Dopo l’Occidente tramonta la globalizzazione?

𝐃𝐨𝐩𝐨 𝐥’𝐎𝐜𝐜𝐢𝐝𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐭𝐫𝐚𝐦𝐨𝐧𝐭𝐚 𝐥𝐚 𝐠𝐥𝐨𝐛𝐚𝐥𝐢𝐳𝐳𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞?
La denuncia del declino dell’Occidente che si annuncia ormai da cent’anni, nacque da un’opera dal titolo grandioso e bugiardo, Tramonto dell’Occidente.

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Dopo l’Occidente tramonta la globalizzazione?
di Marcello Veneziani
06 Aprile 2024

La denuncia del declino dell’Occidente che si annuncia ormai da cent’anni, nacque da un’opera dal titolo grandioso e bugiardo, Tramonto dell’Occidente. Grandioso non solo per il successo che ebbe, né solo per il tempismo con cui venne alla luce, dopo la prima guerra mondiale; ma per la visione del mondo, l’impianto storico e drammaturgico, le analogie e i raffronti, la vasta morfologia delle civiltà che disegnò il suo autore, Oswald Spengler.
Ma fu titolo bugiardo perché l’Occidente dopo la prima guerra mondiale non tramontò; tramontò l’Europa come ombelico del mondo, tramontarono gli imperi centrali, ma non tramontò l’Occidente. Anzi da allora prese corpo quel che fu poi definito il Secolo Americano, consacrato da due guerre e da una pervasiva colonizzazione culturale e commerciale, prima che militare, del pianeta. Il Novecento è stato il secolo dell’occidentalizzazione del mondo, che poi coincide con l’americanizzazione del globo. Con la fine del Novecento, la globalizzazione prese il posto dell’occidentalizzazione. Oggi si ha la percezione che la globalizzazione stia andando in frantumi: ovvero prosegue sul piano della tecnologia, s’incrina sul piano del mercato tra economie in conflitto, e arretra sul piano politico-militare in una guerra fredda multipolare, tra varie potenze e più varie impotenze.
Era il 1914 quando Oswald Spengler concluse il Tramonto dell’Occidente; poi quel titolo divenne l’epigrafe del dopoguerra e il sottofondo del kultur pessimismus o pensiero della crisi. L’opera vide la luce sul finire della prima guerra mondiale e fu un trionfo di vendite e commenti. Uscì in ritardo per via della guerra, e questo permise a Spengler di ritoccare il testo. Per l’avvenire Spengler prevedeva lo scontro finale tra la dittatura del denaro, della tecnica e della finanza e la civiltà del sangue, del lavoro e del socialismo. Alla fine, vaticinava, la spada trionferà sul denaro perché una potenza può essere rovesciata solo da una potenza. La profezia fu azzeccata nel breve periodo: di lì a poco andarono al potere comunismo, fascismo e nazionalsocialismo. Spengler aveva visto lontano; ma non lontanissimo. La rivolta del sangue contro l’oro, del lavoro contro il capitale, fu spazzata via in Occidente da guerre, tragedie e fallimenti. Dopo il conflitto tra politica ed economia, il denaro restò a dominare incontrastato. Ma dietro il denaro, notava Spengler, è la tecnica che prima serve l’uomo faustiano ma poi lo assoggetta. Il dominio della tecnica, previde Spengler, “detronizzerà pure Dio”. All’uomo e la tecnica Spengler dedicò un penetrante saggio, parallelo e divergente rispetto all’Operaio di Ernst Junger che vide la luce poco dopo, e alle riflessioni sulla tecnica di Heidegger. Fu profetico Spengler quando intuì un conflitto finale tra il sistema finanziario dittatoriale e il cesarismo della volontà politica, ma non nascose l’ammirazione per il cesarismo tecnico-finanziario e i suoi militi: ingegneri, inventori, imprenditori, finanzieri. A suo dire i filosofi sono misera cosa rispetto ai manager e ai signori della finanza;“ogni riga che non è stata scritta per servire all’azione mi pare superflua”. Si spinse a dire che preferiva “un acquedotto romano a tutti i templi e le statue di Roma”.
