Tornare con nostalgia tra le rovine

𝐓𝐨𝐫𝐧𝐚𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐧𝐨𝐬𝐭𝐚𝐥𝐠𝐢𝐚 𝐭𝐫𝐚 𝐥𝐞 𝐫𝐨𝐯𝐢𝐧𝐞
“Chist è o’ paes mie” è la frase chiave di Nostalgia, il film intenso e cupo di Mario Martone, tratto da un gran libro di Ermanno Rea e interpretato magnificamente da Pierfrancesco Favino.

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Tornare con nostalgia tra le rovine

“Chist è o’ paes mie” è la frase chiave di Nostalgia, il film intenso e cupo di Mario Martone, tratto da un gran libro di Ermanno Rea e interpretato magnificamente da Pierfrancesco Favino. Questo è il mio paese, risponde Felice, il protagonista tornato a Napoli dopo 40 anni di lontananza in Medio Oriente a chi gli suggeriva o gli intimava di tornare al suo paese, vattinne. È una Napoli arcigna, torva, pericolosa, tutt’altro che allegra e solare, quella che traspare dal film. Una Napoli che perde perfino il paragone con Il Cairo, in cui vive da anni l’esule. Inconsueta è infatti la sua provenienza, non è emigrato in uno dei soliti paesi del nord ma in Egitto e prima ancora in Libano.
La Nostalgia di Martone non è la nostalgia del sud di cui spesso abbiamo scritto, sognato e idealizzato. È una nostalgia nel senso etimologico della parola: desiderio doloroso di tornare. Ma la nostalgia, di solito, prende chi pensa da lontano alla sua patria, alla sua casa, alla sua città. Qui, invece, il ritorno a Napoli è quasi doveroso, per rivedere la madre vecchia, che poco dopo – lui presente – morirà; e morirà tra le premure del figlio (che le fa anche il bagno, una scena di struggente tenerezza). Ed è compiuto da un uomo che già nell’inflessione parla l’italiano di un immigrato arabo, medio-orientale. Uno che ormai si sente estraneo alla sua città. Ma pian piano riscopre quel mondo, ritorna la memoria, risalgono le ferite e le immagini di quel mondo lasciato da adolescente. E l’espressione con cui prorompe torna napoletana quando ne rivendica la sua appartenenza. Perché un paese ti resta dentro anche se sei andato fuori; un paese rimane anche se lo hai rimosso per decenni. Un paese d’origine è quel che alla fine s’invoca dopo una vita di spaesamento. E la tua patria è sempre la tua origine, dove ti aspetta il destino.
In stretto e fluente napoletano è pure il dialogo decisivo e fatale dopo aver deciso di tornare a vivere nella città natia, nonostante tutto. Cosa ama di Napoli? Non la bellezza, non la solarità, ma la sua sinistra immobilità, nell’incuria, nel degrado e nella malavita. È come l’aveva lasciata, pietrificata e solo invecchiata, imbalsamata da 40 anni.
Ma dentro ogni nostalgia del luogo perduto si cela la nostalgia del tempo perduto. Infatti la nostalgia di Napoli è soprattutto nostalgia della sua adolescenza, della sua moto, della sua vita da ragazzo, bruscamente interrotta per un fatale “incidente”. E del suo miglior amico che è poi il suo peggior amico, e nemico, diventato O’Malommo da grande. La camorra è qui descritta da Rea-Martone con un’efficacia e una profondità di sguardo inaccessibili a un Saviano. Anche sul versante anticamorra, scolpendo un prete coraggio molto verace e una parrocchia come vivaio per una terapia comunitaria di salvezza.
Ma non vogliamo recensire un film. Piuttosto si vuol trarre da un racconto esemplare una visione del sud e della sua capitale, piena di nostalgia, rabbia e sconforto. Non si può amare quella Napoli che viene descritta, seppure nei suoi quartieri più critici, come il rione Sanità. Ha abdicato al suo ruolo di capitale del sud già da tempo, e non solo per colpa dei Savoia, dello Stato unitario o dell’Europa; è un degrado endogeno, una decadenza per fatalismo, paura, quasi un accasciarsi nelle peggiori abitudini. E poi quel maledetto, cieco egoismo di chi davanti a un mondo in sfacelo, contribuisce a sfasciarlo per trarre qualche profitto personale o almeno mettersi in salvo, lui e al più i suoi famigliari e cumpari. Per dirla con Goldoni, che non era napoletano, “se la casa brucia voglio scaldarmi anch’io”. La rabbia sale a vedere poi quei giovani delinquenti, praticanti o potenziali guappi, e pure gli altri, giovani e adulti volutamente idioti e assenti, e le chiattone sguaiate, frutto della cattiva alimentazione e della più cattiva educazione; e quel mondo di mezze figure e figuri, di ombre e malombre. Certo, Napoli non è solo quella. E il sud non è solo Napoli. C’è tanto di vivo, di vero, di bello a Napoli e ancor più nella parte sana del sud. Ma quella Napoli, quel sud, trascina poi nel baratro e nei pregiudizi tutto il resto. E concorre a rendere invivibile quel mondo col suggerimento accorato di andarsene, di corsa (fuitenne).
Però poi resta, tra il rimorso e il rimpianto, la nostalgia. Restano non solo i bei ricordi e gli scorci del passato, ma resta quel legame d’anima e di corpo, viscerale, vocale e spirituale, con la tua origine. E la convinzione che quello non sia solo il punto di partenza ma anche d’arrivo. Il luogo del destino, e della destinazione finale. E allora con tutti i guai, le brutture, le minacce, ti viene voglia ancora di dire tra le rovine, abbracciando la croce e l’amor patrio della disperazione, Chist è o’ paes mie.