Roma prima di Porta Pia

Roma prima di Porta Pia

Alfredo Oriani in un capitoletto di Memorie inutili descriveva così la vita a Roma poco prima di Porta Pia.

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Di quei giorni Roma presentava un bizzarro spettacolo. Per le strade, i caffè, le chiese, i musei non si incontravano che soldati di ogni tipo, favella e costume, convenuti a difendere, coll’allettativa di un pingue stipendio, il trono barcollante del pontefice-re. Vanitosi per ricche uniformi, insolenti per mancanza di freno, sguaiati come increduli mercenari, audaci per l’impossibilità di qual sivoglia ressitenza, guardavano sprezzantemente le persone attaccando briga col massimo gusto, sicuri della vittoria e dell’impunità. Nessuno che non fosse del loro partito ed assai conosciuto poteva vantarsi al coperto da ignominiose soperchierie, giacchè villani per indole, provocatori per sistema, temerari come sgherri tra popolazioni avvilite, tracotanti perchè armati fra gli inermi, stranieri fra gli oppressi ed incuorati alle minaccie da un governo tirannico per paura e crudele per istinto, quanto desiderosi d’ illudersi sul proprio eroismo, non si lasciavan sfuggire occasione di maltrattare i timidi borghesi non abbastanza entusiasti del levitico regime e dei cosmopoliti guerrieri, in gran parte sfuggiti ai tribunali delle loro patrie, che quel governo sostenevano colle baionette pagate dai devoti illusi di oltre alpe e di oltre mare. La loro prodezza, nelle finte battaglie, che offriva alle cattoliche deputazioni composte generalmente di vecchie beghine, avanzi di campagne amorose, di canuti fanciulli e d’imberbi chierici impalliditi alle ascetiche gioie de’ collegi frateschi, era meritamente proverbiale: e quegli eroi da presepio si atteggiavano a conquistatori, gridavano strage e ruina al mondo liberale inveendo specialmente contro l’esercito italiano; ed inanimandosi l’un l’altro osavano paragonarsi agli eroi leggendari di Buglione e di Lusignano. Del resto belli, eleganti, splendidi, ma senza dignità : donnaioli fortunati, scettici come i preti, benchè alquanto più spudorati, s’ affollavano nei pubblici ritrovi accolti dovunque con un rispetto paurosamente ipocrita : vociavano nei passeggi trascinando con olimpica indolenza la spada sui ciottoli ; nei teatri minacciavano, nè senza successo, con pose imperatorie, ballerine e signore ; nelle chiese, nei ritrovi, nelle osterie sfogavano il proprio coraggio, ricchi di danaro, di violenze, di menzogne. Fra quella folla senza nome, senza fede, senza principi, avida soltanto di ozi, di bagordi, di ribalderie, pettegola, prostituta, brutale, si trovavano alcuni grandi signori, massime di Polonia, d’ Irlanda, di Francia, i quali di aspetto aristocratico, maniere distinte ed educazione raffinata, erano mostrati adito dai fanatici come il fiore d’ Europa, i superstiti di magnanime generazioni, i pegni di una prossima rinnovazione sociale, i deputati delle nazioni cattoliche. Infatti non mi sono mai abbattuto in persone più esteriormente nobili; ma se per la corteccia, poco pel midollo dagli altri differivano, quando non vogliasi tener conto di vizi maggiormente educati e di una pravità spiritosamente gentile; e figli di case illustri nella devozione ai principi del diritto divino, osteggiavano ogni libertà che non era privilegio parodiando non so se con più eleganza od ingenuità le grandi figure di Catelinau, La Rochejacquelain e Cadoudal.

Questi i cani da guardia. Ed il gregge? Ed i pastori?

È sempre difficile dipingere con verità la fiso nomia fisica e morale del prete, ma le difficoltà aumentano quando cotesto sia della città eterna…

Povera città, come caduta! Musset aveva ragione:

Tu l’as zu ce fantóme alti

Qui jadis eut le monde entier

Sous son empire:

Csar dans sa pourbre cst tombe:

ADans un petit manteau d’abbe

Sa zeuze cupire.

