I 160 anni di unità d’Italia /2

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Gigi Di Fiore 8 marzo 2021

Seconda puntata sui 160 anni di unità d’Italia: chi può scrivere di storia? Tra giornalisti-storici e storici-giornalisti

Ricorre sui social, anche nell’anniversario per i 160 anni di unità d’Italia, il solito scontro personalistico e tra gruppi da stadio su chi è più credibile nelle sue ricerche sulla storia del nostro Paese. Dibattito infarcito di strafalcioni, ignoranze, pregiudizi. Il tema più dibattuto, non sempre con misura, è: chi può scrivere di storia e pubblica ricerche attendibili? Chi ha diritto al “patentino” di storico matricolato? Una dibattito su cui viene spesso il sospetto si nascondano interessi di caste (accademiche e non). Specie se si parla di Risorgimento e unità d’Italia.

Sulla sua rivista “La Critica”, nel 1942 Benedetto Croce tagliò corto sull’esistenza di una “Storiografia del Risorgimento”. Nel numero 41, scriveva: “Esortai a risolvere la cosiddetta storia del Risorgimento nella storia europea, purgandola dagli intenti e dal tono agiografico e dalla congiunta rettorica che ancora vi prevaleva”. Croce ricordava la nascita di “speciali riviste e speciali collezioni, e perfino speciali cattedre”, su cui espresse “un certo fastidio e sospetto verso ciò che io sentivo vuoto e insincero” Era la bocciatura alle patenti formali di specialist sul Risorgimento. Del resto, Croce non ha mai voluto insegnare all’Università e ha pubblicato libri sulla storia e sul metodo storiografico. Può essere dirsi anche uno storico, o va guardato con sospetto?
La questione ha origini remote. Nella seconda metà dell’800,. quando le vicende risorgimentali erano ancora fresche, si cominciò a studiare quel periodo. Per anni lo storico si era occupato di epoche antiche, potevano esserlo anche chi studiava periodi contemporanei su cui era coinvolto? Un dilemma, che accese ricorrenti accuse di parzialità. Quando poi, nel 1890, partì la nuova legge sui concorsi universitari, si moltiplicarono gli appetiti. E si guardò con sospetto ai cosiddetti “storici intellettuali” non in cattedra, come Croce, Cesare Spallanzon, che nasceva giornalista al “Gazzettino” di Venezia, o Luigi Salvatorelli, che fu condirettore de “La Stampa” e poi docente di storia a Napoli.
“Giornalisti” visti in modo riduttivo, come se il metodo per scrivere del presente e raccogliere fonti su fatti immediati non sia simile a quello dell’occuparsi di vicende passate. Giovanni Spadolini fu direttore del “Corriere della sera” e insegnò storia. Paolo Mieli ha diretto il “Corriere della sera” e da qualche anno, dopo aver pubblicato libri, viene considerato uno “storico” conducendo anche dei programmi su Rai Storia. Erano e sono credibili questi esempi, o resta indispensabile uno speciale patentino per occuparsi di storia?

Per arrivare in cattedra, molti ricercatori pubblicano articoli su articoli in riviste specializzate, che hanno più o meno credibilità scientifica assegnando punti diversi in base alla testata. Sono titoli acquisiti e non sono pochi quelli che acquisiscono curriculum esclusivo con le riviste, arrivando ai concorsi senza aver mai scritto un libro che, chi pubblica saggi lo sa, deve possedere una costruzione, una ricerca stilistica, una credibilità di fonti. Eppure, sembra valere più un ricercatore a contratto autore di articoli su riviste che un non-docente con decine di ricerche e libri all’attivo, pubblicati con metodi scrupolosi. Sono le convinzioni da stadio.

