Narratori del Nuovo Millennio – Guglielmo Pispisa

Terza puntata sui “Narratori del nuovo millennio” per La poesia e lo spirito, stavolta la parola va al grande Guglielmo Pispisa che racconta la scrittura attraverso un godibilissimo ricordo autobiografico.

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Narratori del Nuovo Millennio – Guglielmo Pispisa

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Il terzo appuntamento con i narratori del nuovo millennio è dedicato a Guglielmo Pispisa, che ha scelto per questa rubrica su La Poesia e lo Spirito un testo estratto da un inedito, dove racconta in punta di penna il primo incontro a Roma con Einaudi Stile Libero.

Per mettere le cose in chiaro
gugli-2-624x936La verità è che a voi non ve ne frega un cazzo. Scrivo, non scrivo, è uguale, tanto non ve ne frega un cazzo. Non lo comprerete. Mai lo leggerete, pure se ve lo regalassero. E se siete giornalisti o operatori culturali di vario genere, non lo recensirete e non ne parlerete. Figurati, un altro scrittore che ci prova, fare romanzo di sé, discorso della propria frustrazione, attirare l’attenzione facendo leva sulla propria irrilevanza. La lista è lunga, Antonio Moresco con Lettere a nessuno, Giorgio Falco con Ipotesi di una sconfitta sono solo il primo e l’ultimo che mi vengono in mente. E niente, manco di loro ve n’è mai fregato un cazzo.
Ma allora perché scrivi? chiedereste voi, se ve ne fregasse qualcosa (ma non ve ne frega un cazzo, dico Voi tanto per dire, lo so che di là non c’è nessuno). Scrivo perché non riesco a fare stare zitta la voce nella testa, la maledetta voce che commenta in un controcanto sarcastico ogni cosa che dico e faccio. Quella che mi contraddice sempre. Ci provo, a soffocarla, ce l’ho quasi fatta ma non ancora, dunque scrivo per metterla a tacere. Ormai la sento appena, un filo d’acqua in un ruscello secco, niente a paragone con dieci o peggio vent’anni fa, quando urlava. Oggi è flebile, eppure la sento e le parole si depositano nella parte bassa dello stomaco, e a lungo andare mi danno pesantezza e mal di testa. Se scrivo invece mi libero, è come defecare. Ma tanto che vi importa, mica state leggendo.
E allora di nuovo perché? Per chi? Perché è tempo di farlo. Mezza età e ipocondria ti spingono a prendere la penna e tracciare un bilancio, mentre con l’altra mano ti tocchi le palle.
Il mio primo libro era un ambizioso e ipercaratterizzato giallo comico-surreale in cui uno studente improvvisatosi detective indagava sulla morte di un professore universitario di una facoltà immaginaria di una città immaginaria di un mondo grottesco. Il plot, nelle mie intenzioni, assicurava il divertimento di una montagna russa di emozioni e trovate folli. Tornandoci su a distanza di vent’anni lo trovo semplicemente illeggibile. Estenuante nel suo tentativo di mendicare una risata a ogni riga, di infilare un’invenzione stilistica a ogni parola, di dimostrarsi innovativo a ogni capoverso. […] Nel mio secondo romanzo la furia compositiva si era grazie al cielo smorzata, era passato qualche anno ed ero, almeno in parte, riuscito a addomesticare i miei disordinati impulsi creativi in una forma più appetibile a un lettore che non avesse la benevolenza dell’amico di infanzia, del parente stretto o della fidanzata. C’entrava una maggiore maturità ed esperienza come pure una provvidenziale, completa indifferenza e impermeabilità dell’intero mondo editoriale ai miei tentativi di farmi notare, in principio entusiasti e speranzosi e poi sempre più depressi. Un istruttivo ridimensionamento delle mie aspettative. […] Per la cronaca, ho provato a rileggere pure quello ma niente da fare: c’è del buono ma è datato e mi sono stancato presto.
[…] Alla fine arrivò il giorno dell’appuntamento.
Roma, quartiere Prati, il giugno capitolino era caldo anche di mattina e la mia camicia di lino bianca già chiazzata di sudore quando verso le dieci incontrai Monica, che mi avrebbe accompagnato alla sede di Einaudi Stile Libero per una riunione dalla quale non sapevo cosa aspettarmi. Eravamo in anticipo e impiegammo il quarto d’ora d’avanzo a girellare per il mercato rionale dell’Unità, un luogo piacevole e abbastanza insolito da ambientarci la scena di colore di un romanzo, ma che attraversai senza quasi averne contezza, un po’ perché sono siciliano e al pittoresco della frutta e verdura, del pesce e delle carni in vendita sulle bancarelle sono abituato, e un po’ perché non riuscivo a pensare ad altro che a quello che mi sarebbe successo di lì a poco. Non esisteva altro per me. Avevo conosciuto Monica di persona solo il giorno prima, quando mi aveva portato a mangiare la pizza in un locale all’aperto, dove avevo conosciuto alcuni dei lettori residenti che mi avevano apprezzato, e ci eravamo pure ritrovati in mezzo a un concerto gratis di Enrico Rava, il grande trombettista jazz. Monica mi sembrava una ragazza piena di iniziativa e trasporto verso gli altri, una che aveva opinioni non scontate e coltivava un punto di vista obliquo sempre alternativo (per me pure troppo alternativo, troppo a tutti i costi, ma era di certo una boccata d’aria fresca