Il martirologio dei patrioti

Il martirologio dei patrioti

Il lungo percorso che portò alla nascita dell’Italia unita fu costellato di martiri che troppe volte finiamo col dimenticare. Questo martirologio di patrioti, adorno di vittime volontarie e ragazzi ispirati a più alti valori, resti ben saldo nella memoria del popolo italiano.

Sin dal 1791 s’immolarono per un sogno di patria libera tanti giovani forti di ideali e speranze. A Napoli caddero Emanuele De Deo, Vincenzo Vitaliano e Vincenzo Galiani e dopo di essi i fratelli Corona, i Filomarino, Andrea Serao, sacerdote ucciso dai sanfedisti. Né si possono tacere le vittime cruente di Altamura, Picerno e Venafro, i puri della spedizione di Vigliena, capitanata dal sacerdote Antonio Toscano. Numerosi furono gli esempi di tanto ardore. L’ottuagenario avvocato Luigi Serio, spentosi incoraggiando a combattere i suoi tre nipoti Turris, e poi lo Schipani, Agamennone Spanò, Pasquale Battistessa. Tutti furono modelli per i fratelli di pensiero e martirio. Su tutti primeggia la gigantesca figura dell’ammiraglio Caracciolo, primo a mostrare con un proclama ai cittadini quali fossero i nemici da combattere e perché. Espugnato il forte di Vigliena, si ritirò a Calvizzano, ma, tradito, fu arrestato ed il suo corpo fu appeso ad un’antenna della Minerva, la nave con cui il Caracciolo aveva dominato tante battaglie.

Accanto a lui si staglia l’immagine gentile di Eleonora Fonseca Pimentel, fondatrice del Monitore Napoletano. Il Metastasio la lodò come poetessa, lo Spallanzani fu fulminato dalla sua cultura scientifica, ma anche lei fu uccisa dal boia dei Borbone restaurati. Ebbe come compagni Vincenzo Lupo, Domenico e Antonio Piatti, l’uno vescovo, l’altro prete, entrambi finiti su un patibolo di Piazza Mercato, perché la vera religione non poteva che affrontare la schiavitù ed opporsi alle ingiustizie d’ogni tempo e dette tanti valenti menti e braccia al Risorgimento. Questo fu il loro delitto e, per la stessa accusa, furono perseguitate la madre e la sorella del conte di Ruvo, le duchesse di Cassano e Popoli, la madre di Gennarino Serra, decapitato, e quella di Giuliano Colonna, anch’egli decollato. Nel sangue furono soffocate intere famiglie. Ed ancora non si possono mettere da parte i nomi di Luisa Sanfelice, di Ettore Carafa, conte di Ruvo, Francesco Conforti, Marcello Scotti, Pasquale Baffi, Nicolò Fiorentino. Il fiore della Napoli illuminista, magnanima avanguardia di un popolo, ascrisse i suoi nomi tra quelli dei martiri della Repubblica.

E poi? E poi vennero quelli del 1821, visi generosi e gentili, fratelli d’eroismo ed abnegazione, cresciuti nel carbonarismo. Michele Morelli, Giuseppe Silvati, il Menichini, i rivoluzionari di Nola e quelli di Piemonte, di Lombardia, il Santorre Santarosa, destinato ad inseguire a Sfacteria il suo sogno di libertà, Carlo Bianco, Federico Confalonieri, perseguito e sbattuto nelle carceri del castello moravo di Spielberg, Antonio Solera, Antonio Fortunato Oraboni, Luigi Moretti, Marco Fortini… E poi il generosissimo Giorgio Pallavicino che, saputo della condanna per sospetto di Gaetano Castillia, si consegnò come colpevole, volontariamente asservendosi ad un destino di morte. L’Imperatore Francesco Giuseppe nel rifiutargli la grazia ci consegnò di lui il più superbo elogio: “Sono costretto ad usar rigore, Pallavicino è un eroe! Io chiamo eroismo il sacrificio e il Pallavicino si è sacrificato per salvare i suoi amici”. Oggi le crudeltà austriache sembrano cancellarsi dalla memoria del nostro popolo e andrebbero allora riscoperte le memorie di Silvio Pellico e Piero Maroncelli.

Giuseppe Pecchio, il Bossi, l’Arconati, Camillo Ugoni, Giovanni Arrivabene di Mantova e Filippo Ugono, i soli superstiti a tanti martiri, furono condannati a morte in contumacia. Esulavano Porro, Lambertenghi, Scalvini Giovita, Berchet e pure Melchiorre Gioia e Romagnosi venivano calpestati da Vienna. A Modena, Francesco IV fu men disumano: il sacerdote Giuseppe Andreoli fu condannato a morte senza prove di crimine, per il gusto di punire e seminare terrore. Con don Giuseppe Andreoli erano una sessantina i patrioti denunciati nella stessa inchiesta, oltre metà dei quali reggiani: diversi furono processati “contumaci o profughi”, gli altri torturati e drogati per estorcere confessioni e nomi. La sentenza fu emessa l’11 settembre: 47 i condannati, dei quali dieci – compreso il prete – a morte, ma per tutti, tranne Andreoli, la pena fu commutata nell’ergastolo o graziata. E chi non sa dell’abominevole tradimento del duca verso Ciro Menotti?

Ed anche le Romagne ebbero le loro vittime nel tentativo di scuotersi dal giogo pontificio: Vito Fedeli, di Recanati, cospiratore del 21 e nel 31, fu arrestato e sbattuto a marcire in carcere; Angelo di Francesco Reggiani aprì la rivoluzione bolognese che si macchiò delle vittime di Cesena e Forlì e dell’esilio di Alessandro Olivieri, Pietro Mirri, Benelli, Ruschi, Montallegri e Lolli. Intanto nel sud si continuava a combattere ed a morire per la costituzione, per le libertà civili: il frate Angelo Peluso, Cesare Rossaroll – corso a morire in difesa di Venezia dopo 15 anni di carcere – i fratelli Bandiera, Domenico Moro, Nicola Ricciotti, Domenico Lupatelli, Jacopo Rocca, Giovanni Venerucci, Francesco Berti, Anacarsi Nardi, tutti fucilati presso Cosenza.

E in Piemonte il Mazzini veniva condannato a morte, segnalato ad ogni nemico, ed a Fenestrelle vennero rinchiusi il Moja, Noli, Orsini, mentre, dopo lunga prigionia, vennero esiliati il Gioberti, Azario e Stefano Eugenio Sara.

Un’altra splendida pagina di sacrificio e gloria fu quella della Rivoluzione Lombarda, altra ancora quella scritta dai coraggiosi veneziani nello stesso 1848. Non ci si dimentichi mai perciò che oltre al martirologio dei santi, c’è uno egualmente lungo, quello del Risorgimento Italiano.

Autore articolo: Luigia Maria de Stefano

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Fonte foto: dalla rete