I mullah si avviano al fallimento

Grazie a Trump, i mullah si avviano al fallimento

di Majid Rafizadeh 28 novembre 2019

Pezzo in lingua originale inglese: Thanks to Trump, the Mullahs Are Going Bankrupt
Traduzioni di Angelita La Spada

Uno dei motivi alla base del quadro a tinte fosche dell’economia iraniana delineato dal Fondo Monetario Internazionale è collegato alla decisione dell’amministrazione Trump di non rinnovare le esenzioni concesse agli otto maggiori acquirenti del greggio iraniano: Cina, India, Grecia, Italia, Taiwan, Giappone, Turchia e Corea del Sud.

Anche la valuta nazionale dell’Iran, il rial, continua a perdere valore: è scesa ai minimi storici. Un dollaro statunitense, che nel novembre 2017 equivaleva a circa 35 mila rial, ora è quotato a circa 110 mila rial.
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Il 12 novembre, il presidente iraniano Hassan Rohani ha riconosciuto per la prima volta che “l’Iran sta vivendo uno degli anni più difficili dalla rivoluzione islamica del 1979” e che “la situazione del Paese non è normale”. (Fonte dell’immagine: Tasnim News/CC by 4.0)

I critici della politica di Trump nei confronti dell’Iran sono stati smentiti: le sanzioni americane stanno imponendo un notevole carico di pressioni sui mullah iraniani e sulla capacità di finanziare i loro gruppi terroristici.

Prima che il Dipartimento del Tesoro statunitense livellasse le sanzioni secondarie nel settore del petrolio e del gas naturale, Teheran esportava oltre due milioni di barili di greggio al giorno. attualmente, l’esportazione di petrolio iraniano è scesa a meno di 200 mila barili al giorno, il che rappresenta un calo di quasi il 90 per cento delle esportazioni.

L’Iran detiene le seconde riserve mondiali di gas naturale e le quarte di petrolio, e la vendita di tali risorse rappresenta più dell’80 per cento dei proventi delle sue esportazioni. Pertanto, storicamente, la Repubblica islamica dipende fortemente dalle entrate petrolifere per finanziare il suo avventurismo militare nella regione e sponsorizzare le milizie e i gruppi terroristici. Il bilancio presentato nel 2019 è stato di circa 41 miliardi di dollari, mentre il regime si aspettava di realizzare 21 miliardi di dollari dalle rendite petrolifere. Ciò significa che circa la metà delle entrate pubbliche dell’Iran proviene dall’esportazione di oro nero verso altre nazioni.

Anche se la Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, si vanta dell’economia autosufficiente del Paese, molti leader iraniani di recente hanno ammesso la terribile situazione economica che il governo si trova a dover affrontare. Parlando nella città di Kerman, il 12 novembre scorso, il presidente iraniano Hassan Rohani ha riconosciuto per la prima volta che “l’Iran sta vivendo uno degli anni più difficili dalla rivoluzione islamica del 1979” e che “la situazione del Paese non è normale”.

Rohani ha inoltre recriminato:

“Anche se abbiamo altri redditi, le uniche entrate che possono fare andare avanti il Paese sono i soldi del petrolio. Non abbiamo mai avuto così tanti problemi nel vendere petrolio e nel consentire la navigazione alla nostra flotta di petroliere. (…) Come possiamo gestire gli affari del Paese, quando abbiamo problemi nel vendere il nostro greggio?”

Grazie alla politica statunitense di “massima pressione”, anche l’economia complessiva della Repubblica islamica ha subìto un duro colpo. Recentemente, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha di nuovo modificato le sue previsioni per l’economia iraniana, rilevando che quest’ultima dovrebbe contrarsi del 9,5 per cento, anziché del 6 per cento, entro la fine del 2019.

Uno dei motivi alla base del quadro a tinte fosche dell’economia iraniana delineato dal Fondo Monetario Internazionale è collegato alla decisione dell’amministrazione Trump di non rinnovare le esenzioni concesse agli otto maggiori acquirenti del greggio iraniano: Cina, India, Grecia, Italia, Taiwan, Giappone, Turchia e Corea del Sud. Invece di mostrare una crescita nel 2019, l’economia iraniana entro la fine di quest’anno sarebbe del 90 per cento inferiore come volume complessivo rispetto al dato dei due anni precedenti, come si legge in un recente rapporto della Banca mondiale.

Anche la valuta nazionale dell’Iran, il rial, continua a perdere valore: è scesa ai minimi storici. Un dollaro statunitense, che nel novembre 2017 equivaleva a circa 35 mila rial, ora è quotato a circa 110 mila rial.

Inoltre, la Repubblica islamica sembra cercare di compensare la perdita di entrate. Alcuni giorni fa, ad esempio, i leader iraniani hanno triplicato il prezzo del carburante. Sembra essere un segno di disperazione finalizzato a generare introiti per finanziare il suo avventurismo militare nella regione e sostenere i loro emissari e i gruppi terroristici.

Questo aumento ha indotto immediatamente la gente a ribellarsi al governo. Negli ultimi giorni, diverse città iraniane sono diventate teatro di proteste e manifestazioni. Le proteste sono inizialmente scoppiate ad Ahvaz per poi diffondersi in molte altre città della provincia del Khuzestan, nella capitale Teheran, a Kermanshah, Isfahan, Tabriz, Karadj, Shiraz, Yazd, Boushehr, Sari, Khorramshahr, Andimeshk, Dezful, Behbahan e a Mahshahr.

La diminuzione delle risorse di Teheran ha inoltre indotto i leader iraniani a tagliare i fondi al gruppo terroristico palestinese Hamas e al gruppo militante libanese Hezbollah. Hamas è stato costretto a introdurre dei “piani di austerità”, mentre Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, emissario di Teheran, ha inoltre invitato l’ala del suo gruppo che si occupa della raccolta fondi a “offrire l’opportunità di jihad con il denaro e a contribuire a questa battaglia in corso”.

Con probabile sgomento dei critici di Washington, la politica del presidente Trump nei confronti dell’Iran si sta muovendo nella direzione giusta. Aumentando le sanzioni economiche, i mullah al potere e i loro emissari si avviano al fallimento. Altri Paesi ora devono unirsi agli Stati Uniti perseguendo altresì una politica di “massima pressione” – anche se preferirebbero continuare a fare affari con l’Iran e minare l’amministrazione del presidente Trump – “due piccioni con una fava”, per loro. Se l’Iran riuscisse a sviluppare la capacità di produrre armi nucleari, questa finirà per essere utilizzata proprio per ricattarli e intimidirli.

 

Majid Rafizadeh, accademico di Harvard, politologo e uomo d’affari, è anche membro del consiglio consultivo della Harvard International Review, una pubblicazione ufficiale della Harvard University, e presidente del Consiglio internazionale americano sul Medio Oriente. È autore di molti libri sull’Islam e sulla politica estera statunitense.