Franchetti e Sonnino “La Sicilia nel 1876”

SIDNEY SONNINO E LEOPOLDO FRANCHETTI, MERIDIONALISTI CONSERVATORI TOSCANI

(pubblicato sul quotidiano l’Attacco)
Le “Lettere meridionali” di Pasquale Villari, pubblicate nel 1875 dall’ “Opinione” di Torino, avevano per la prima volta, in maniera decisa, posto l’accenno sulle gravissime responsabilità dei governi conservatori liberali per il modo in cui avevano gestito, nei primi quindici anni del Regno d’Italia, l’annessione delle province del Mezzogiorno, definita più tardi «conquista regia» da Guido Dorso. Una conquista avvenuta utilizzando mezzi repressivi violenti contro le rivolte contadine e bracciantili, nel riuscito tentativo di conservare privilegi semifeudali alla borghesia terriera, detentrice di estesi latifondi in gran parte usurpati.
Con Villari nasceva la questione meridionale e con essa «la storia delle analisi, dei dibattiti, delle politiche relative ai problemi del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese” , costringendo il conservatorismo liberale al potere ad affrontare con analisi politiche, economiche e storiche i condizionamenti classisti e gli errori di fondo che avevano seriamente compromesso il breve percorso unitario. Un percorso sempre più fragile nel momento stesso in cui la Destra storica stava perdendo il potere e avanzavano prepotentemente, soprattutto nel Mezzogiorno, le sollecitazioni clericali, socialiste, anarchiche.

Il pensiero politico di Villari veniva subito ripreso dai giovani conservatori toscani Franchetti e Sonnino con un saggio pubblicato nel 1877 in due volumi “La Sicilia nel 1876” , il primo scritto da Franchetti sulle condizioni amministrative e politiche, il secondo da Sonnino sulle infelici condizioni dei contadini siciliani.

Leopoldo Franchetti era nato a Livorno nel 1847 da una benestante famiglia di origine ebraica. Si era laureato in Legge nel 1870 a Pisa, dove aveva incontrato Sonnino e aveva ricevuto gli insegnamenti di Pasquale Villari. Dopo l’inchiesta sulla Sicilia del 1876, fondava nel 1878 insieme a Sonnino la rivista “Rassegna settimanale”. In seguito, nel 1910, insieme a Giustino Fortunato fondava l’ “Associazione per gli interessi del Mezzogiorno”, presiedendola fino alla morte avvenuta nel 1917.

Sidney Sonnino nasceva nello stesso anno a Pisa, oltre che cofondatore con Franchetti della “Rassegna settimanale” di Firenze, fondava nel 1901 “Il Giornale d’Italia”. Sarà eletto ininterrottamente dal 1880 al 1913 alla Camera dei Deputati dalla XIV alla XXIV legislatura, svolgerà le funzioni di Sottosegretario di Stato al Ministero del Tesoro nel 1889, di ministro delle Finanze nel biennio 1893-94, di ministro del Tesoro dal 1894 al 1896, di Presidente del Consiglio dall’8 febbraio al 27 maggio 1906 e dall’11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910, di ministro dell’Interno e, più volte, di ministro degli Affari Esteri dal 1914 al 1919. Sarà nominato senatore il 3 ottobre 1920, due anni prima della morte avvenuta nel 1922 .

Il viaggio di Franchetti e Sonnino in Sicilia, al fine di studiare sul campo le condizioni sociali, politiche e amministrative, nonché i rapporti tra mafia e poteri locali, era iniziato dopo che con legge del 3 luglio 1875 si era costituita una Giunta parlamentare d’inchiesta al fine di indagare sullo stato della Sicilia. I risultati della Giunta erano stati presentati il 3 luglio 1876 dal deputato Bonfandini . Il dibattito politico, precedente e successivo, alla relazione sull’inchiesta aveva assunto toni estremamente aspri con la Sinistra parlamentare che colpevolizzava la Destra di non aver adottato le politiche necessarie a sanare gli squilibri e le disuguaglianze del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, privilegiando il mantenimento di un sistema feudale agrario e scatenando una questione sociale che aveva raggiunto livelli estremi. Ma più dell’inchiesta parlamentare erano le relazioni di Franchetti e di Sonnino a cogliere la vera natura della questione agraria e demaniale e della mafia nei suoi intrecci col ceto politico ed economico dominante.
Franchetti e Sonnino avevano, più del loro maestro Villari, focalizzato l’attenzione sulla questione meridionale, mettendo a fuoco fenomeni socio-politici quali «anarchia delle classi dirigenti, ribellioni contadine, resistenze regionalistiche, larga influenza ideologica del clero», in un contesto sociale dove l’ostacolo primario allo sviluppo della società era rappresentato dall’assoluto predominio del «ceto agrario parassitario e usuraio» nei riguardi del quale i governi liberali del primo quindicennio unitario avevano operato «ora piegandosi al compromesso ora svolgendo una politica puramente repressiva» .
Franchetti e Sonnino sono stati portatori di un progetto politico riformistico, pur in un contesto pienamente e consapevolmente conservatore. Un progetto che sarà destinato a non produrre effetti nella realtà socio-economica del Mezzogiorno, nonostante Sonnino avrebbe rivestito in seguito importanti incarichi governativi in qualità persino di presidente del Consiglio dei ministri.