Assai meno dotto del tedesco, entusiasta del francese e battagliero dello spagnolo, il clero romano, bizzarro miscuglio di varie genti, indifferente tra Cristo e Satana pur di conservare integro l’impero; più tenace degli usi che delle tradizioni; superbo del fasto delle sue feste e della sua posizione di primo nella cattolicità; intrigante, bizantino, facile nelle maniere e maggiormente nei costumi ; rilassato in tutto fuorchè nella politica; numeroso come i vermi sul cadavere, nè meno affamato di essi, offriva al filosofo, al moralista, all’uomo di spirito, molto da pensare, da condannare, da ridere. Stava, incredulo quanto gli enciplopedisti del secolo passato, attaccato alla religione come i corvi sulla carogna, cui la corrente trascina aspettando d’inghiottirla in un vortice, eppure superstizioso quanto il popolo da lui allevato; parlando di fede, di sacrificio e col sorriso di Arouet sulle labbra ; di carità mentre alle plebe cresciuta immonda ed inoperosa carpiva l’ultimo obolo per abbellire una inutile chiesa e più spesso per alimentare il proprio ozio; spudorato senza mistero ma anche senza franchezza; timido di rivolgimenti e però pronto ai sospetti, inesorabile nelle pene, oltracotante coi sudditi quanto servile coi forestieri, per lui tutto traffico, mestiere, esteriorità. Era fedele al Vaticano come il naufrago alla tavola e vi si stringevano attorno meno per difenderlo che per essere difesi, giacchè lo suppo nessero ingannevolmente assai più forte di quello che sia apparso nel Venti Settembre. Il prete romano, idolatra dal papa, giannizzero del papato ignorante perchè estraneo alla lotta che si dibatte nei paesi ove esiste la libertà di culti e tutti possono ingenuamente divertirsi discutendo la proba bilità e la malagevolezza dei sentieri tracciati dalle varie religioni verso i vari paradisi ; non aveva, parlo d’allora, giacchè dopo la rivoluzione non so se nel suo spirito e nella attitudine del partito sia occorso un cambiamento, nè la grandezza della fede, nè l’energia del comando, nè l’amabilità della corruzione, nè quella astuzia che i nemici gli hanno tante volte rinfacciata. Continuamente sull’avviso aiutato da un’orda di lanzichenecchi e da un popolo di spie a dominare un branco di schiavi senza memoria di passato, coscienza di presente, presentimento del futuro; a guisa di un fanciullo viziato e maligno s’inquietava, s’indispettiva di ogni voce e di ogni atto; tormentava gli altri dei propri tormenti; di tutti più oppresso fra gli oppressi. Non avendo compreso nè la rivolta di Arnaldo, nè il movimento di Lutero, nè la rivoluzione dell’Ottantanove, sempre più indispettito contro la civiltà che minaccia di assorbirlo e di trasformarlo, come tutte le istituzioni vecchie nella forma ed immortali nella natura, quali per esempio le malattie sociali comprese le religioni; egli si era seduto, simile all’ingenuo villano di cui parla il vecchio Orazio, sulle sponde del fiume del progresso attendendo che necessasse la corrente, e deluso in questa pazza aspettativa si lusingava e si lusingherà probabilmente ancora, di arrestarlo con ripari fanciulleschi, di disseccarlo con ridicoli esorcismi. Pungente e satirico quanto il popolo, affettava un disprezzo superbo per ciò che sapesse di regno italiano, pronto a fulminare con un testo biblico od evangelico, non importa se mal applicato, i dettami della filosofia civile, a confondere gli aforismi della storia colle promesse divine, forse da lui medesimo credute in parte a forza di ripeterle agli altri ; a mostrare con orgoglio il Vaticano, questo scoglio contro cui si erano spezzati gli scettri di Federico e di Napoleone, frante le onde della Rivoluzione; questo trono posto così in alto che le alate preghiere non le ignobili minaccie vi giungono, che dugento milioni di credenti fissano con affetto rispettoso da ogni punto della terra, che torreggia sulle moltitudini splendido della gloria dei secoli e dell’autorità divina, mentre i sogli dei potenti mondani si successero e si succedono instabili come i mucchi d’arena che il vento turbinando aduna e dissipa sull’arso lido del mare.

Ed il popolo?

