Fedele a Evola e Tolkien

𝐅𝐞𝐝𝐞𝐥𝐞 𝐚 𝐄𝐯𝐨𝐥𝐚 𝐞 𝐓𝐨𝐥𝐤𝐢𝐞𝐧
Ho conosciuto Gianfranco De Turris quando stavo scrivendo la tesi di laurea su Julius Evola, nel 1977.

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Fedele a Evola e Tolkien

Ho conosciuto Gianfranco De Turris quando stavo scrivendo la tesi di laurea su Julius Evola, nel 1977. Lo conobbi prima per via epistolare, perché gli mandai la tesi non ancora pubblicata e da lui ricevetti un tiepido, sospettoso elogio; non amava la lettura filosofica di Evola e concepiva un limite scriverne in ambito accademico, nell’ambito di una tesi di laurea in filosofia. Poi lo incontrai nella redazione romana del “Roma”, dove Gianfranco lavorava, in piazza San Silvestro presso la Sala stampa. Lo conobbi con Enzo Erra, che era il notista politico del quotidiano napoletano. Ero un ragazzo, lui un giovanotto di undici anni più grande di me. Lo leggevo sul Conciliatore, l’Italiano e altre riviste culturali di destra. Era per me il più giovane dei “fratelli maggiori”, ossia quella generazione intellettuale “di destra” di epoca postfascista: da Erra a Fausto Gianfranceschi, da Piero Buscaroli a Claudio Quarantotto, da Giano Accame, da Fausto Belfiori ad altri amici sparsi in Italia. Lui era per me quello che aveva raccolto il testimone di Adriano Romualdi, scomparso precocemente, che non feci in tempo a conoscere, come del resto non conobbi Evola.

Col tempo lo coinvolsi in vario modo in tutte le mie avventure editoriali, con Volpe, con Ciarrapico, poi con le riviste che diressi, dai mensili ai settimanali. A sua volta lui mi coinvolse nelle iniziative evoliane di cui si occupava, soprattutto quando diventò presidente della Fondazione Evola. Ricordo che a casa sua una sera d’inverno del 1981 avvenne il primo dialogo trasversale con Massimo Cacciari e Giampiero Mughini, Gennaro Malgieri ed io; quel dialogo che poi pubblicai nel numero unico di Omnibus. Ci ritrovammo poi con Gianfranco per alcuni anni a lavorare insieme nella redazione del Giornale radio di Mezzanotte nella sede Rai di via del Babuino e ci sentivamo come esuli da altri mondi, costretti a vivere in un habitat che ci era estraneo, collegati, più che colleghi, da un filo invisibile di affinità ideale. Percepivo il suo disagio, e la sua volontà di separarsi dall’ambiente circostante, di assolvere ai suoi doveri e poi immergersi in letture e pensieri d’altro tipo: in quel tempo Gianfranco appestava la stanza col suo sigaro (eravamo ancora in epoca turco-liberista e si poteva fumare in redazione come al cinema, al ristorante, ovunque).

Di Gianfranco ho sempre ammirato la coerenza e la fedeltà granitica e duratura ad Evola e a Tolkien, alla Tradizione e alla Fantasy. Un’incrollabile, inflessibile lealtà che mi ha sempre colpito in questo mondo di voltagabbana e di psicolabili. Quelli che erano i nostri principali punti di contatto e di affinità erano al tempo stesso i punti di maggiore divergenza, implicita, che non si tradusse mai in conflitto. Non amavo il filone fantasy, non mi interessava la letteratura horror e ammiravo senza riconoscermi nel mondo magico di Tolkien e degli Hobbit. Ma soprattutto rivolgevo critiche di fondo a Evola, che pure era stato il mio autore di riferimento in gioventù; ma già dai tempi della laurea trovavo alcune contraddizioni tra il suo sovrumanismo trascendentale e il senso della tradizione, la sua idea della libertà e dell’individuo assoluto in contraddizione con la civiltà dell’essere e il superamento comunitario dell’individuo; o tra l’idea astrale, esoterica, inaccessibile di tradizione e le tradizioni incarnate, storiche, viventi, popolari. Non abbiamo mai polemizzato su questo con Gianfranco, sapendo peraltro le consonanze di fondo che ci legavano; ma era stridente la divergenza. Diverso peraltro era il nostro atteggiamento rispetto al cattolicesimo, alla massoneria e ad alcuni temi sociali e comunitari; ma eravamo sulla stessa barca, ci sentivamo dalla stessa parte, denunciavamo la stessa egemonia e intolleranza, incancrenite con l’avvento del politicamente corretto, a cui Gianfranco dedicò uno dei primi saggi sull’argomento. Anche ora che si sono diradate le nostre frequentazioni, e ciascuno si è un po’ ritirato nel suo mondo o ne è prigioniero, avverto con Gianfranco un legame antico e tenace, che definire amicizia forse è troppo poco. E poi ci unisce il mito di quella tigre che non cavalcammo…

(Autori Vari, Il viaggiatore immobile. Omaggio a De Turris, Solfanelli editore)