Dieci anni fa, nel più sentito anniversario sui 150 anni di unità d’Italia, furono decine le pubblicazioni storiche di giornalisti. Erano la maggioranza e molte, con tesi di rilettura non agiografica sul Risorgimento, ebbero successo. Personalmente, partecipai a quattro trasmissioni del format “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli su Rai 2. Ero tra gli ospiti anche nella puntata clou, quella del 17 marzo 2011 e, con serenità, espressi le mie tesi frutto dei miei lavori. Dieci anni dopo, molti storici (e Alessandro Barbero ne è l’emblema) hanno capito che è meglio uscire dall’oscurità delle cattedre e farsi vedere in Tv, cercare ospitate, ammiccare ai giornali per firmare qualche commento.

Un capovolgimento di prospettiva e Barbero è diventato la star di Rai storia, pubblicando di tutto. Romanzi storici compresi. Proprio il genere che i superficiali da social contestano ai giornalisti. Tanti storici sono commentatori sui giornali e scrivono non solo di storia, ma anche di politica e attualità. Insomma di “cultura della contemporaneità” dietro la scrivania. Ne sono abbastanza competenti, se hanno insegnato magari solo storia medievale (quella fino a qualche anno fa considerata la più prestigiosa per un docente), con poca dimestichezza con gli avvenimenti quotidiani se non attraverso tv e giornali? Interrogativi frutto di limiti culturali che riguardano l’argomento di partenza: chi può essere credibile nei suoi libri di storia.

La BUR sta ristampando i libri di storia che Indro Montanelli scrisse a quattro mani con Maria Cervi, Roberto Gervaso, Marco Nozza, Marcello Staglieno. Tutti giornalisti, tutti autori di saggi storici dalle vendite che certi docenti di storia si sognano. Certo, la dimestichezza quotidiana con la scrittura agevola la tecnica narrativa popolare e i libri di storia di giornalisti sono su questo favoriti. Arrigo Petacco, che fu anche direttore di riviste di storia, ne è un esempio. Ma lo è anche Giordano Bruno Guerri con le sue biografie. E allora, anche in questo anniversario in sordina sembra si debba assistere a difese di steccati e campi d’azione, nella consapevolezza che, se gli archivi sono aperti a tutti, i docenti universitari hanno tempo (allievi incaricati), aperture, conoscenze maggiori per accedervi.

Insomma, la divisione storici e giornalisti pare questione di lana caprina, se consideriamo che il primo e più citato studio sul brigantaggio post-unitario fu pubblicato nel 1966 da un non-docente: Franco Molfese, vice direttore della biblioteca del Parlamento. E fece più rumore “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi sulla condizione dei contadini nel sud e le loro memorie del brigantaggio che qualsiasi altro libro dell’epoca. I romanzi aprono spesso le porte a studi storici successivi. Basti pensare al libro “La ciociara” di Alberto Moravia e le ricerche sugli stupri alleati in Ciociaria. E allora sono convinto che, se esiste buona fede e onestà intellettuale, se si conoscono e si cercano più fonti e con metodo rigoroso si interpretano, la patente da concorso accademico conta poco. Resta il testo, la sua comprensibilità e anche godibilità, la sua attendibilità.

Purtroppo, le divisioni sono spesso timori di perdere potere e prerogative. Nelle accademie l’invasione di campo viene vissuta con sofferenza. E sono partite pesanti contro offensive. Le accademie si sono spesso sentite uniche custodi autorizzate del pensiero e della cultura. Dietro l’angolo, c’è il rischio del pensiero unico, omogeneo a quello politico dominante, anche nell’interpretazione del Risorgimento. Le carriere sono importanti. Ma è un rischio collettivo e lo ricorda proprio la storia: nel 1931-1932, quando il fascismo richiese il giuramento ai docenti per mantenere l’insegnamento, su 1848 cattedre e 2638 liberi docenti oltre a 177 professori straordinari, solo 18 si rifiutarono di giurare. Sei andarono in pensione. Dunque, soltanto 12 coraggiosi dissidenti su circa 2800 professori. La storia d’Italia fa riflettere.