Sarebbe davvero difficile il volerlo ritrarre con vivezza e vigoria tante – contraddizioni ed aspetti presenta: nè l’ho abbastanza studiato per questo. Anzitutto è diviso in razze diverse nella favella e nel tipo, come nel costume e nelle abitudini. Fra un trasteverino ed un montigiano, un popolano, cioè un abitatore dei sucidi quartieri che cingono il macello, ed un borghigiano, corre almeno tanta differenza che fra un calabrese ed un regnicolo, un marchigiano ed un romagnolo. Tribù divise per antiche tradizioni sono ancora rivali. Ringhiose e pronte a menar di coltello, unica arma permessa dal governo, ognuna vantava i propri campioni morti o morituri nelle risse solite a scoppiare nelle osterie alle feste dei santi e quindi frequentatissime, essendochè di spie e di santi non fosse in Roma penuria –l’onestà e la bellezza delle proprie donne, l’intrepidezza del bere e del ferire, l’agilità e l’agiatezza; e vivevano divise incontrandosi per stuzzicarsi e considerandosi straniere fra loro ed alla città. Nelle passeggiate per le parti più remote dal centro, oltre la novità del trovarmi fra genti così diverse, mi stupiva il sentire interrogarsi: «Ehm, bene! vai a Roma ? andiamo a Roma ?», e simili. Ma l’antagonismo più forte è fra gli abitanti del Trastevere e dei Monti, quartieri che s’estendono attorno a S. Maria Maggiore. Egualmente belli, eleganti e superbi di loro stessi, il trasteverino ed il montigiano si distinguono al dialetto, alla foggia di vestire, alla fisonomia. Questi spesso biondo, colla pupilla azzurra, alquanto più rozzo e montanaro, meno pronto allo scherzo, ma pure meno difficile al coltello, appartato e lungi dal contatto dell’altra popolazione, ha meglio conservato il proprio tipo; coi forestieri poco garbato non li calcola perchè non li sfrutta, non li osserva perchè li ha sempre veduti; geloso delle proprie donne fino al delitto contro chi osa corteggiarle senza permesso, ma proclive a venderle; ignorante, ozioso, contemplativo sul genere dei lazzaroni napoletani. Quegli gaio, romoroso, millantatore, largo d’informazioni e di beffe agli stranieri, grazioso, mezzano della persona, vivacissimo di spirito quanto privo d’istruzione ; devoto al papa come incarnazione superstiziosa di un potere divino e sua propria gloria, però incline a sbertarlo non appena si presenti l’occasione ; innamorato, satirico, poeta, vizioso più che corrotto, fiero del suo ostracismo e del suo costume che disgraziatamente si va perdendo; esperto al mandolino, bigotto senza fede, papalino senza entusiasmo, amante delle risse senza ferocia. Sì le donne dell’ una che dell’altra gente sono belle ; le montigiane dalla figura slanciata, il viso ovale, i capelli generalmente castani, la pelle abbrunata, le movenze rustiche, la parola acerba – tipi voluttuosi senza passione; le trasteverine floride anche troppo nel sembiante, forme rotonde, pupille nere, labbra rosse, le gote candidissime e soffuse d’incarnato, treccie nere, portamento provocante, volto statuario non molto simpatico, preste a rispondere con una insolenza ad un complimento arrischiato son soverchia temerità, eppure famigliari anche di primo tempo, niente affatto casalinghe, orgogliose più della fierezza che della onestà. Più volte entrando a vedervi i costumi nelle osterie, essendo che quella parte di popolo viva assolutamente fuori di casa, mi sono seduto al desco con esse e mi ha meravigliato il loro spirito frizzante, mordace, pettegolo senza monotonia, incoraggiante ad ogni sorta di proposito purchè fatto con garbo. Benchè meno belle delle donne di Albano e di Marino, indubbiamente il tipo più puro e leggiadro della donna italiana, le montigiane e le trasteverine possono contarsi fra le popolane più seducenti d’ Europa.

Come tutte le città storiche Roma contava una aristocrazia, una borghesia ed un popolo; una aristocrazia senza grandezza a malgrado d’un lusso e d’una opulenza imperatoria; una borghesia senza istruzione e quindi senza potere; un popolo senza industria. Da gran tempo la vita politica non vi esisteva più – il Vaticano l’aveva uccisa colla sua ombra fatale. Roma non era più che un vasto albergo ove formicolava tra gli stranieri una gente senza nome e senza patria, un sepolcro ricco di statue e di fregi divini per l’arte a somiglianza di tutti quelli che coprono le spoglie dei re.

