Riaprite quella porta

𝐑𝐢𝐚𝐩𝐫𝐢𝐭𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚
Che vuol dire Metafisica concreta? Il cielo in terra, le stelle a portata di mano, per usare un linguaggio simbolico, puerile e metaforico.

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Riaprite quella porta
di Marcello Veneziani
25 Novembre 2023

Che vuol dire Metafisica concreta? Il cielo in terra, le stelle a portata di mano, per usare un linguaggio simbolico, puerile e metaforico.
È permesso, è sensato, è concepibile ragionare di metafisica in un settimanale dedicato all’attualità e alla vita di ogni giorno? Dal punto di vista metafisico si, perché la metafisica, soprattutto quando è concreta, si occupa anche della realtà e della vita. Anzi, la metafisica è necessaria; è quel che ci manca sotto i nostri piedi e sopra la nostra testa.
Sto parlando di un’opera da poco uscita di Massimo Cacciari, Metafisica concreta, edita da Adelphi. Cacciari, a sua volta, si occupa in tv e sulla stampa di attualità e temi quotidiani, lo fa in modo burbero e appassionato; non è un eremita che scruta nell’anima e nei cieli né un bizantino che disputa sul sesso degli angeli mentre la città è assediata dalla barbarie e dal banale.
Metafisica è parola ormai estranea, intrusa, nel gergo del nostro tempo; serve al più per denigrare un pensiero, o per ricacciarlo indietro di secoli. Metaverso si, metafisica no; metamorfosi si, metafisica no. Ciò che non passa dalla tecnica o dalla mutazione non ha cittadinanza. Eppure la metafisica è il fondamento, è l’origine e la meta. Cacciari porta a compimento un cammino di pensiero partito dal marxismo operaista, il pensiero negativo e la notte della krisis; per giungere ora a riveder le stelle, e aprirsi al fondamento della realtà e della vita. Nessuna conversione, nessun capovolgimento; anzi quando ti sembra che si stia avvicinando a un punto decisivo, apre altri scenari, si sposta su altri piani, richiama esperienze di pensiero divergenti. Cacciari definisce scettica la metafisica perché induce a dubitare e a rimettere in discussione ciò che diamo per acquisito. Ha dunque una funzione opposta a quella solitamente attribuita: non si pietrifica nei dogmi ma li rimuove, anche i nuovi dogmi nati dal relativismo e dal nichilismo.
Tra i suoi contemporanei, Cacciari dialoga con Emanuele Severino. E in retrospettiva riprende i sentieri interrotti di Heidegger. Ma i suoi riferimenti più essenziali, a mio parere sono altri: Platone in primis, e Plotino sotto traccia, Giambattista Vico, e non il Vico “storicista” di Benedetto Croce, ma il Vico metafisico, studioso dell’uomo e della civiltà. Quella civiltà di cui Ezra Pound nei Cantos, scrive Cacciari, ha tentato di ricostruirne la bellezza tramite “i frammenti e le rovine della nostra civiltà”; e aggiunge che i Cantos sono la sola grande opera contemporanea all’altezza di dialogare con la Commedia dantesca. Cacciari trae ispirazione da Padre Pavel Florenskij che voleva scrivere una Metafisica concreta ma non portò a compimento la sua idea (fu ucciso da Stalin dopo essere stato internato in un gulag). Florenskij è un autore ormai da tempo presente negli scritti di Cacciari, e a lui si ispira il suo tentativo di rigenerare, anche sulla linea vichiana, un realismo metafisico. “L’essere vivente – dice Cacciari citando il pensatore russo – è la manifestazione più evidente dell’idea”.
La mente eroica, per dirla con Vico, non deve arrendersi davanti al “muro dell’Impossibile” ma riapre la metafisica come possibilità e come interrogativo. La scienza ha bisogno della filosofia al suo massimo grado metafisico. Sono due mondi distinti ma inseparabili, e contigui. La metafisica ‘salva’ la fisica dall’essere una mera descrizione e le restituisce il rango di teoria. La scienza ha bisogno di collegarsi a un’aurea catena, fino ad essere “capace di Dio”, cioè in grado di coglierlo. La scienza nuova, per dirla ancora con Vico, sorgerà su quelle basi, guidata da un Principio colto tramite intuizione e rivelazione.
Ma la metafisica, per Cacciari, non è la fuga nei cieli dell’astrazione: l’essere è vita, s’incarna nel reale; “nulla esiste che non abbia anima, forma di un corpo vivente”; anzi “la natura è il corpo vivente del Principio stesso”. Il pensiero, aggiunge, non è concepibile se non è radicato nella natura; il pensiero presuppone il nostro essere; cogitare è collegare. Qualcuno dirà che s’intravede Spinoza, qualcuno penserà a Gentile. La riapertura all’essere, la riconciliazione del pensiero con la vita rimette in discussione alcuni pregiudizi dominanti: sicché, ad esempio, la libertà non consiste nell’emanciparsi, nel “disciogliere”, ma secondo il filosofo veneziano è nell’intelligenza del connettere; la libertà non spezza i legami ma sorge da essi. Ogni mutamento ha senso, prospettiva e consistenza se si rapporta a ciò che permane; e il passato non può essere rimosso dal presente. Così il nostro “esserci per la morte” non si può separare dal sentimento d’immortalità (Vico direbbe il desiderio d’eternità). L’identità è strettamente collegata alla differenza; e pensare non è congedare il mito per affidarsi alla ragione, ma al contrario “è già filosofo chi ama il mito”, che è dunque alle origini del pensare, come la poesia (aggiungiamo pensando a Vico e al pensiero poetante). Cacciari ritiene che pensare l’Europa vuol dire riflettere sull’istanza di fondazione e sull’eredità, dopo la fine dei padri. Poi lascia aperti spiragli in tema di verità, di fede, di pensiero escatologico…
Infine Cacciari ci lascia un’immagine che è forse il compendio del suo pensiero in cammino: quadrare il cerchio. Il suo itinerario della mente verso Dio cammina sulle ruote quadrate della metafisica scettica, ultima forma di teologia negativa, cercando di varcare il muro dell’impossibile. Ma riapre quella porta, e questo quel che importa.

(Panorama, n.48)