Intervista alla Regista del docufilm “Boez”

Il mio cammino con i ragazzi del carcere minorile
La regista ha promosso la prima esperienza italiana di “cammino giudiziario” e con sei giovani detenuti ha percorso la Via Francigena. Ne è nato il docufilm Boez
di Francesca D’Angelo

L’ idea è stata sua. Ed è arrivata con quell’ impetuosa spontaneità che sembra caratterizzare tutte le decisioni di Roberta Cortella: 41 anni, una donna minuta, che sorride alla vita e non si sottrae alle sue provocazioni. La si potrebbe definire una guerriera in incognito: schiva, in apparenza fragile, preferisce stare dietro alle telecamere che non davanti. Ha una fede salda e profonda ma non la sbandiera: il suo credo si traduce in scelte, ovvie ai suoi occhi ma eccezionali per il resto del mondo.

Una di queste tante scelte “ovvie” è la docuserie Boez – andiamo via, che è andata in onda dal 2 al 13 settembre su Rai 3 (Boez è la firma di un writer «nel nome del quale raccontiamo una storia di speranza e rinascita», spiega Cortella). Il progetto ha preso forma nel 2004 quando la regista e autrice partì, da sola, per il Cammino di Santiago. «Che poi sola non lo sei mai, sul Cammino», si affretta a precisare. Lo dice come se fosse quasi scontato partire da soli, a riprova di come la sua fede la apra al mondo senza paura.

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Roberta Cartella

Proprio durante il pellegrinaggio di Santiago, Cortella sentì per la prima volta parlare del “cammino giudiziario”: una pena alternativa al carcere, praticata in Belgio e che ha finito per prendere piede in Europa. Il meccanismo è semplice: proporre un lungo pellegrinaggio a piedi a un gruppo di carcerati, usando il cammino come strumento di formazione e riabilitazione. Su questa esperienza, prima inedita in Italia, Cortella ha realizzato un documentario, dal titolo La retta via. La pellicola è stata notata dall’ autrice Rai Paola Pannicelli che ha proposto a Cortella di realizzare una versione italiana del “cammino giudiziario”, a favore di telecamera. Così è nato Boez: dieci puntate che ricostruiscono il viaggio a piedi di sei detenuti nel carcere minorile. Il gruppo viene condotto dalla guida escursionistica Marco Saverio Loperfido e dall’ educatrice Ilaria D’ Appolonio lungo la via Francigena: 50 tappe, da Roma fino alla punta della Puglia, per circa 900 chilometri. La serie, prodotto da Rai Fiction e Stemal Entertainment, è in collaborazione con il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia.

Inutile dire che il tema è coraggioso e complesso: vulgata vuole che chi ha sbagliato debba restare rinchiuso in carcere, senza più vedere la luce del sole. Boez racconta invece di persone che decidono di camminare al fianco di questi ragazzi che, probabilmente per la prima volta, accarezzano l’ idea di poter cambiare e diventare delle persone migliori.

Perché ha voluto dare vita a una serie così complessa, e potenzialmente esposta a critiche, come Boez?

«Credo che la mia scelta abbia a che fare con la speranza».

In che senso?

«Per me la speranza vuol dire apertura e flessibilità: iniziare a pensare diversamente, in termini di arricchimento e non per stereotipi. Prendiamo per esempio la nostra politica: spesso mi chiedo perché non si dia speranza aprendosi per esempio all’ accoglienza. Questa, a sua volta, potrebbe essere foriera di altra speranza. Non dico che sia facile. Io stessa sono partita per il cammino prevenuta, ma spero che lo spettatore possa compiere il mio stesso viaggio: non identificare più i ragazzi con il loro reato e superare il cliché del delinquente. Forse solo così potremo iniziare a cambiare le cose».

In che senso?

«Siamo cresciuti con l’ idea che dietro al delinquente ci sia la volontà di delinquere. Il che, talvolta, è vero. Il più delle volte però alle spalle ci sono storie familiari devastanti e il reato è solo l’ evoluzione inevitabile di tali premesse. La differenza tra me e loro è che io sono stata più fortunata. In Boez emerge per esempio con forza l’ assenza della figura paterna: tutti i protagonisti hanno un padre che li picchiava, o li vendeva, o era a capo di una realtà criminale…».

Non deve essere stato facile stare davanti a tutta la loro sofferenza. Si è mai sentita impotente?

«All’ inizio pensi, o speri, che questo cammino li possa salvare. A parte il fatto che non bastano 15 giorni per redimersi da un passato così complicato e doloroso, mi sono accorta che dire “ti salvo” è un errore di prospettiva perché mette se stessi in primo piano. Se invece dico “ti aiuto” metto l’ altro in primo piano, non me stesso. Ecco, è con questo secondo sguardo che ho cercato di affrontare il cammino».

Quanto la sua fede ha fatto la differenza nel rapporto con i ragazzi?

«Sinceramente, in questo caso mi piace parlare di fiducia più che di fede. Io, così come tutto il resto della squadra, ho avuto fiducia in questi ragazzi e ciò ha permesso loro di vedersi, di volersi bene e avere a loro volta fiducia in se stessi. Ci sono però stati dei momenti di forte carità cristiana, ma non per merito mio: sono arrivati dalle persone che ci hanno ospitato, per la maggior parte suore, preti, frati…».

In cosa sono stati caritatevoli?

«Ci hanno accolto, che non è poco, e con un’ attenzione e un rispetto particolari, tanto che i ragazzi hanno subìto il loro fascino. Per esempio la storia di padre Jacques Mourad, che è stato rapito dall’ Isis, ha fatto indignare il gruppo: sentivano la sua detenzione come ingiusta perché, a differenza di loro, lui non aveva commesso alcun reato. Don Francesco ci ha ospitato a San Magno (Fondi): era un ex dj e ha raccontato la sua conversione. A Venosa, padre Cesare ha invece discusso con i ragazzi di scienza e fede a telecamere spente».

Anche lei ha dato un aiuto sostanziale visto che ha deciso di prendere in affido uno dei ragazzi: Matteo. Perché l’ ha fatto?

«Tutti i ragazzi avevano un posto dove tornare dopo il cammino, tranne Matteo: all’ ultimo il suo progetto di accoglienza è saltato. Lui, tra l’ altro, arrivava direttamente dal carcere, quindi non aveva un luogo dove andare: sua mamma è morta da poco e i suoi fratelli sono sparsi in giro, in situazioni poco stabili. Io e il mio compagno (Marco Leopardi, co-regista della serie, ndr) ci siamo guardati. Non potevamo abbandonarlo al suo destino: sarebbe stato a rischio. Così abbiamo detto agli assistenti sociali che potevamo prenderlo per due mesi in affidamento. La cosa è andata bene e ora lui è ancora con noi, da svariati mesi».

Cos’ è per lei la fede?
«Sono nata in Friuli e sono cresciuta in un ambiente cattolico. Il mio parroco era un uomo molto attivo e presente nella comunità: non si limitava a dire le omelie ma andava nelle case delle persone, per aiutarle. Ricordo ancora quanto si adoperò per il terremoto del Friuli! Ecco, questa è la mia visione di Chiesa: un prete che bussa alla tua porta e ti aiuta».
Da   https://m.famigliacristiana.it/articolo/roberta-cortella-il-mio-cammino-con-i-ragazzi-del-carcere-minorile.htm