D’Annunzio, la Città Sacra, le Stelle e il Serpente

D’Annunzio, la Città Sacra, le Stelle e il Serpente

Grazie all’impegno della casa editrice Odoya, a più di novant’anni dalla sua prima pubblicazione e a ottanta dalla scomparsa di Gabriele d’Annunzio, torna in libreria Chez d’Annunzio di Marcel Boulenger, le cui pagine raffinate scandagliando un capitolo della storia italiana unico nel suo genere.
Il libro, a cura di Alex Pietrogiacomi e introdotto da Giordano Bruno Guerri, verrà presentato venerdì 30 marzo alle ore 18,30 alla Libreria Cultora di Milano.

Boulenger1«Non lo si crederebbe, eppure c’erano persone che non amavano Venezia. Per non creare scandalo non lo dicevano ad alta voce, ma si annoiavano nella città Anadiomène». Anadiomène (“sorta dal mare”) è l’epiteto di Venere, e a scrivere queste parole fu Marcel Boulenger, tra i molti in tutta Europa che nei primi decenni del Novecento giunsero in Italia, attratti dall’impresa fiumana. Il suo iter è raccolto nel volumetto Chez d’Annunzio, uscito per l’editore Franco Campitelli di Foligno nel 1925 e ora finalmente ripubblicato da Odoya, curato da Alex Pietrogiacomi e introdotto da Giordano Bruno Guerri. In queste pagine seguiamo in presa diretta il viaggio di una generazione intera, narrato da un testimone d’eccezione, che approda a Venezia nel giugno 1916, per incontrare d’Annunzio al Lido, ed è subito colpito da una città che sembra sfidare le leggi del tempo e dello spazio: «Le Sirene, è cosa risaputa, abitano i suoi canali incantati. E la pietra e il marmo, per quanto dissimili, si uniscono divinamente tra il porpora del cielo e la foschia delle acque». È il giugno del 1916: la città lagunare è in guerra. In realtà, a parte i soldati che affollano i battelli, di giorno la vita continua più o meno come sempre. È di notte che avviene la grande metamorfosi: «Quando regnava la pace, la sera era fatta di lanterne sull’acqua, barche di cantori, luminarie nei palazzi. Adesso, dopo ogni tramonto, alla stessa ora, l’elettricità si spegne: è il segnale». Buio assoluto. Per una semplice ragione: nell’incapacità di colpire le difese della città, troppo distanti, per volgare ripicca le armi rapaci degli «infami Austriaci» ripiegano su campanili e monumenti. E Venezia appare così, «più nera dell’inferno e della notte», come ingollata dalla laguna stessa. Sennonché, di tanto in tanto, dall’oscurità emergono guitti di luce che incendiano fugacemente la notte: in piazza San Marco i caffè sono comunque aperti, e i camerieri hanno preso in prestito le lanterne delle maschere dei cinema per poter continuare a lavorare in una città «in cui tante anime sognano i combattimenti di ieri e domani, mentre lassù si alza senza sosta il grido monotono della guardia: Per l’aria buona guardia!…», motto che troneggia su una delle medaglie fatte incidere da Gabriele d’Annunzio.

Quello al Lido, in realtà, è solo il primo incontro tra i protagonisti di questa storia. Ne seguirà un altro a Fiume, la città sacra, come titola il relativo capitolo di Chez d’Annunzio. Siamo nel settembre del 1920, e il cammino che porta alla Reggenza italiana del Carnaro ha inizio ancora una volta a Venezia, città di frontiera che nella narrazione di Boulenger non separa due regioni ma anzitutto due dimensioni. Al di qua, il Novecento; al di là, una realtà che ha reciso i legami con la Storia, scegliendo di interrogarla e agirla in maniera differente, scardinando i legami della necessità e restaurando il tempo delle origini, quell’illud tempus che secondo gli storici delle religioni (in primis, Mircea Eliade) caratterizza l’esperienza del rito. Ecco la quintessenza del miracolo fiumano raccontato da Boulenger: non tanto una sospensione della storia, e nemmeno una sua eliminazione, quanto una fuoriuscita dalla Storia stessa.

Torniamo a Venezia, ad ogni modo. Quando Boulenger rimette piede in laguna, il sole è appena tramontato, e ogni cosa gli parla del Carnaro, di quell’esperienza radicalmente diversa da tutto ciò che ha conosciuto sino a quel momento. E quel piccolo prodigio non ha luogo in un mondo parallelo, ma a poche centinaia di chilometri da calli e campielli:

«Nella notte più tenera, trovarsi in gondola, sfiorare i palazzi addormentati e le loro luci sognanti, sentire da lontano spegnersi l’ultima chitarra… E pensare che qui vicino Gabriele d’Annunzio prosegue l’incredibile impresa di Fiume… che strano sogno! In che epoca prodigiosa viviamo?».

