Carnefici di Pino Aprile

Carnefici di Pino Aprile
«Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove». È il cuore di un celeberrimo atto d’accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera.

Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”. Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, Terroni, che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico.

Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un’incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l’ordine di grandezza che emerge dall’incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l’Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L’Italia “liberata” è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l’organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie.

Sono atrocità degne della ferocia dell’Isis. Per molto meno, sono stati processati e condannati ufficiali e gerarchi nazisti. Ma in Italia, invece, agli autori di quei crimini di guerra sono andate medaglie, promozioni e, talvolta, piazze e strade dedicate in quegli stessi paesi che insanguinarono. Monumenti ai carnefici.

Con pagine di rara potenza, appassionate e documentate, forte di reperti e fonti che per troppo tempo sono stati celati, Pino Aprile svela il vero volto di molti dei presunti eroi della storia Patria, ed evidenzia le ripercussioni di questa tragedia negata e cancellata.

È questa la sua opera fondamentale, la più sconvolgente e ambiziosa. Quella dopo la quale davvero non si potrà più dire: io non sapevo. Pino Aprile


DEDICA

RICERCA EFFETTUATA DAL LIBRO “CARNEFICI – ECCO LE PROVE ” PIEMME -2016

CHI CONTA, COME CONTA

[…]

