A CASA DI NINGH NANGH

A CASA DI NINGH NANGH
di Valentino Romano (*)
Avigliano, 19 febbraio 2023.
Amici, l’argomento di questo numero della mia rubrica domenicale non è una storia in senso stretto, o almeno una di quelle che solitamente cerco di raccontare, ma il resoconto frammentario di un tour emozionale. E non chiedetevi subito cosa c’entri il racconto di un viaggio, il mio in questo caso, con le storie che vi sottopongo. Leggete prima … poi ne riparliamo.
Dopo il riuscito convegno di CARTA DI VENOSA a Potenza sull’opposizione costruttiva, ragionata e non “di pancia” allo scellerato progetto divisivo del leghista Calderoli mi trattengo ancora per qualche ora nelle terre che amo, intorno al Vulture, ad Avigliano, ospite di Massimiliano Vaccaro e Fabrizio Santarsiero: l’occasione è troppo ghiotta per lasciarsi scappare la possibilità di fare un tour nella cittadina che dette, contemporaneamente i natali a Giuseppe Nicola Summa, altrimenti conosciuto come Ninco Nanco, e alle famiglie Corbo (“di sopra” e “di sotto”), notabili locali che tanta e poco conosciuta parte ebbero nelle vicende del brigantaggio postunitario.
È domenica mattina, una fredda ma tersa domenica d’inverno, quando Massimiliano e Fabrizio, progettando un proditorio attentato alle mie malmesse coronarie, mi trascinano per scale e vicoli del centro storico di Avigliano: vogliono farmi vedere i luoghi vissuti dai personaggi che conosco attraverso le “carte”.
E, puntualmente, si ripete lo strano fenomeno di “ingresso” fisico e di immedesimazione nella Storia e nelle storie degli uomini e delle donne che, grazie a quelle “carte”, racconto. Mi è accaduto altre volte: cito, tra tutte, una mia scorribanda a Vaglio, ad esempio. Rosario Angelo Avigliano offrì a Enzo Di Brango e a me la colazione nel convento assalito dalla formazione brigantesca di Crocco e Borges, ci indicò la direzione da cui vennero, la collina sulla quale i due avevano accampato i loro uomini la notte precedente l’assalto e dalla quale, all’alba, avevano mosso alla conquista del paese lungo le vie saccheggiate (quelle dei notabili) e quelle risparmiate (quelle dei poveracci come loro); ci fece guardare all’orizzonte Potenza, dallo stesso angolo di visuale dal quale José Borges coltivò l’ultima, disperata illusione prima di una fine annunciata: conquistare il capoluogo della provincia, ripristinare il governo borbonico e creare un’enclave legittimista nell’ormai nato Regno d’Italia; un sogno infranto poi dalla triste realtà delle ore successive. Perché mi piace evidenziare questo ultimo frammento di memoria? Perché – attraverso quei misteriosi fili che regolano i fatti della Storia e che entusiasmano il lavorio di ricerca – quell’episodio mi è tornato in mente proprio ad Avigliano. Il progetto d’attacco a Potenza, infatti, non ebbe seguito: al mattino Crocco ordinò improvvisamente la ritirata con grande disappunto dell’ingenuo Borges. Era accaduto, infatti, che il piano insurrezionale del capoluogo (che doveva far da pendant all’attacco stesso) era stato scoperto e che di ciò ne era stato prontamente informato l’astuto generale dei briganti. Non si è mai saputo con certezza chi lo avesse prontamente avvertito. Ora, girando per i vicoli di Avigliano vecchia, i miei amici mi dicono che, stando alla tradizione orale locale, proprio da Avigliano sarebbe partita una carrozza dei Corbo per portare la notizia a Crocco. È la conferma, per me quasi definitiva, dei sospetti maturati – assieme a Paolo Zanetov – sulla scorta di tanti altri indizi convergenti. Non so ancora se quanto mi viene riferito sia supportato o meno da fonti documentali; mi si accenna alla probabile esistenza di una lettera e tanto basta perché la ricerca … riparta. Una cosa, però, è certa: il paese, le cui strade sto percorrendo, ebbe parte importante in quei frangenti; i suoi notabili dell’epoca tennero le fila di quel movimento carsico che – per soli fini di controllo e detenzione del potere locale – strumentalizzò la rivolta contadina, foraggiando il brigantaggio. E il dettaglio della “carrozza” e dei suoi occupanti – collegando le occultate posizioni politiche dei Corbo, al cosiddetto e assai più ampio “murattismo” caratterizzante l’opposizione al Regno nella regione del Vulture – costituisce un’ulteriore riprova della genialità delle intuizioni e degli scavi di Tommaso Pedio, mio principale e antico maestro.
Massimiliano e Fabrizio mi portano al rione Poggio e mi indicano il luogo esatto dove sorgeva l’osteria nei cui pressi Ninco Nanco commise il primo di una lunga sequela di omicidi; mi fanno sostare sotto l’arco della piazza dove, portato su una carriola dalla ruota di ferro, fu esposto il corpo esanime del capo brigante, ucciso vigliaccamente da uno degli uomini, guarda caso, dei Corbo per tappargli la bocca. Qui mi incontro con un avvocato, che casualmente porta il mio stesso cognome, che mi restituisce un altro frammento della tragica epopea delle classi subalterne meridionali nei difficili anni della nascita della “Nuova Italia”: la fine orribile di Filomena, una delle sorelle del brigante, violentata e rimasta vittima di un incendio, fine descritta, probabilmente deducendola dalla tradizione orale, da Pasquale Pace in un commovente poema in vernacolo (Poema r’ La Terra. – terra-terra-). Poi una sosta alla chiesa che custodisce la statua del Carmine, quella stessa alla quale Ninco Nanco portava parte dei gioielli frutto delle sue grassazioni.
Ma il momento topico dell’intero tour è in via Rupe Tarpea, una stradina ormai semi abitata, in un groviglio di casupole che i miei accompagnatori mi raccontano essere, all’epoca, fortemente antropizzato. Al civico 6, chiusa da una porta arrugginita di ferro e bloccata da una catena con catenaccio, vi è una misera stanzetta in completo stato d’abbandono: da una fessura della porta s’intravede un pavimento sconnesso di coccio; sarebbe la casa del brigante, dove Ninco Nanco avrebbe visto per la prima volta la luce cupa di un’esistenza disgraziata agli altri e a sè. E le foto sull’uscio che gli amici mi scattano racchiudono il senso profondo di questa scarpinata: entrare nella Storia che spesso, anzi quasi sempre, si osserva “dal di fuori” e viverla dal di dentro, insomma: così, solo così, si può comprenderla, senza giudicare, senza classificare, senza etichettare il tutto a seconda delle posizioni ideologiche di partenza e senza dover dimostrare un assunto preconcetto.
E a me, che la Storia piace respirarla da vicino, non resta che ringraziare Massimiliano e Fabrizio per avermene data un’altra opportunità, oltre quella – ca va sans dire – di un trionfo di baccalà “da Tuccio”.
Buona domenica, amici!
(*) Promotore Carta di Venosa