestro, davanti ai miei occhi un’alba ruggente incendia il mare, il cielo e le creste delle colline che disegnano il confine tra i due regni, come se un dio si fosse appena levato dal suo letto di nuvole e il calore del suo corpo di luce fosse rimasto come impronta di fuoco sui drappi celesti. E’ come assistere alla nascita del mondo, e invece è solo un giorno che sboccia nella corte infinita del tempo. Ci sono grandezze divine che si celano nell’anonimato dei giorni.
Dentro i miei occhi rivive l’immagine di un gioco curioso, sull’orlo del fato, a cui ho assistito la sera scorsa. Ero stato attirato dalle grida di un nano che esortava ad avvicinarsi al “topolino della fortuna”. C’era una folla vociante, partecipe come a uno spettacolo gladiatorio, fra torce agitate dal vento. Protagonista dello spettacolo non erano pugili o belve feroci, bensì un piccolo topo che in quel momento non era visibile. Come una dea bendata il topo era nascosto in un secchio al centro dell’arena. Intorno al topo c’era una piazza circolare di sabbia, delimitata da tante caselle di legno allineate e numerate con altrettanti archi d’ingresso, fino a comporre un piccolo anfiteatro. Incitati dall’omuncolo, si aprirono le scommesse. La gente puntava su un numero, accaparrandosi la rispettiva casella. Poi, dopo aver raccolto le scommesse, l’omuncolo della giostra chiedeva silenzio, tirava la corda, si sollevava il catino ed usciva al centro dell’arena il topo spaurito. Tutti allora rumoreggiavano, urlavano e battevano sulle tavole circostanti all’arena, istigati dall’omuncolo. Il topo, spaventato e spaesato, si guardava rapidamente intorno, poi correva a infilarsi dentro una casella. Chi aveva scommesso sul numero corrispondente alla casella visitata dal topo vinceva la posta in palio. Il topo era veicolo ignaro della fortuna, tiranno e vittima della sorte, dispensatore di beni alla plebe. La sua paura era la loro speranza, il suo terrore generava la loro euforia, il suo rifugio era l’epifania della fortuna. Dirai che è ridotta male la sorte se si affida alla decisione suprema di un misero ratto. Appendere la ruota del destino alla scelta di un topo è cosa spregevole. Ma a volte la sorte si serve d’infimi agenti che sono solo occasione e non causa dei suoi doni come dei suoi castighi. E poi, la fortuna indotta dalle ricchezze merita di scendere al rango di un roditore, perché ad un ratto in fondo assomiglia: anche quando è grande, la fortuna è una piccola cosa che corre veloce, velocemente divora e rapidamente sparisce. La fortuna di vincere al gioco, tu lo sai bene, accende una gioia apparente e momentanea; lascia però a chi è stato baciato la possibilità di accrescere i suoi beni e i suoi mali. Perché la fortuna non coincide con il bene e nemmeno con la felicità ma accresce le possibilità di ambedue come del loro rovescio. Potenzia la vita, non la trasforma in beatitudine, aumenta le possibilità di migliorarla o di peggiorarla. Quello è il segreto della fortuna che sfugge alle plebi. Certo, non dimentico che chi è affamato e riceve dalla fortuna il dono di sfamarsi, è felice e non riuscirà mai a pensare diversamente. Ma se usciamo dal conto degli attimi o solo dei giorni e ci solleviamo a paragonare le vite baciate dalla fortuna a quelle che non lo sono, abbiamo piuttosto questa esperienza: la fortuna aumenta il fagotto di beni e di mali che portiamo sulle nostre spalle, aumenta le occasioni per i piaceri e per i dolori, rendendoci più vulnerabili, più esposti a entrambi. Non ci peggiora, come dicono taluni, non necessariamente corrompe né produce sempre catastrofi dopo averci fatto assaporare beatitudini. Ma diventa un bene in chi sa usarla bene, diventa un male in chi la usa male. La fortuna aiuta gli audaci, dicevano i nostri padri; noi diremo che giova ai saggi, ai generosi, ai cultori del bello, e nuoce agli avidi, ai pusillanimi, ai maligni. La fortuna non porta la felicità, acuisce piuttosto i caratteri e divide più nettamente i valorosi dagli incapaci, i saggi dai dissennati. La fortuna non è dunque un bene o un male; tocca a noi trasformarla in farmaco o in veleno. La fortuna non è il nome d’arte della felicità ma può rivelarla: scuote il torpore della vita e chiama a conquistare sul campo la felicità o a propiziare per ingordigia e malanimo l’infelicità. Chi crede che la partita della fortuna si giochi nell’atto di conseguirla, non ha capito che quello piuttosto è il gioco preliminare. Quando la ruota della fortuna ha finito di girare e ha assegnato a taluni il ricco fardello e ad altri li manda a mani vuote, allora comincia la vera partita con la sorte; perché è lì, da quel che dispensò o trattenne, che sorgerà la sfida per la felicità. Non sarà il caso di maledire la sorte, dopo che il topo avrà scelto la sua casella, perché la sorte non si è ancora compiuta, ma ha appena cominciato il suo cammino. E questo, da quel che ho capito della tua dottrina, non riguarda solo chi gioca a dadi, con la ruota o la corda della fortuna, ma chiunque affronti la vita. Quel che avemmo in sorte – il nostro volto, il nostro corpo, la nostra mente, la famiglia in cui nascemmo, la città e la terra che ci vide nascere, l’epoca che ci trovammo ad abitare – non è l’esito della sorte ma la dote della fortuna che ci regalò prima di intraprendere il cammino verso la nostra sorte. Sta a noi poi procedere, con che passo, in che direzione, con quali possibilità di alleggerire, arricchire o appesantire il bagaglio ricevuto prima di partire. La sorte sarà quel che sortirà dal nostro cammino, avendo quella dotazione di partenza. Diremo dunque che il nostro destino si compone in parti quasi uguali di fortuna e di valore, di necessità e di libertà, di occasioni e di virtù, ovvero di quel che ricevemmo e di come lo usammo. Sarà bene tuttavia predisporsi al nostro cammino, ovvero scegliere come rispondere alla fortuna e alla sfortuna per quel che ci dette e per quel che ci negò. Sulle tracce della sapienza che tu mi hai insegnato, dirò che la predisposizione giusta è quella di accogliere con amore la vita che ci fu data. Accettare il nostro volto, il nostro corpo, la nostra mente, la famiglia in cui nascemmo, la città e la terra che ci vide nascere, l’epoca che ci trovammo ad abitare. E amare il mondo, la sua bellezza, la sua vita, cogliere il bene anche laddove si annida il male, cercando di volgere alla luce ciò che inclina verso l’oscurità. Qualunque agire poi noi sceglieremo, qualunque mutamento vorremo apportare alla nostra vita e ad alcune condizioni di partenza, dovrà comunque innalzarsi sulle radici dell’Amor fati.

(Da Vivere non basta, Mondadori, 2012)