pag. 54 -62
Molti sono convinti che lo studio dell’avvocato Raphael Lemkin per coniare idea e concetto di “genocidio” fu conseguente alla tempesta nazista che travolse gli ebrei d’Europa e la sua famiglia (perse quarantanove parenti stretti; alcuni perirono nelle zone occupate dai sovietici; sopravvissero suo fratello, la moglie, i due figli). Non è così: ad avviare le riflessioni di Lemkin furono il massacro degli armeni del 1915, compiuto dai turchi, e quello degli assiri del Nord, nel 1933, a opera dell’esercito iracheno, con la complicità di fatto degli inglesi, che non mossero un dito, dopo aver soffiato sul fuoco.
Ora dico una cosa su cui non posso produrre nulla, salvo un’osservazione: se unificare l’Italia fu il primo passo del progetto di rifare l’Europa, e non solo, secondo l’ideologia degli Stati nazionali e sotto l’egida della massoneria (che non va intesa quale organismo monolitico, ma conflittuale, come tutte le cose umane; collettore e camera di scontro e compensazione di interessi), quanto accadde di simile altrove, dopo l’Unità d’Italia, potrebbe essere la continuazione dello stesso progetto? «Dal 1815 al 1870,» si legge in La liberazione d’Italia nell’opera della massoneria, atti del convegno del 1988, a cura di Aldo A. Mola, per il Centro per la storia della massoneria, «coesistettero un’Europa ufficiale ed un’altra, costituita da non più di qualche migliaio di persone con ideali prevalentemente convergenti ed accomunate da uno spirito di rinnovamento civile […]. Erano gli uomini che, con maggiore o minore incidenza, avrebbero rimodellato il Continente.» Un compito difficilissimo, perché non solo la storia era un ostacolo, ma anche la geografia, che divide, non unisce, al contrario, per esempio della Cina, dove «l’ambiente morfologico-geografico ha consentito di pervenire addirittura all’unità politica già nel 221 avanti Cristo (nonostante successivi periodi di temporaneo sbandamento dopo i quali, però, l’unità è sempre ritornata)», scrive Marco Ascione in un libro in corso di pubblicazione, Perché siamo arrivati a tanto? Così, «a dispetto dell’unico sistema di scrittura e dell’unica lingua cinese, in Europa ci sono ben 45 lingue, ognuna con il suo alfabeto modificato e una diversità culturale ancor maggiore».
Fu la Gran Bretagna a guidare o agevolare il piano e alcuni protagonisti della nostra avventura unitaria, a cominciare da Garibaldi: con lui, da “patrioti italiani”, combattevano non solo mercenari della legione ungherese (che arriverà un paio di mesi dopo lo sbarco a Marsala, e «sostanzialmente gestita dall’Inghilterra» scrive Giuseppe Scianò, in Nel Mese di maggio la Sicilia divenne colonia), ma pure la legione inglese; e saranno soprattutto inglesi e statunitensi a soccorrere i garibaldin-piemontesi che a Milazzo stanno perdendo contro le forze borboniche, circa dieci volte meno numerose, ma guidate dall’ottimo colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco (Garibaldi, anche a detta di suoi fratelli massoni, come il radicale rumeno Constantin Rosetti, era «del tutto ignorante nell’arte della guerra […] è un uomo caotico ma è di coraggio notevole e incontestato […] amatissimo dai suoi soldati», si legge in La liberazione d’Italia nell’opera della massoneria). Tanto Garibaldi temeva Beneventano del Bosco come avversario, da far inserire nel successivo accordo di “capitolazione” (preferito dal comandante borbonico di Messina, all’invio di rinforzi ai suoi), una clausola che ne prevedeva l’allontanamento dall’esercito, per almeno sei mesi! Ancora a proposito di “che c’entrano gli inglesi”?, nel libro di Nello Morsellino, Giuseppe Garibaldi: fu vera gloria?, è pubblicato l’elenco degli alloggi delle camicie rosse, a Calatafimi, in cui si legge: «Squadra dei capitani inglesi, convento di San Michele». E fu Garibaldi a dire che senza la flotta britannica l’impresa non sarebbe stata compiuta: nelle sue memorie, scrive che la presenza delle navi britanniche a Marsala tutelò lo sbarco, «ed io beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto»: in Sicilia era appena arrivato: le altre novantanove quali furono? Per i britannici, che in Sudamerica gli avevano dato il comando di alcune navi, a protezione del loro monopolio commerciale, il nizzardo aveva fatto il corsaro “autorizzato” (da Contro Garibaldi, di Gennaro De Crescenzo). Gli inglesi, poi, posero mano anche alla sistemazione della geografia politica del Medio Oriente. Il massacro degli armeni avvenne con modalità spesso simili a quelle adottate durante l’unificazione d’Italia; a seguirne l’esecuzione c’erano, quali “osservatori”, ufficiali tedeschi. L’inazione del mondo civile (vabbe’, civile…) dinanzi a quella strage, apparve a Hitler il dato politico più importante; e nel 1939, quando decise l’invasione della Polonia e lo sterminio degli ebrei, a chi titubava, replicò: «Chi mai si ricorda oggi dei massacri degli armeni?». Non sempre si può dire che se il dopo somiglia al prima, di quello è figlio: ma il riassetto etnico da cui nacque l’Europa degli Stati nazionali cominciò in Italia e continuò altrove; ci fu assistenza britannica da noi e in Medio Oriente, supervisione tedesca in Turchia; e qualche consonanza dei metodi, come le lunghe marce forzate, durante le quali i prigionieri erano sottoposti a sevizie, umiliazioni, a volte, sino a morirne. Abbiamo testimonianza diretta che, di sicuro, lo facevano in Calabria. E solo perché la cosa arrivò in Parlamento, sappiamo che accadde anche altrove: un tale Francesco Calicchio, che aggredì Silvio Spaventa, il vero ministro della repressione, mentre era in carrozza, fu inviato a domicilio coatto a Portoferraio, nell’isola d’Elba «ove venne tradotto dai carabinieri, i quali lo costrinsero a coprire il percorso Napoli-Livorno a piedi, con un viaggio durato trenta giorni», racconta Domenico Capecelatro Gaudioso, in Reazione a Napoli dopo l’Unità. Non risulta che il Calicchio sia stato anche costretto a nuotare da Livorno all’isola d’Elba. Ovviamente, il valore scientifico di queste ipotesi è quello di un indizio, più la regola andreottiana del pensar male…

