Il genio è un bambino cosmico

𝐈𝐥 𝐠𝐞𝐧𝐢𝐨 𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐛𝐚𝐦𝐛𝐢𝐧𝐨 𝐜𝐨𝐬𝐦𝐢𝐜𝐨
Ingmar Bergman fu un vecchio bambino, geniale e infantile. Come Salvador Dalì, Magritte o De Chirico. La pittura metafisica è il sogno di un bambino.
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Il genio è un bambino cosmico
di Marcello Veneziani
Pubblicato il 09 Marzo 2023

Ingmar Bergman fu un vecchio bambino, geniale e infantile. Come Salvador Dalì, Magritte o De Chirico. La pittura metafisica è il sogno di un bambino. Così fu Federico Fellini, che vide il mondo con gli occhi sognanti e stupiti di un bambino e la stessa cosa accadde al cinema onirico di Bunuel e rischia di esserlo Almodovar, bambino di genio fu Carmelo Bene. Così fu Borges, vecchio, cieco e bambino: c’era qualcosa di giocoso e fanciullesco nella sua poesia, come un bambino che costruisce e poi disfa i mondi come castelli di sabbia. E Ceronetti che gioca coi pupi. Bergman fa parte di quella schiera di bambini eterni e creativi. I suoi novant’anni sfiorati lo restituivano all’infanzia, ma tutta la sua opera si spiega con il filo dorato della puerilità. Solo un bambino può pensare di rendere cinematografico l’invisibile, l’anima e gli stati d’animo, il silenzio e il sogno, la fede e la malattia, la morte, la luce e il buio. Bergman scoprì il bambino che covava dentro di sè quando raccontò il mondo con gli occhi dell’infanzia in Fanny e Alexander. Lo stesso Fellini considerava Bergman un bambino, geloso dei suoi giocattoli, i film. Un bambino accusava l’altro di tenere ai suoi giocattoli. Entrambi rimasti bambini, entrambi da veri bambini amanti di Charlot, entrambi portati a descrivere il mondo con stupore infantile, ma l’uno in versione desolata e ibseniana, kierkegaardiana, come si conviene ad un uomo del nord; l’altro in versione più festosa e giocosa, come si conviene ad un romagnolo mediterraneo e poi romanesco. Tutta la grande poesia nasce dal bambino che si stupisce di vivere, di essere e di svanire. Anzi tutta la grande arte è la ripresa giocosa del mondo, il tentativo di far coincidere creazione e ricreazione. Un bambino morto riposa dentro di noi, diceva Curzio Malaparte che amava bamboleggiare anche da grande; ma a volte si sveglia e sussurra, anzi in un vero artista non muore mai ma gioca a fare il morto, per poi risvegliarsi appena vanno via le apparenze idiote della vita adulta e rimettere in piedi il suo universo magico, sognante, infantile. La grande arte è un giardino d’infanzia, che somiglia al giardino supremo, il paradiso. Fitto di pomi proibiti, angeli e serpenti, salvezze e dannazioni.
Sull’artista bambino vanno però dette due cose amare. La prima è che il vero creativo delude quando procrea, non sa essere padre o sforna figli sbagliati, che vivono male il rapporto col padre, sia quando lo imitano sia quando vogliono fare il contrario di lui. In entrambi i casi dipendendo da lui. Conoscemmo il figlio di Salvador Dalì, dolce persona che divenne amico per ragioni fatali, perché siamo nati nello stesso giorno. Van Roy, pittore come suo padre anche se sa fa formidabili pizze nel forno della sua villa di Velletri, ha vissuto l’incubo di essere “la reincarnazione anticipata di mio padre”. Ne ha imitato e stravolto lo stile, perfino i baffi all’insù, che per Dalì erano “antenne attraverso cui captare idee”, ha rifatto gli orologi squagliati e i gelati rigidi. Il suo periodo surrealista coincide con l’epoca in cui era spermatozoo. Il suo catalogo reggeva su tre righe dettate da suo padre: “van Roy vuole imitare soltanto Dalì e verrà fuori van Roy per quanto egli sia già Dalì”. Ma ogni ripetizione rischia di essere kitsch, ogni riproduzione del genio è un falso d’autore. Forse un genio non può avere figli, è condannato alla virtuosa vasectomia, il suo sperma serve per dipingere, per scrivere, per generare corpi celesti e non umani. I suoi figli sono le sue opere. E’ questa la prima amara verità sul genio bambino.
La seconda verità amarissima riguarda invece la restante umanità. Da anni ormai, soprattutto dal 68 in poi, vogliamo restare bambini, creativi, giocosi. Vogliamo vivere la realtà come sogno e capriccio, simulazione e piacere, vogliamo scaricarci di ogni limite e responsabilità, riteniamo che la vita vera coincida con la vacanza, l’eros, la fiction, il walkman, il lifting, insomma tutto ciò che allontana dalla realtà. Non vogliamo far figli perché i bambini siamo noi, non vogliamo concorrenti e intrusi. E invece sono i geni che non devono figliare, gli altri invece devono procreare: le loro opere sono le loro creature. Solo pochi geni possono permettersi il lusso di essere bambini a vita, perché sono creativi e non solo capricciosi; deliziano il mondo e non solo se stessi, colgono il cuore del mondo e non godono solo la vita. Bisogna esser grandi per restare davvero bambini e avere il diritto di esserlo a vita, anche da vecchi, anzi vorrei dire soprattutto da vecchi. La leggerezza fa bene a tanti, ma l’infanzia permanente è un privilegio che costa. Per tutti gli altri saggio è riservare nella vita adulta una zona per l’infanzia, uno spazio discreto e minore.
Max Weber ironizzava con gli idealisti e i romantici, dicendo che chi vuole avere Visioni del mondo (Weltanschauung, suona ancora più potente), vada al cinema. Bergman la visione del mondo l’offriva davvero tramite i suoi film. Ha mostrato il miracolo che anche il cinema può raccontare l’anima e la metafisica, e non solo far ridere, eccitare o denunciare. Ma questi miracoli può farli solo un Genio Bambino. La sua partita di scacchi con la morte, come nel Settimo Sigillo, è finita. La morte vinse sulla vita, ma l’infanzia ha vinto sulla morte. Dei geni il fato lascia sopravvivere solo la loro infanzia perpetua, sbucciata dal peso degli anni e dal corpo di una vita perduta. In quell’infanzia è racchiuso leggero e danzante Amor fati.

(Da Amor Fati, Mondadori, 2010)