Fiume è una città santa – è la grande intuizione di Boulenger – nella quale ha fatto irruzione un tempo qualitativamente diverso. Da qui l’ascendente esercitato su chi vi si reca, percorrendo un tragitto trasformatosi a tutti gli effetti in un pellegrinaggio, «la strada del ricordo e della gloria». Italiani e stranieri, intellettuali e uomini d’azione… chi va a Fiume diviene un pellegrino, attratto da un’anima che «aleggia su tutta l’Italia come un fuoco errante». Dalla Reggenza si torna trasformati, come se si fosse entrati in un’altra dimensione, appunto, dotata di geografie e costellazioni differenti. Quello fiumano è anzitutto – parola di Boulenger – un fenomeno mistico: «Entusiasmo e fede, ardore religioso, linfa di gioventù»; questa la sua atmosfera, «simile alla risacca e all’odore delle alghe, al canto delle onde, a un veliero piegato sotto il vento».

Boulenger2E poi, finalmente, alla fine del viaggio appare lui: «Chi dice Fiume dice d’Annunzio», l’esteta d’Annunzio, il mago d’Annunzio, il guerriero taumaturgo che passa le sue giornate a ricevere delegazioni, stendere rapporti, infervorare con la sua voce magnetica i compagni d’armi. Dorme pochissimo, scrive senza sosta, negozia, spinto dal suo daimon, dalla «poesia del cielo e della terra» che si agita nel suo spirito. Il suo eloquio proietta chi ha la fortuna di ascoltarlo in un territorio situato oltre sacro e profano, dove il sacro è ovunque, e ogni azione è rituale. Qui l’arte si fa immediatamente azione – e l’arte o è sacra o non è. Rito, arte, azione: ecco il trinomio indissolubile che connota l’impresa fiumana, il cui artefice è «il più straordinario creatore di energia e bellezza che la nostra epoca abbia conosciuto». Quando compare nelle piazze o nelle vie, l’atmosfera è come sospesa, le sue parole fan vibrare l’aria circostante, e gli ascoltatori vengono travolti dall’«altezza spirituale» di «questo eroe del pensiero, del lavoro, della parola e dell’azione», nei cui discorsi, anche in quelli quotidiani, «brilla sempre una luce lontana e dorata, attraverso la perpetua grazia delle sue frasi, citazioni, motti, il sorriso e i gesti». Quello che ci presenta Boulenger, insomma, non è un mero fenomeno politico, ma prima di ogni altra cosa un evento metastorico. Nel cuore di tenebra del mondo moderno, d’Annunzio ha fatto brillare una luce differente. Lo ricorderà lo stesso autore un anno dopo, nell’agosto del 1921, andando a trovare – per la terza volta – d’Annunzio a Cargnacco, sul Lago di Garda, alla vigilia dell’ideazione del Vittoriale degli Italiani. Sarà il loro ultimo incontro a consentirgli di stilare un bilancio dei suoi incontri con l’Orbo Veggente:

«Nel pieno del XX secolo, avevamo avuto la possibilità di vivere in una sorta di città santa delirante per la parola del suo profeta. Assistevamo a un’esaltazione mai vista, una vera frenesia patriottica di un intero popolo, cui ogni giorno il suo capo offriva il conforto dell’anima, l’aiuto morale, il viatico, si potrebbe quasi dire la comunione, in discorsi sempre nuovi, pronunciati in piazza o sul campo di addestramento, su una scalinata di un edificio o sul balcone del Palazzo».

L’1 marzo 1938, tanti anni e altrettante vite dopo, quel profeta si sarebbe spento, dopo aver visto sgomento la Storia riprendere il proprio corso, portando a compimento il destino tragico del XX secolo. A ottant’anni dalla scomparsa del Comandante, tuttavia, come miglior testimonianza di quegli anni rimane lo stendardo rosso porpora della Reggenza: «Sette stelle della Grande Orsa, che indicarono sempre la buona strada ai navigatori mediterranei, circoscritte dalla spira di un serpente che si morde la coda: simbolo antico e tradizionale di ciò che è eterno». Ebbene, tornare a pensare quell’Impresa, riflettendo sui bivi che han caratterizzato la Storia successiva – quella con la maiuscola –, attraversare in compagnia di Boulenger una Venezia onirica in cerca della città santa non è una mera ricostruzione storiografica, ma implica la necessità di ripensare il senso della storia e della politica tout court, posti al cospetto di una stagione fugace ma aurea che si propose di interpretare l’uomo e il divenire in maniera alternativa, nel cuore di un Novecento nemico della bellezza e del sacro. Un’esperienza che scelse come proprio sigillo due simboli. Le Stelle – la via. Il Serpente – l’origine cui fare ritorno.

Venezia, marzo 2018

 

 

andrea_scarabelliAndrea Scarabelli (1986) ha collaborato con la Cattedra di Storia della Filosofia I dell’Università Statale di Milano. Collaboratore della Fondazione J. Evola, per Edizioni Bietti dirige la rivista «Antarès» e la collana «l’Archeometro». Scrive su diverse riviste, cartacee e non, come «Il Borghese», «If», «Il Cervo Bianco», «Barbadillo», «L’Intellettuale Dissidente» e «La Confederazione Italiana». Ha scritto, tra gli altri, su Lovecraft, Tolkien, Morselli, Eliade, Guénon ed Evola, talvolta sotto pseudonimo.