Nel 1860, una violenza inaudita si abbatté su un popolo in pace, quello delle Due Sicilie, ne interruppe il percorso (che non era il più bello del mondo, ma sicuramente migliore di come è stato descritto da chi aveva interesse a diminuire lasua colpa) e lo destinò a un diverso futuro, in uno Stato Unitario; ma in ruolo subalterno, allora come adesso: sei terrone, non avrai treni come me, e se sì, i miei scarti; non avrai autostrade, e se sì, non come le mie; né gli aeroporti, o scuole, università, se non minori: come te; spenderemo meno e se ci riusciamo, quasi niente per la tua istruzione, perla tua salute; ti ruberemo i soldi che l’Europa invia perché il tuo territorio sia attrezzato come il resto dell’Unione e li useremo per il contrario: innalzare ancor più, a vostro danno, il livello di vita dei vincitori di una guerra non dichiarata e, si direbbe mai finita, ma combattuta oggi con altri mezzi.
L’imbatto di quella violenza fu così terribile, da indurre tanti milioni di persone ad accettare la condizione di minorità finoa farla propria e giustificarla, ancora oggi, dopo un secolo e mezzo.
Le cifre che emergono dalla ricerca sull’improvvisa diminuzione degli abitanti del Sud, da quando le truppe sabaude vi portano la guerra, sono nell’ordine delle centinaia di migliaia; ma bisogna anche mostrare come si arriva a quelle “tribù perdute”. Toccherà ricostruirne le dimensioni, inseguendole, capitolo per capitolo, nei campi di cconcentramento, nei luoghi di deportazione e nelle carceri a cui molti non sopravvissero, dinanzi ai plotoni di esecuzione e nei paesi rasi al suolo perché restii a «diventare piemontesi ad archibugiate», scrisse Massimo d’Azeglio.

Un sistema empirico, lungo, faticoso, raccapricciante, non esaustivo e ripetitivo, ma mostrerà come, strage dopo strage, si arriva a quei numeri che paiono non credibili. E mi direte, allora, se ricorrere al termine “genocidio” sia o no eccessivo.
Un esempio, per farmi capire meglio: l’eccidio-simbolo dei massacri del Risorgimento al Sud è quello di Pontelanfplfo e Casalduni, due paesi del Beneventano che, per rappresaglia e per ordine del generale Cialdini macellaio Enrico, proconsole dei Savoia nell’ex Regno delle Due Sícilie, furono circondati da un migliaio di bersaglieri e altri militi e rasi al suolo, il 14 agosto 1861, in una notte di rapine, torture, stupri, massacri e incendi: rimasero in piedi tre case. Sul numero delle vittime, ancora si battaglia. Che siano nell’ordine di centinaia, però non è più in discussione (sia pure da pochi anni), anche se c’è ancora chi, per continuare a sostenere che se ne ebbero poco più di una dozzina, cita solo la prima pagina di uno studio che, in quelle seguenti, dimostra come i morti furono centinaia. La distruzione di documenti parrocchiali e comunali ha reso laboriosa la stima della strage. Ma grazie all’incrocio di testimonianze italiane e straniere dell’epoca (incluse quelle rese nei Parlamenti inglese e italiano) e del poco rimasto negli archivi (dopo più di un secolo, in provincia di Sondrio, fu rinvenuto il diario di uno dei bersaglieri che compirono la carneficina, Carlo Margolfo), i fatti sono stati ricostruiti e questo è, oggi, uno dei massacri meglio documentati che ci siano. Tranne che sul numero delle vittime. Tante, ma quante?