rispetto all’immobilismo tardodemocristiano della mia città). Che fosse Monica, o Rava o il mercato o il dolce giugno romano, però, non c’era davvero nulla in quel frangente su cui potessi davvero concentrarmi a parte l’APPUNTAMENTO. Ero ostaggio di una deprivazione sensoriale indotta dallo stress alimentato dalle mie confuse aspettative. Quando infine entrammo nell’edificio – ricordo vago anche quello, ma mi pare fosse di un’architettura razionalista d’epoca fascista abbastanza standard per il quartiere – e poi nell’appartamento sede della Einaudi, le mie capacità mentali tornarono ad allinearsi col tempo presente. Quanto vidi mi stupì e mi sembrò bellissimo insieme. Mi ero aspettato un ambiente ampio pieno di segretarie, sale riunioni con vetrate a giorno, gabinetti di lettura più riparati, sontuose stanze odorose di cuoio chester degli editor anziani e open space colorati per quelli di primo pelo e per i grafici. Mi figuravo una trentina di persone al lavoro, telefoni che squillavano, conversazioni concitate in tre lingue. Trovai un appartamentino scorticato, forse quattro stanze. Traboccante di libri e fotocopie di ogni genere, pile e pile di carta su ogni superficie disponibile e anche per terra. In tutto ci lavoravano in quattro, a volte in cinque. La collana più quotata della casa editrice italiana di maggior blasone – una collana che in realtà era una sorta di entità quasi indipendente dalla casa madre, come scoprii in seguito – era tutta lì. Ormai buttavano fuori qualcosa come sessanta titoli l’anno ed erano sì e no in cinque. Venne ad aprire Claudio, che, educatissimo, si scusò per il disordine: presto si sarebbero trasferiti in una sede più grande ma intanto bisognava portare pazienza. Non avevo nulla in contrario, avevo portato pazienza per tutta la vita, non mi sarei scoraggiato giusto ora. Parlammo del più e del meno in attesa che Severino, il direttore editoriale, arrivasse. Poi, annunciato dallo scrocchio della chiave nella serratura, apparve sulla soglia. In realtà all’epoca non avevo idea di chi fosse, manco per sentito dire, ma mi fu subito evidente che era un uomo che non viveva nello stesso mondo mio e della maggior parte delle persone. O meglio, il mondo poteva anche essere lo stesso ma lui lo vedeva e lo ascoltava in tutt’altra maniera. Sarà stato per la suggestione di quel suo nome così stretto e contegnoso – che in realtà c’entrava poco con lui, secondo me – o l’improbabile onda di capelli lunghi e lisci che gli scendeva sugli occhi, ma mi ricordò il professor Severus Piton della saga di Harry Potter, o meglio il suo interprete cinematografico. Però un Severus Piton buono, con l’espressione sorridente e vaga invece che arcigna. Ti guardava e avevi la sensazione netta che scorgesse davvero qualcosa di buono in te, qualcosa che nemmeno tu sapevi di avere o di cui dubitavi, ma dal momento che lui era lui e ti guardava così, quel qualcosa di buono doveva esserci di sicuro e te lo avrebbe tirato fuori.
[…] La telefonata con la quale comunicai a mio padre che ero appena diventato un autore Einaudi fu il momento più alto della mia vita fino a quel giorno e uno dei più alti di sempre. Nei mesi successivi l’entusiasmo non faceva che montare, era un continuo accelerare di novità ed esperienze, le riunioni di editing con le osservazioni profonde e visionarie di Severino, i consigli di cristallo di Giovanna, mi andava bene tutto. Nel frattempo il mio primo romanzo, quello diciamo così acerbo, sarebbe uscito per una piccola casa editrice di Imola che non poteva darmi alcun anticipo ma nemmeno mi chiedeva squallidi contributi per la pubblicazione. Anni dopo mi avrebbe inviato un assegno con i proventi delle mie royalties, che ancora conservo senza averlo mai incassato (ammontava a circa 12 euro). All’inizio dell’anno mi sarei anche sposato col mio amore (la ragazza che odiava la campagna ma accettava di passarci le vacanze per me). Mi aveva marcato stretto fino a che le avevo detto ok sposiamoci, ma non nel 2004 che è bisestile, nel 2005 quando vuoi; l’1 gennaio non era possibile per ovvi motivi, il 2 era domenica e lei aveva scelto il 3, anche se i parrucchieri erano chiusi: immagino temeva che cambiassi idea. Intanto la stesura del mio nuovo romanzo, il terzo, basato su quella che mi appariva una struttura geniale, procedeva a gonfie vele e in più avevo conosciuto tre matti con i quali ci eravamo imbarcati nella scrittura (tanto per cambiare) di un romanzo collettivo, una pratica allora di gran moda, ci divertivamo un sacco e, incredibile a dirsi, venivamo anche invitati a parlarne in giro pur senza avere ancora pubblicato una sola pagina. L’universo era decisamente in espansione, per quanto mi riguardava, e io lo percorrevo in smoking e a piedi nudi su un sentiero di petali di rose sparse dagli dei lungo la Via Lattea. Chiaro che non poteva durare.

Questo articolo è stato pubblicato in Monica Mazzitelli, Narratori del Nuovo Millennio e taggato come GuglielmoPispisa il 13/03/2024 da Monica Mazzitelli

Informazioni su Monica Mazzitelli

Regista, scrittrice, blogger.

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