L’industria della lana nelle due Sicilie

L’industria della lana nel Regno delle due Sicilia

Riportiamo un ampio stralcio di un articolo pubblicato sulla rivista L’Alfiere, a firma di Ferdinando Corradini, dedicato alla storia di una fiorente industria meridionale, quella della lana. Purtroppo, come per tanti altri casi, l’industria della lana, non riuscì a “sopravvivere” all’Unità d’Italia. Ringraziamo Eduardo Vitale per l’autorizzazione alla pubblicazione.

Nella valle del Liri (sempre appartenuta al regno del Sud, nelle sue varie denominazioni, e, fino al 1927, alla provincia di Terra di Lavoro, Caserta) l’industria della lana ha origini remote. Sappiamo che il padre di Cicerone era un produttore di panni di lana in conseguenza di un “incidente” occorso al famoso oratore, il quale, raggiunte le più alte cariche della Repubblica romana, vantava discendenza da un antico re volsco. “Ma quale re volsco – gli spiattellò in faccia in pieno Foro un suo avversario politico – se tuo padre faceva il fullone!?”. Con quest’ultimo termine si indicavano i produttori di panni di lana. Ma che nella Arpino di Cicerone fosse fiorente tale industria, si rileva anche dal fatto che, in occasione di alcuni lavori di restauro, sotto il pavimento della chiesa dedicata alla Madonna Assunta, posta nel quartiere di Civita Falconara, è venuta alla luce un’iscrizione latina in cui si fa espresso riferimento a MERCURIO LANARIO, il quale, con ogni probabilità, era il “protettore” della corporazione dei produttori di panni di lana arpinati. Alla base di tale industria vi era un motivo pratico. Il territorio di Arpino è bagnato, nella sua parte bassa, dal fiume Fibreno, che è emissario del lago detto della Posta ed è un affluente di sinistra del Liri. Le sue acque presentano una caratteristica: hanno una temperatura piuttosto bassa. Conseguentemente non favoriscono la nascita e la crescita dei microrganismi animali e vegetali. Sono, quindi, particolarmente “pulite” e perciò adatte alla “follatura”, termine con cui si indica la procedura grazie alla quale i panni di lana diventano “sodi”, cioè compatti, mentre “fulloni” venivano detti coloro che la praticavano. Quando si incrociano i fili di lana, infatti, non si ha un tessuto chiuso, ma una trama che lascia passare l’aria. Per “compattare” tale orditura la si immergeva nell’acqua e, poi, la si pressava (“follava”) continuamente con dei colpi di maglio, anch’esso azionato dall’acqua. Ancora oggi a Carnello, che è una località posta sul Fibreno nel punto in cui questo fiume segna il confine fra Arpino e Sora, è possibile vedere i resti di una torre fullonica in cui aveva luogo questo tipo di lavorazione. Va aggiunto che il Fibreno si muove su un piano inclinato: ciò conferisce una certa pressione alle sue acque, ancor più accentuata nella zona di Carnello, dove sono delle piccole cascate. L’industria della lana arpinate conobbe un’accelerazione a partire dagli inizi del Settecento. Ciò probabilmente avvenne anche in conseguenza di un’iniziativa presa dal feudatario Antonio Boncompagni Ludovisi, duca di Sora e di Arce nonché Signore di Arpino e Aquino, il quale tra il 1710 e il 1711 concesse in prestito la complessiva somma di seimilaseicento ducati, al 6% annuo, a vari mercanti di lana di Arpino. Tale industria godè anche della protezione della dinastia borbonica allorché la stessa si insediò sul trono di Napoli. Probabilmente non è un caso che ad Arpino soggiornarono, anche per periodi piuttosto lunghi, il re Carlo nonché i due Ferdinando e probabilmente non è neanche un caso che gli stessi venissero ospitati nelle case di fabbricanti di panni di lana, all’ingresso di una delle quali ancora oggi fa bella mostra di sé una statua del re Carlo. Ciò ci è ricordato da varie iscrizioni presenti nella città, una delle quali, posta sulla facciata dell’edificio al civico 20 della via Capitano Federico Ciccodicola, fa espresso riferimento alla presenza del re Carlo nel 1744 presso un “nobile lanificio, regio per sua munificenza”. Anche per mettere in comunicazione gli opifici della valle del Liri con il porto di Napoli, sul finire del Settecento il re Ferdinando IV stabilì che fosse costruita la prima strada rotabile dell’odierno Lazio meridionale, che collegava la capitale del Regno, passando per San Germano (oggi Cassino) e Arce, con il triangolo industriale di Terra di Lavoro, costituito da Arpino, Sora e Isola. Tale strada si identifica con la via Casilina da Capua fino al cimitero di Arce; da qui fino a Sora, ad eccezione di una breve variante, con la Valle del Liri. La sua costruzione ebbe conseguenze non solo economico- commerciali ma anche politiche. Insieme con la sua realizzazione, infatti, nel 1796, il Re stabilì di abolire la Feudalità negli stati di Sora, Arpino, Arce e Aquino, tutti, come già visto, fino ad allora amministrati dal duca Boncompagni Ludovisi: si prevedeva, come in effetti