La storia per Spengler è una costellazione di mondi conclusi chiamati civiltà, ciascuna obbedisce al suo sistema di valori e al suo fato, in un determinismo ferreo; ma ciascun sistema è poi relativo rispetto agli altri e ai tempi; e ha una parabola: l’alba, l’apice e il tramonto. Una civiltà è assoluta al suo interno, ma non è eterna. Così il senso del destino si capovolge nel suo inverso, in relativismo storico e in darwinismo sociale, l’etica della fedeltà si rovescia in titanismo, il vitalismo anti-razionalistico si fa puro attivismo, il cesarismo separato dal sacro impero si fa solo volontà di potenza.
Come per i marxisti, anche per Spengler la teoria è al servizio della prassi, il pensiero è al servizio della storia. La comune matrice è nel Faust di Goethe: In principio fu l’azione. In Marx prende corpo il soggettivismo rivoluzionario nel nome di Prometeo, in Spengler il soggettivismo eroico nel nome di Faust e della sua civiltà. Ma quando la rivolta del sangue contro l’oro prese corpo in Germania col nazionalsocialismo Spengler prese le distanze da Hitler e dal suo partito: “Volevamo liberarci dei partiti ma è rimasto il peggiore”. Il razzismo per lui è “un’ideologia del risentimento verso la superiorità ebraica” e denota “povertà spirituale”, stroncò l’opera di Rosenberg. Si perse il seguito perché morì nel ’36. A sua volta Hitler non si professava seguace di Spengler e rifiutava l’idea del Tramonto dell’Occidente. Il regime nazista, su ordine di Goebbels, osteggiò il filosofo. Grande accoglienza ebbe invece Spengler nell’Italia fascista, verso cui nutrì un giudizio positivo che espresse anche in dediche ammirate al suo duce. Mussolini leggeva Spengler, lo recensì, fece tradurre Anni decisivi e, come notò Renzo De Felice, si fece sempre più spengleriano anche in polemica con la Germania nazista. Trovò in Spengler l’elogio dei popoli giovani, dello spirito mediterraneo e della romanità.
Spengler ricordava ai suoi critici che Tramonto non significava apocalissi ma compimento: l’Occidente tramonta compiendosi, nella braccia della globalizzazione. Egli concluse la sua opera nel segno del fatalismo eroico (ducunt fata volentem, nolentem trahunt, sono le parole conclusive del Tramonto). Memorabile resta la figura della sentinella di Pompei che Spengler evocò ne L’uomo e la tecnica che muore nell’eruzione del Vesuvio perché non era stato sciolto dalla consegna. Spengler cercò di tradurre in chiave storica il pensiero di Nietzsche e la visione di Goethe; condusse Zarathustra in battaglia, portando nella storia la Volontà di potenza e l’Eterno Ritorno, il Superuomo, Faust e l’Amor fati.
«L’astuta scimmia di Nietzsche», «l’ingegnoso ciarlatano», «il dilettante», «il menagramo», la «jena», «il profeta del male»: le definizioni spregiative di Spengler furono di Thomas Mann, Benedetto Croce, Ernst Cassirer, György Lukàcs.
Spengler fu un pensatore tragico e al pessimismo dedicò un intenso saggio; un pessimismo storico preludio al fatalismo eroico. Spengler era pessimista nell’indole prima che nel pensiero. Dietro la durezza prussiana e l’elogio dell’acciaio batteva un cuore delicato, incline alle lacrime, di salute cagionevole, come rivela il suo scritto autobiografico A me stesso. Spengler fu un solitario melanconico. Restò il profeta della decadenza dell’Occidente, cantò la gloria dei tramonti e l’onore delle sconfitte.
(Un saggio su Spengler in versione più ampia sta per uscire nel volume Sociologia comparata delle civiltà di Autori vari, a cura di L.Allodi, ed. Rubettino)

La Verità – 5 aprile 2024