In Roma era dunque una aristocrazia, una borghesia ed un popolo. Numerosa più che ovunque, ricca di grandi tradizioni quanto l’inglese e corrotta al pari della francese, ma senza l’energia di quella nè l’amabilità di questa, irrigidita da secolari abitudini, la nobiltà romana mi aveva sembianza di un cespuglio fiorito ai piedi di una quercia abbattuta dal fulmine. Altera con maggiore presunzione che maestà, ignorante fino all’impossibile, frivola con splendidezza ma senza quello spirito irrequieto e scettico che fa perdonare la frivolezza, e racchiusa in sè stessa come la tartaruga nel suo guscio, questa aristocrazia non conosceva nè il gusto delle lettere, nè quello delle arti, benchè de corasse i suoi appartamenti e le sue gallerie di spessi capolavori: viveva assolutamente di caccie, di pranzi, di ricevimenti, di feste. Ma esteriormente nessuna parola varrebbe a rendere la eleganza del suo lusso severo e squisito. Aspetto seducente – come la camelia bellezza senza anima. Vivendo di pri vilegio abborriva la libertà ; composta ad oligarchia quantunque priva di influenza politica, però abbastanza potente per usare soprusi cansando le fatiche ed i pericoli del potere, si mostrava tenera anzi che no del governo, malgrado qualche velleità di patriotismo in alcuni, provocate senza dubbio da nascosi dispetti – abbagliata del suo passato disprezzava le altre classi ; profondamente viziosa sotto apparenze sempre dignitosissime e spesso severe: bigotta per istinto ed anche per ostentazione affine di combattere la democrazia e la libertà confuse colla irreligione: antiquata nelle idee quanto moderna negli abiti, come corpo sociale non meritava verun conto, come riunione epicurea quale si conviene al nostro secolo offriva al giovane, che vi fosse ricevuto, mille seduzioni di mille piaceri. Oh le sue donne… Non credo si trovino al mondo altri saloni ove il sesso femminile brilli di maggiore incanto, nè si diano donne più donne, se questo nome riassume tutto che è gentilezza, grazia, voluttà, prestigio delle signore romane.

La borghesia presuntuosa di sè quanto nemica della aristocrazia s’ affaticava tutto dì, massime le donne, ad imitarla: ricca, aveva più lusso che eleganza; mancava di tradizioni politiche, d’ industria e di commercio. La parte più danarosa di essa viveva in ozio o speculava sulle affittanze, l’altra co priva una folla di impieghi inutili e secondari senza attività diretta dal pensiero, senza mèta ideale, senza orizzonte. In ciò scusabile per la lunga servitù, non comprendeva altra forma di governo della ieratica, altra beatitudine che l’inerzia, altra stima che pel danaro e pei titoli – non fede, non convinzione non avvenire. Della religione non penetrava oltre il rito, incredula senza studio, scettica senza passione; superstiziosa quanto il popolo, derideva i preti e li associava ad ogni atto, popolava le chiese come i teatri, non capiva nulla nè di scienza, nè di politica, nè di letteratura: tremava degli sbirri, riveriva i gesuiti, non sognava rivolgimenti neppure schiacciandosi, e questa era la sua maggiore tortura, sotto il piede della aristocrazia. Così mi è apparsa allora, e chi sa se in questo momento, non stiasi in essa compiendo una rivoluzione morale dopo la politica avvenuta nel governo. Nel mondo galante recava una ridicola affettazione delle maniere nobili. Bisognava vedere alle feste o nei ri cevimenti, e qualche volta mi ci sono trovato, con che ostentazione si spesseggiava e con quale edificante sussiego d’ inchini ; che corte esigevano le signore, delle quali la modista faceva spesso tutto il merito e la grazia : bisognava udire con quanto livore si scagliavano frizzi, s’ insinuavano calunnie contro le più note dominatrici delle sale principesche, con quanta e male celata invidia i giovanotti parlavano dei balli patrizi e come i pochi ammessivi ne raccontavano gli episodi e ne commentavano gli splendori. Bisognava vedere quanta grettezza si congiungeva a quel lusso più insolente che elegante, quale trivialità pretensiosa di propositi e di pettegolezzi, quale spiarsi continuo, quale sparlare di tutto e di tutti, quale meschinità ed esagerazione congiunte in ogni cosa, in ogni atto!