Ricerche sulla consistenza della popolazione prima e dopo la strage erano state compiute già nell’immediatezza dei fatti (giornali, libri), poi da Daniele Perugini, nel 1878; poi dal canonico don Davide Fernando Panella, sulla mortalità nei cinque anni prima e dopo la strage; poi dal parroco don Giovanni Casilli; poi da Renato Rínaldi, discendente di due delle vittime, odierno storico locale che sul caso ha raccolto un’imponente messe di dati. Infine, Daniele (Gabriele n.d.r) Palladino, segretario comunale di Pontelandolfo, ha incrociato e integrato le informazioni, da un punto di vista solo demografico, e quel che ne viene fuori è: nel 1857 (ultimo dato disponibile nella ricostruzione di Perugini), gli abitanti di Pontelandolfo erano 5.561. Il numero è coerente con altri: nel Dizionario geografico-storico-statistico de’ Comuni del Regno delle Due Sicilie, pubblicato nel 1858 da Achille Moltedo (una sorta di enciclopedia in pillole della storia e dell’economia
del Sud, paese per paese, insomma, l’antenata terrona della Lonely Planet Guide Books), il numero riportato degli abitanti di Pontelandolfo è di 5.301. E la cosa ha senso, perché l’opera di Moltedo richiese alcuni anni, e quello è il dato del 1850, nella cronologia di Perugini. Nel 1861, dopo la strage, gli abitanti sono scesi a 4.375: 1.186 in meno. Ma, nel Calendario generale del regno d’Italia, pubblicato nel 1864, si registra a Pontelandolfo, al 1° gennaio 1862, un numero di abitanti ancora più basso: 4.284 (il censimento fu condotto dal ministero per l’Agricoltura, l’Industria e il Commercio, da cui dipendeva la Commissione di statistica; il Calendario, dal ministero dell’Interno; e dal tono con cui i tecnici della statistica parlano dei Calendari in un testo ufficiale, è evidente che c’era attrito, fra i ministeri, su questo argomento).
ll canonico Panella dimostrò che, negli anni a seguire, la mortalità restò altissima, per i feriti e gli ustionati che non perirono subito, ma non sopravvissero a lungo: fra il 1861 e il 1862, nonostante il calo della popolazione, i morti furono quasi duecento in più, rispetto ai due anni prima della strage. Per comprendere ancora meglio il valore di questi dati c’è da aggiungere che, nei dieci anni prima del massacro, la popolazione fu stabile o in lenta crescita, al di sopra dei cin-quemila abitanti; dopo la strage, per ritornare a quei livelli, ci vollero quasi quarant’anni.
Dovete scusarmi per tutti questi numeri, ma ci mostrano l’ampiezza del crimine. E, se state pensando “due o duecento più o meno, cosa cambia, ormai?”, ricordo come vanno letti: Concetta Biondi, 16 anni, che muore stuprata da dieci soldati e suo padre costretto ad assistere e poi ammazzato, valgono due; Giuseppe Santopietro e il figlio neonato (che i bersaglieri squarciano con la baionetta, prima di uccidere il padre) valgono altri due. Volete continuare da soli? Per un quadro un po’ più completo, c’è da aggiungere che «il tremendo castigo» non placò la sete di vendetta dei caini d’Italia, che potevano invadere un Paese in pace, metterlo a ferro e fuoco, e punire chi non accettava l’annessione (forse, se avessero provato a convincerli su un piano di parità, e non con i fucili…). Fra i sopravvissuti se ne misero sotto processo 219 di Pontelandolfo (ebbero il coraggio, loro che ne avevano depredato gli altari degli arredi sacri e bruciato chiese, di accusare i superstiti, nientemeno che di «oltraggio, violenza e distruzione delle venerande effigie del re Vittorio Emanuele II e di Garibaldi»: da Il Brigantaggio meridionale di Aldo De Jaco); altri 105 imputati erano di Casalduni, incluso il sindaco; e dei paesi vicini: 103 di Campolattaro, 34 di Ponte.