Infatti Antonio Gramsci, in “Alcuni temi sulla quistione meridionale” del 1926 scriveva che il progetto di Sonnino e Franchetti aveva avuto l’aspirazione di «creare nell’Italia meridionale uno strato medio indipendente di carattere economico che funzionasse […] da “opinione pubblica” e limitasse i crudeli arbitrii dei proprietari da una parte e moderasse l’insurrezionismo dei contadini poveri dall’altra». Il grande intellettuale affermava che «il piano governativo di Sonnino e Franchetti non ebbe neanche l’inizio di una attuazione», spiegandone lucidamente i motivi nel contesto della relazione dei rapporti tra Nord e Sud in riferimento alla particolare organizzazione dell’economia nazionale e dello Stato, «tale per cui la nascita di una classe media diffusa di natura economica» e quindi di una «borghesia capitalistica diffusa» era «resa quasi impossibile». Per Gramsci «ogni accumulazione di capitali sul luogo e ogni accumulazione di risparmi è resa impossibile dal sistema fiscale e doganale e dal fatto che i capitalisti proprietari di aziende non trasformano sul posto il profitto in nuovo capitale perché non sono del posto». Gramsci riteneva che i governi liberali non avevano avuto altro obiettivo che conservare quel «mostruoso blocco agrario» che aveva funzionato da intermediario e da «sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche». Non rilevava all’interno di quel sistema «nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi», se non al di fuori del Mezzogiorno, nei «gruppi politici agrari conservatori, specialmente della Toscana, che nel Parlamento erano consorziati ai conservatori del blocco agrario meridionale» e di cui facevano parte Franchetti e Sonnino, definiti benevolmente «borghesi intelligenti», spaventati dallo spettro dell’anarchismo che Bakunin rappresentava allora nel Mezzogiorno . Era questa l’occasione per polemizzare con Giustino Fortunato e Benedetto Croce, ritenuti i grandi intellettuali a protezione degli interessi dei ceti agrari e quindi definiti come «i reazionari più operosi della penisola» .

Nella sua relazione Franchetti aveva ammesso il fallimento del governo e il suo totale cedimento ai poteri locali, legittimi e illegittimi: «In un paese dove niuno crede che le leggi siano superiori a tutti e per tutti uguali, e dove è convinzione generale che la loro applicazione dipenda dalla autorità dei potentati locali, ogni concessione che venga fatta ribadisce l’universale credenza». Sul ruolo dei deputati siciliani, l’intellettuale toscano era ancora più drastico, parendogli che avessero «dai loro elettori il mandato, più che di far nuove leggi, di procurare che siano fatte eccezioni a quelle in vigore».

Sonnino, da parte sua, aveva focalizzato la sua relazione sulle disperate condizioni delle masse rurali del Mezzogiorno, in un contesto sociale che non aveva mai spezzato il legame feudale che costringeva il contadino ad essere legato alla terra e al padrone, laddove, invece, persino in Irlanda nel 1870 con il “Land Act” erano stati assicurati ai contadini i piccoli appezzamenti di terreno in cui lavoravano. L’eversione della feudalità in Sicilia era avvenuta nel 1806, sei anni dopo che fosse promulgata nel Regno di Napoli da parte degli invasori francesi, ma come correttamente scriveva Sonnino «l’abolizione di diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perché i feudi […] furono lasciati in libera proprietà agli antichi baroni: onde al legame tra il coltivatore e il suolo, che prima era costituito dalla stessa servitù feudale, non si sostituì come altrove l’altro vincolo della proprietà, ma invece quel legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggior schiavitù di prima per effetto della propria miseria» .

Michele Eugenio Di Carlo