poi accadde, che la strada avrebbe fatto crescere l’economia della valle del Liri; si volle, quindi, liberare tale crescita dai “lacci e lacciuoli” che il feudatario avrebbe potuto imporle. Nella città di Cicerone la lana veniva filata e, quindi, tessuta con telai azionati a mano. Ultimata tale operazione i panni venivano portati a Carnello per la follatura che veniva effettuata presso le gualchiere poste sul Fibreno e, quindi, riportati ad Arpino per la rifinitura. A partire dagl’inizi dell’Ottocento, furono utilizzati dei moderni telai azionati dalla corrente dell’acqua: ciò determinò lo spostamento a valle di numerosi precedenti opifici e la nascita di nuove fabbriche che vennero posizionate sia lungo il Fibreno che lungo il Liri. Anche quest’ultimo fiume, nel suo medio corso, si muove su un piano inclinato, in quanto nel tratto da Sora a Coprano supera un dislivello di circa centocinquanta metri, per superare i quali talvolta forma delle cascate, che, com’è agevole intendere, costituivano delle notevoli fonti di energia. Una di esse, posta nel centro di Isola del Liri, ancora oggi viene indicata come “del valcatoio”, in quanto con il termine “valchiera” o “gualchiera” veniva anche indicato il luogo in cui avveniva la “follatura” dei panni. Come ha evidenziato Aldo Di Biasio nel suo La Questione Meridionale in Terra di Lavoro, nel periodo precedente l’unificazione, nella valle del Liri-Fibreno vi erano ben quindici lanifici con le dimensioni di grande industria, tra i quali spiccavano quelli di Polsinelli, Zino, Ciccodicola e Manna. A tali quindici opifici se ne aggiungevano ancora tanti altri “senza acqua e senza motori”: di questi ultimi solo ad Arpino se ne contavano ben trentadue. In questa città gli operai impegnati nella produzione di panni di lana erano settemila. Nel quinquennio 1840-45, nel distretto di Sora si produssero panni di lana per complessive 320.000 canne (la canna era pari a m. 2 e cm. 11), alti dieci palmi (il palmo era pari a cm. 26,4): di questi 200.000 a Arpino, 30.000 a Sora, 40.000 a Isola e 50.000 a S. Elia (in quest’ultimo centro, posto nelle vicinanze di Cassino, si sfruttavano le acque del fiume Rapido). Nello stesso periodo la produzione di panni di lana dava complessivamente lavoro dagli 11.500 ai 12.000 operai. Il lanificio Zino forniva anche i panni “color rubbio” all’esercito borbonico. Un dato balza agli occhi dalla pianta della provincia di Terra di Lavoro eseguita dal Marzolla nel 1850: Arpino contava 12.699 abitanti, Caserta, che della detta provincia era il capoluogo, 10.845. Vi è da aggiungere che a Isola del Liri, nel lanificio dei fratelli arpinati Giuseppe e Angelo Polsinelli, il 28 maggio 1852 ebbe luogo un episodio di luddismo (NDR,”movimento operaio”) che, come ha evidenziato lo “scopritore”, Silvio de Majo, costituisce il primo fatto di tal genere documentato in Italia. L’industria della lana nella valle del Liri si avviò, purtroppo, ad un inarrestabile declino subito dopo l’unificazione nazionale. Cambiò drasticamente e, in particolare, in tempi rapidissimi senza alcun lavoro di preparazione, il sistema dei dazi doganali interni al nuovo Stato Unitario. Si riporta l’intervento alla Camera tenuto dal deputato Giuseppe Polsinelli di Arpino, in un memorabile discorso tenuto alla Camera il 25 maggio 1861, con il quale, “fra la generale incomprensione e ostilità “, espose la situazione in cui erano venute a trovarsi le industrie tessili napoletane: “Sa il signor presidente del Consiglio – urlò in faccia al Cavour – i dolori e le perdite che hanno subite gl’industriali delle province meridionali? Sa il signor presidente del Consiglio quante centinaia di migliaia di persone sono a languire dalla fame per quelle modificazioni?” Il Cavour, serafico, gli rispose che, a quel che lui sapeva, da quando era stata introdotta la nuova tariffa doganale, i traffici al porto di Genova erano aumentati. La stessa cosa, però, aggiungiamo noi, non era accaduta nei porti di Napoli e di Palermo. Una dopo l’altra chiusero tutte le fabbriche che producevano panni di lana nella valle del Liri. L’ultima, che dava lavoro a 190 operai, nel 1882. Finì così una tradizione industriale che, come abbiamo visto, affondava le sue radici nel periodo della Repubblica romana. Appena cinque anni dopo, nel 1887, per proteggere le industrie, che, nel frattempo, si erano concentrate al Nord, quelle della lana in primo luogo nella piemontese Biella, furono reintrodotti i dazi. Questa nuova tariffa doganale determinò la crisi della viticoltura e della olivicoltura, produzioni, queste, preponderanti nell’Italia meridionale. Come ha evidenziato Denis Mack Smith, cominciò allora la corrente migratoria dal sud Italia verso l’America, “che divenne ben presto una vera e propria inondazione” .

 

Posted by altaterradilavoro on Mar 24, 2017
L’industria della lana nel Regno delle due Sicilie

fonte
quicampania.it