Elogio del pudore e del rossore in viso

C’è un punto d’incontro tra l’anima e il corpo che tende a nascondersi per ritrosia.

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Elogio del pudore e del rossore in viso

C’è un punto d’incontro tra l’anima e il corpo che tende a nascondersi per ritrosia. E’ uno stato d’animo, un’indole, acuita dall’educazione, che si trasmette dall’anima al corpo e viceversa. Il primo flusso cosparge di rossore e imbarazzo il suo volto, il secondo nasconde la sua presenza dietro il velame della prima. Ti sto dicendo della timidezza, di cui patisci doppiamente nell’era sfacciata dell’esibizionismo. La timidezza è il disagio emotivo di essere al mondo e di mostrarsi, il timore reverenziale per lo sguardo altrui, il sommesso desiderio di inabissarsi, di non figurare. La timidezza era considerata prerogativa dei deboli, e infatti riguardava donne e bambini, ovvero le creature da mettere in salvo quando c’era pericolo. Ma affiorava pure nella educata, signorile ritrosia di persone adulte, mature, in età avanzata. Te ne parlo al passato perché il canone di vita più esaltato nei media e nella media è invece la sfrontatezza, rivenduta per solarità, l’estroversione a prescindere da quel che si esterna, l’arroganza intesa come autostima e intraprendenza sicura di sé, il mettersi in mostra e in confidenza anche quando si sconfina nell’invadenza. La timidezza è considerata un handicap, si addice ai perdenti, è confusa con la pavidità e la goffaggine dell’impacciato, che non sa stare al mondo. Il timido arrossisce, così aggravando la sua posizione, perché lui che vuol passare inosservato al contrario si accende in viso e il rossore lo evidenzia anziché renderlo trasparente oppure opaco, cioè inavvertito o impenetrabile, come lui vorrebbe. Il timido rinuncia pur di non chiedere, preferisce la scomodità pur di non sfiorare la sfera altrui, abdica ai suoi diritti per timore di violare appena quelli altrui. Il timido non riesce a telefonare, la considera un’intrusione nella vita altrui, al più ripiega sugli sms. Non si espone su facebook e su twitter e non offre né chiede amicizie, non si racconta in pubblico, preferisce l’orso al pavone. Non invita a casa, non solo per salvaguardare la sua riservatezza ma per non violare quella altrui perché gli pare lievemente osceno condividere l’intimità, entrare in confidenza. Il timido non è per forza insicuro, più spesso teme di essere frainteso, non riconosciuto. Vive appartato e negli inevitabili convivi quasi mai tiene la conversazione, ma ascolta, si arma di pazienza e di attenzione, e quando il discorso non lo merita finge attenzione per non dispiacere l’interlocutore e per farlo sentire migliore di quel che sta dicendo. Al più interviene in margine, a postilla, o su richiesta. Il timido non veste in modo vistoso e ricercato per non attirare le attenzioni, ma preferisce quella nobile sciatteria che agevola la sua clandestinità. Se ha tratti somatici marcati tenta di smarcarli, attenuarli o celarli, per non destare curiosità. Il timido non sceglie mai la prima fila e nemmeno l’ultima che lo evidenzia a rovescio. In auto s’infastidisce se qualcuno lo tallona, preferisce farlo passare avanti piuttosto che averlo dietro, quasi avvertisse il respiro alle sue spalle e non volesse imporre agli altri la sua andatura. A scuola e nella vita a volte sa la cosa che agli altri sfugge ma la dice a sé stesso nella mente perché non vuole mostrarsi. Nella vita cammina radendo il muro e magari abbassa lo sguardo quando incrocia quello altrui. Il timido di solito è un ipersensibile con una intensa vita interiore che sceglie la solitudine non per disprezzo altrui ma per eccessivo rispetto reverenziale degli altri, non è cerimonioso e appare quasi scostante. In realtà cerca di non gravare sul prossimo per salvare il giudizio di sè; non discrimina ma si defila. Per questo vive male nelle case altrui o nei luoghi pubblici l’attenzione degli animali domestici per la sua presenza, che annusano l’ospite, magari in parti sconvenienti, creando un rigurgito di pudore nel timido. Donne preziose, schive e signorili, risarcirono il mondo della loro assenza con la loro squisita scrittura. Le parole dette a voce le imponi all’ascolto, le parole scritte richiedono invece una volontaria attenzione.

Vero è che dietro la timidezza a volte si nasconde l’orgoglio, la presunzione e perfino un’aggressività trattenuta, che a lungo covata poi esplode o si riversa su vittime sacrificali, magari famigliari. Il timido coltiva, come scrisse un timido autore che per timidezza nulla pubblicò in vita sua e poi lasciò quarantamila pagine di appunti, il piacere solitario di non dover essere grato a nessuno. Il timido è un animo gentile che dà tanta importanza agli altri, non si ritiene degno di esistere e si vergogna di se stesso. Ma non è tanto di sé stesso che il timido si vergogna ma di dover portare a spasso l’io, di dover esibire la sua singolarità, far sentire la sua voce. Meglio l’anonimato. Più spesso però la timidezza è una specie di imene, un velo e una custodia per mantenere la verginità dell’essere, non offrirla al primo che passa, ma serbare l’anima in un tabernacolo come si addice alle cose più sacre o meno futili. E’ un modo per sorvegliare la propria frontiera, vigilare sui propri confini. Trattenere il corpo per tutelare l’anima. Perché, avverte con ritrosia l’autore suddetto, chi non sa disegnare i suoi limiti, deve accontentarsi dell’infinito.

(Da Anima e corpo, Mondadori, 2014)