La prima legge del potere

𝐋𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐥𝐞𝐠𝐠𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐫𝐞
Vi chiedete perché è così difficile governare l’Italia e realizzare grandi cose quando si assume un ruolo di responsabilità. Non è questione di destra o di sinistra; entrate in argomento come se doveste entrare in una barca o in una moschea, lasciando sulla soglia le vecchie scarpe di destra e di sinistra.
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La prima legge del potere
di Marcello Veneziani
20 Agosto 2023

Vi chiedete perché è così difficile governare l’Italia e realizzare grandi cose quando si assume un ruolo di responsabilità. Non è questione di destra o di sinistra; entrate in argomento come se doveste entrare in una barca o in una moschea, lasciando sulla soglia le vecchie scarpe di destra e di sinistra. Entrate a piede libero, come carmelitani scalzi e saprete la verità.
La legge inesorabile che ammazza ogni volontà di incidere e di modificare le cose, di progettare e realizzare, è una e vale soprattutto per le classi dirigenti; primum, pararsi le chiappe. È quella la regola regina che distoglie propositi ed energie per convogliarli tutti là, nell’esercizio più difficile di equilibrio, prevenzione e auto-conservazione. Pararsi le chiappe è l’apriori del potere, il prerequisito per far parte della classe dirigente, come mettersi le cinture di sicurezza prima di partire. D’altra parte l’opposizione in Italia non incalza chi governa sui fatti e i risultati ma tende agguati per farli cadere. Ergo, prima che il buongoverno, bisogna pararsi i glutei.
E così salvaguardare il fondoschiena non è un’attività marginale e dopolavoristica, sportiva e solo precauzionale; ma è la prima mansione, la prima attitudine richiesta perché appena ti insedi in un potere, qualunque esso sia, sei messo subito perfettamente a tuo disagio, in posizione di precarietà e di vulnerabilità, insomma di dipendenza, se non di ricatto o di minaccia. Al punto che capisci subito due cose: la prima è non disfare le valigie, mai appendere i vestiti al guardaroba, ricordati che sei di passaggio. E poi: ricordati di non decidere, ovvero di compiere una scelta definitiva, anche ponderata e utile. Devi prima incassare l’autorizzazione a procedere, superare i veti incrociati e le maldicenze dei servi infidi, le imboscate giudiziarie e poi devi accordarti, accontentare e dilazionare, diluire le tue idee fino a deviarle, gonfiarle d’aria, svuotarle di contenuti. Quando saranno irriconoscibili e inutili, allora potranno essere accettate.
In altri termini la principale attività che assorbirà tutto il tuo tempo è sopravvivere, affinando tecniche, strategie, relazioni e cerimonie di sopravvivenza. Ovvero, ancora, pararsi le chiappe. La tua preoccupazione prioritaria non dev’essere fare ma durare; attività riflessiva, introversa, autopromozionale. E’ la legge inesorabile del potere non solo politico e istituzionale, ma anche accademico e perfino culturale, da applicare anche in ambiti che sembrano esenti. Per esempio, la ricerca scientifica e universitaria in Italia non decolla per la stessa logica precauzionale. Poi ci chiediamo perché in Italia la ricerca non fa passi avanti o perché molti vanno via dall’Italia. Perché i mezzi sopraffanno gli scopi della ricerca, occupano i nove decimi delle risorse e del tempo a disposizione. Applicate lo stesso criterio al potere: la prima preoccupazione è conservare con ogni mezzo e mezzuccio la poltrona; la seconda è sventare le insidie altrui, boicottando ogni possibile crescita di personalità ingombranti; la terza è procurarsi i mezzi per realizzare i programmi, questuando fondi, permessi, compiacenze. Quel che resta è dedicato all’esercizio costruttivo del potere: è la decima parte del tempo e delle risorse, la stessa quota che si destinava alla carità. Perciò si realizza poco. Le energie vengono esaurite per resistere, per parare i colpi bassi, medi e alti. Perdi di vista la ragione prima per cui sei in quel posto, perché hai ricevuto quel mandato, tra te e la cosa si frappongono impedimenti, ricattatori che ti chiedono il pedaggio, più i controrematori. Anche il giudizio pubblico e mediatico si adegua alla legge parachiappa: non si viene mai valutati per quel che si è, si fa o si sta cercando di fare, ma per il livello di sopravvivenza conseguito, ovvero per la capacità di pararsi le chiappe. Il giudizio non è mai: è bravo, non è bravo, ha fatto bene o non ha fatto, ha ragione o ha torto, ma dura oppure cade, è protetto oppure no, a chi risponde. E se resta in piedi non importa se resiste per capacità propria o perché si è pupazzi di gomma (quand’ero bambino c’era un pupazzo che non andava mai a terra, Ercolino sempre in piedi). L’importante è stare in piedi, anche da pupazzi; purchè ci si para le chiappe. Se cerchi nel frangente di sollevare un problema di efficacia o di dignità, o che sta a cuore all’interesse pubblico, ti guardano come un marziano o un demente: ma come, ti devi parare le chiappe e stai pensando a governare, a realizzare, o peggio a quella comica chimera che chiamate coerenza o dignità?
Ma fuori d’Italia, nel resto del mondo, è la stessa cosa? Temo di si, e non solo tra i paesi più simili al nostro, ma tra gli arabi, i coreani e i cinesi, i turchi e i russi. Però da quelle parti pararsi le chiappe è una strategia di sopravvivenza, ne va la vita. Da noi però c’è l’arte e la filosofia del paraculismo, l’elaborazione di un sofisticato galateo di chiapperia, versione autoconservativa della guapperia: si vis pacem para chiappem.
Allora che fare, fuggire da ogni incarico, rifugiarsi nella tundra subappenninica o in fondo al mar? Sportivamente dico: chi ha stomaco resista, chi è delicato scelga di passare al bosco, alla campagna o al mare. O al monastero. Chi spera di cambiare le cose, smetta di sperare ma ce la metta tutta per cambiare, con operosa disperazione. Agisca come se dovesse farcela ma pensi l’impresa come eroica e temeraria. Scelta difficile e un po’ schizoide, ma non vedo altra via. Motto valevole sia per chi abbandona che per chi resiste: non si vive di sole chiappe.

(Panorama, n.36)