Quindi, rifacendo i conti con i dati del 1862 riportati dal ministero dell’Interno, i pontelandolfesi che mancano all’appello sarebbero di più: non 1.186, ma 1.277 (5.561-4.284).
Dalle cronache del tempo, dalla relazione del deputato milanese Giuseppe Ferrari, socialista e filosofo, che andò a Pontelandolfo subito dopo la carneficina, dal diario del garibaldino lombardo, e altre fonti, si apprende di fucilazioni in massa, amputazioni, furti, saccheggi, donne violentate e uccise in chiesa, nelle abitazioni, dinanzi ai familiari e gli scampati chiusi nelle case date alle fiamme.
Il conto, però, è fatto con il numero di abitanti di quattro anni prima dell’eccidio, ultimo dato noto. Nel 1861, invece, quanti erano, di preciso, a Pontelandolfo? Ora lo si può sapere, grazie a un documento che non fu stilato per ragioni demografiche ma militari e che sarebbe inedito. Par di capire che i piemontesi, ormai occupanti, non avendo idea della consistenza dei paesi, delle città, chiesero lumi al ministero degli Affari interni (quel che ne restava a Napoli). Così, dal Dicastero dell’interno e polizia – 4° Ripartimento – 6° sezione – N° 9257, riguardo a Oggetto: Statistica delle Provincie Napoletane, si inviano [Al] Sign.r Segreto Gen.le Comand.e del 6° Dipartimento militare Napoli, “le tabelle annesse al Decreto del 1° ap.e ultimo, relativo al num.o e alla ripartizione dei Consiglim provinciali».
Da lì si apprende che Pontelandolfo ha 5.747 abitanti, nel 1861; circa duecento in più di quattro anni prima. E la cosa non stupisce. Quello che impressiona è la data del documento: 10 agosto, 4 giorni prima della strage!
Quindi, ora rifacciamo i conti: 5.747 – 4.284 = 1.463.
Quasi millecinquecento persone su meno di seimila. E c’ènancora chi si scandalizza se allo stadio San Paolo, a Napoli, qualche volta fischiano l’inno nazionale. Il rispetto si merita, non lo si può pretendere.
Ma si può dire che 11.463 siano stati tutti uccisi e tanti non siano, invece, riusciti a fuggire, senza più tornare a casa? La descrizione dell’assalto narra di un paese circondato, per impedirlo; e poi di rastrellamenti, nei giorni a seguire, nei paesi e nelle campagne intorno, con ulteriori fucilazioni sul posto; mentre Ferrari parla di corpi umani carbonizzati, fra le macerie delle case.
E questo in uno solo delle decine di paesi eccediate di cui si è persa la memoria, che con tanta fatica si cerca di recuperare.
E dove finirono i corpi di tutta questa gente? Circa due secoli prima, a Pontelandolfo, la peste fece quasi lo stesso numero di morti, 1.195. Nei registri parrocchiali si annotò che non si potevano elencare tutte quelle vittime, né disporre per ognuna di loro un ufficio funebre: furono interrate, a 25-30 al giorno, nella chiesa dell’Annunziata. Gabriele Palladino ipotizza che altrettanto sia stato fatto con i resti dei cittadini di Pontelandolfo carbonizzati al fuoco della libertà portata dai Savoia, perché fu testimone, durante i lavori di restauro del tempio dell’Annunziata, del ritrovamento di una montagna di ossa umane: centinaia e centinaia di scheletri, con segni di combustione. Corpi senza nome, che il fuoco rese irriconoscibili.
Il restauro fu compiuto con i soldi per le celebrazioni dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia; l’annuncio del finanziamento venne dato in occasione della lettura del messaggio di scuse inviato, dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napoletano, a nome del Paese. Con questi strumenti andremo nell’arcipelago Gulag che divenne l’Italia e nella terra dei morti che divenne il Sud, a contare le vittime, per cercare in dettaglio e in totale, i “riscontri demografici” dell’entità della carneficina.
È deprimente questo viaggio nella terra dei morti. Ha un senso? Dopo ogni guerra, non importa quanto dopo, finito il saccheggio di chi recupera quel che può ancora avere valore di merce (inclusi sentimenti, racconti), c’è sempre qualcuno che torna sui campi di battaglia, per spigolare fra le spoglie insepolte dei vinti e i resti minimi, brandelli di storie perse, in cui si avverte qualcosa di proprio. Il perché di certe cose non è chiaro, da subito, ma emerge a mano a mano che il viaggio si compie. Lasciateci percorrere i luoghi della nostra sconfitta, per frugare fra i resti dell’onore e del diritto di cui il vincitore si appropriò, come se a lui solo spettasse l’intera posta (la vittoria trasforma i suoi torti in ragioni; e in torti le ragioni del vinto), mentre proclamava la nascita di un Paese unico, da cui, di fatto, fu escluso chi perse (se state per dire no, vi ricordo ferrovie, autostrade…: guardate che ricomincio, eh!?): tollerato solo quale “minor cittadino”, nella condizione di cronica insufficienza imposta e rimproverata a chi ha perso.
Se ti chiedono: perché lo fai dopo tanto tempo? La risposta non può che essere: uno cerca quello che gli manca. E noi recuperiamo i pezzi perduti della nostra storia, perché siamo conseguenza di quella, anche quando non sappiamo di esserlo, né di quale storia, come ogni giorno è figlio di ieri e padre di domani. Abbiamo scoperto che ci hanno resi e ci vogliono incompleti e più in basso, come tocca ai vinti. Visto il podio? Quello del primo è più alto; gli altri, sotto. L’unità non è una classifica con diritto a scalare. Ritrovare le verità che ci sono state negate, ci completa; riallinea il podio, per ripartire interi e insieme, ma solo se alla pari.