Il Miracolo dei ragazzi del ’99 che non gettarono la divisa

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LA GRANDE GUERRA. IL MIRACOLO DEI RAGAZZI DEL ’99 CHE NON GETTARONO LA DIVISA
maggio 27, 2015
Roberto Coaloa ricorda il 24 maggio 1915, le ombre di Caporetto, l’atavismo risorgimentale di una élite di governo che trasformò il primo conflitto mondiale degli italiani in una “privata” questione italo-austriaca, in «l’ultima guerra dell’indipendenza».
Dal quotidiano “Libero”, mercoledì 27 maggio 2015.

ANTONIO-RUBINOUna celebre immagine di propaganda del disegnatore Antonio Rubino (1880-1964), dal giornale di trincea “La tradotta”.

LA GRANDE GUERRA. IL MIRACOLO DEI RAGAZZI DEL ’99 CHE NON GETTARONO LA DIVISA
Di Roberto Coaloa
Il 24 maggio, cento anni fa, l’Italia entrò nella Grande Guerra. Nella memoria comune sul “15-18” resta soprattutto la disfatta di Caporetto. Al punto da relegare in un angolo l’impresa militare e culturale che, nel giro di poco tempo da quel drammatico ottobre 1917, portò il nostro esercito a ribaltare le sorti di un conflitto che sembrava irrimediabilmente perduto.
Lo sforzo bellico italiano dopo Caporetto, tuttavia, fu così intenso che nella memoria popolare quella guerra italo-austriaca, iniziata con un anno di ritardo rispetto al conflitto mondiale, restò impressa come una lotta di resistenza contro l’invasione. Le cose erano, invece, andate diversamente: fu il regio esercito, gridando «Savoia!», ad attaccare. L’Italia, infatti, dopo quasi un anno di attesa dall’inizio del conflitto, disertò l’alleanza con Vienna, schierandosi con le forze dell’Intesa. Per l’imperatore Francesco Giuseppe fu un tradimento.
Ora gli storici discutono su quel fatale 1915. Alcuni ricordano che il giovane Regno d’Italia entrò nella guerra per ragioni di politica interna, contro Giolitti; si dibatte su quella scelta del re e del suo ministro Sonnino. Restando neutrale, infatti, l’Italia poteva ottenere ugualmente le province irredente (con l’esclusione del porto di Trieste). Antonio Salandra, presidente del Consiglio dal 1914 al 1916, scriverà: «Senza i giornali l’intervento dell’Italia forse non sarebbe stato possibile». Per questo motivo Giolitti era infuriato con il re, con Salandra e soprattutto con Sonnino, che avrebbe voluto far impiccare.
Sul fronte dell’informazione il tamburo fu suonato dal «Corriere della Sera», che il 24 maggio 1915 non aveva dubbi: «Guerra! La parola formidabile tuona da un capo all’altro d’Italia e si avventa alla frontiera orientale, dove i cannoni la ripeteranno agli echi delle terre che aspettano la liberazione: guerra! È l’ultima guerra dell’indipendenza».
Il partito interventista aveva vinto nel 1915: la scelta non maturò in Parlamento, dove sarebbe stata costituzionalmente corretta, ma nelle piazze agitate da Gabriele d’Annunzio, con l’appoggio tacito del governo. Era una sonora sberla all’Italia giolittiana! Passò l’idea della «Quarta guerra d’indipendenza» contro l’Austria (cosa che tra l’altro danneggiò, e non poco, la posizione dell’Italia alla pace di Versailles, considerata, ingiustamente, da Thomas Woodrow Wilson, Georges Clemenceau e David Lloyd George, come la protagonista di una guerra “privata” e non mondiale).
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Gabriele d’Annunzio appunta la medaglia al valore al Capitano Natale Palli dopo il celebre e avventuroso “Volo su Vienna” (9 agosto 1918).

 

Dopo un lungo periodo di pace, nel 1915, lo spettro risorgimentale del nemico dell’Unità ritornava nel Bel Paese. Non è un caso che la canzone più nota, fischiettata e cantata tutt’oggi, è la Leggenda del Piave, quella contro «lo straniero», che comincia con le parole: «Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio». Era una canzone di propaganda, utile a rendere più spavaldi i ragazzi del 99. Era simile, ai fini della propaganda di guerra, alla nascita dei giornali di trincea come «La Tradotta». Quella canzone fu più potente di altri mille episodi del riscatto italiano dopo Caporetto, come il folle volo su Vienna di Gabriele d’Annunzio, le imprese marittime di Buccari e di Premuda. Anzi, a ben vedere il testo della canzone è ben più moderno delle poesie o dei dispacci del Vate, spesso non memorabili.
DELIO-TESSA                                                       Lo scrittore e poeta milanese Delio Tessa (1886-1939).

In una antologia di poeti italiani nella Prima guerra mondiale, dopo Caporetto, valgono cento volte di più, rispetto a quelli di d’Annunzio, i versi in dialetto milanese di Delio Tessa: «L’e el dì di Mort, alegher! … I noster patatocch a furia de traij ciocch, de ciappaij per el cuu, de mandalij a cà busca m’an buttaa via la rusca». Questa è la rappresentazione esatta della guerra come tragedia: «I nostri fanti a furia di intontirli, di prenderli per il culo, di mandarli a prender botte hanno gettato la divisa».
Chi scrive ha pubblicato, l’anno scorso, un volume sull’Arciduca assassinato a Sarajevo, Francesco Ferdinando. Il libro lo dedicai a mio nonno Giovanni Coaloa, Granatiere di Sardegna. Lo dedicai ai miei bisnonni, gli arditi Santo Auguzzi e Stefano Ardito (nomen omen), combattenti nell’immenso campo di battaglia in cui fu ridotta l’Europa, in quella guerra che, nel 1917, ricevette da papa Benedetto XV la memorabile espressione di «inutile strage». Lo dedicai anche allo zio Biagio Fontana, classe 1900, soldato nelle due guerre mondiali. A qualcuno è parso strano tutto questo: dedicare a dei soldati italiani un libro su un membro della Casa d’Austria, agli Asburgo, il nemico storico del Risorgimento! Rispondo che uno storico deve comprendere il passato, anche se forse non potremmo mai sapere cosa indusse veramente i nostri predecessori a scatenare qualcosa di così mostruoso come la Prima guerra mondiale, tragedia europea. Cento anni fa, semplicemente, l’Europa, «il mondo di ieri», si suicidò. L’Italia, dimenticandosi degli eroismi e dei sacrifici del Risorgimento, tradì la generazione di Solferino e di San Martino, quando austriaci, francesi, italiani, dopo quella sanguinosa guerra del 1859, erano diventati «Tutti fratelli!». Tra il 1915 e il 1918, ahimè, nacque un nuovo barbaro: l’italiano incivilito con la clava, modello Ansaldo.
Per la previsione di alcune grandi imprese, la guerra in Europa avrebbe dovuto prolungarsi ancora per un anno. La Grande Guerra fu una guerra di materiali, per dirla con Ernst Jünger. Lì, tra le tempeste d’acciaio, i poveri fanti-contadini erano destinati a soccombere per la felicità di pochi. «Oh! What a Lovely War», come sostenne, ironicamente, il regista inglese Richard Attenborough! Le élites dell’Intesa gioirono per i facili guadagni negli anni di guerra, ma le loro errate e ciniche previsioni determinarono, in un secondo tempo, una grave crisi di sovrapproduzione, che avrebbe reso più ardua la riconversione post-bellica con pesanti conseguenze non solo di ordine economico.