Il popolo nel senso politico della parola veramente non esisteva, bensì una plebe chiassosa senza turbolenza, indolente, bastarda, ingorda di ozio e di divertimenti come quindici secoli fa alla caduta dell’impero: povera e spensierata, abbietta e contenta, educata a godersi l’oggi dimenticando colla stessa facilità le miserie di ieri ed i terrori di domani: cresciuta nella ignavia e nutrita dalle elemosine del governo e dalla prodigalità dei forastieri. Lavorava pochissimo e quasi solo nell’ inverno, pretendendo abbastanza salario per gavazzare i giorni di lavoro e di festa; e volta ad ogni vizio quanto la feccia parigina e londinese, più ignorante però, scherzava e mercanteggiava di tutto. Millantandosi continuamente (forse per le confuse tradizioni del gran popolo re che eleggeva i suoi papi e citava i suoi imperatori alla sbarra), era piuttosto vile, meno quelle tribù dei Monti e del Trastevere, superstiziosa e miscredente, generalmente disoccupata sognando bagordi invece di rivolte, vivendo alle osterie in quartieri tortuosi, bui e fetenti. Cosa meravigliosa in Roma lo spettacolo allontanandosi dalle vie principali! Si scopriva una nuova città: stradicciuole serpeggianti di case lerce, alte e strette, di cui molte colle scaie fuori dell’uscio, tutte colle biancherie appese fuori delle finestre a rasciugarsi, e formicolanti di donne e di bambini, che lì non dovevano mai vedere un raggio di sole, nè respirare una boccata d’ aria buona. Notevoli sugli altri i rioni, o parte di essi, che si stendono per largo tratto da piazza Navona al fiume, da piazza Montanara a Porta San Paolo, le vicinanze del macello e mezzo Trastevere.

Così senza vita politica ed educazione morale il popolo per indole e per clima si buttava ad ogni vizio. Vanno famose per sciupio di danari e di onestà le così dette ottobrate, le feste di Natale, di Pasqua, Corpus Domini, nelle vigilie delle quali si vedeva la gente assediare attorno il ghetto, il monte di pietà per impegnarvi le ultime robe e trarre quattrini da banchettare, ballare, ubriacarsi, andare a zonzo nelle più superbe carrozze da noleggio per un giorno, non importa poi se ritornando a casa si trovavano sgombre le camere, i mobili emigrati nei magazzeni de’ rivenduglioli, e la fame e lo squallore soli ospiti immondi. Allora le mogli ricorrono alla nota beneficenza del curato, alla generosità assai più difficile dei vicini o alla protezione di qualche ricco signore, che riconosce le derelitte abbastanza belle per essere soccorse. Ed i mariti? Vanno filosoficamente all’ osteria lasciando le donne nelle peste, e quando ne ritornano sono troppo contenti di poter rimpinzare lo stomaco ed il borsellino per inquietarsi del come. Ed il governo favoriva questa abbiettezza per politica, non avendo nulla a temere da gente simile. Del resto. il popolaccio di Roma non ostante questi difetti è se non molto simpatico, almeno molto piacevole. Gaio, intelligente, piuttosto bello, vivacissimo di spirito, coltiva la satira con trasporto e successo. Le sue osservazioni sono fini, pungenti, originali, prontissime le risposte, mordacissimo il frizzo, sanguinoso il sarcasmo. La ironia, in lui meglio abituale che facile, è il profumo del suo linguaggio, l’aspetto seducente del suo carattere. Ma dove il suo motteggiare riesce inarrivabile ed impossibile a fronteggiarsi da alcuno, si chiami pure Rabelais, Sterne o Giusti, egli è trattandosi di argomenti osceni e se vogliasene parlare senza che le donne abbiano diritto di imporre silenzio o di arrossire….

Fonte foto: dalla rete
– HistoriaRegni