IL BRIGANTAGGIO A SOLOPACA

da: “SOLOPACA” di Alfredo ROMANO – edizioni A.S.M.V. Piedimonte Matese, 1998

IL BRIGANTAGGIO A SOLOPACA

[….] Solopaca entra nella storia del brigantaggio con i borboni, sia al tempo di Ferdinando IV, scappato in Sicilia, dopo la formazione della repubblica napotetana (1799), che al tempo di Francesco II, dopo la fuga a Roma (1860). Le sue montagne, con i folti boschi e le naturali caverne, servivano egregiamente alle facili avventure dei banditi. Tuttora esiste una lunga galleria sotterranea, in muratura, denominata “grotta dello Staglio”, sita nei pressi della contrada Santianni.

BRIGANTAGGIO AL TEMPO DELLA REPUBBLICA PARTENOPEA

Famigerato brigante, alla fine del sec. XVIII, fu Michele Pezza, più conosciuto col nome di “fra Diavolo”, nato nel 1771 ad Itri. Durante e dopo la rivoluzione napoletana del 1799, il giovane si mise al servizio della reazione borbonica. Dopo aver contrastato l’avanzata dello Championnet, entrò in Napoli con le bande sanfediste del cardinale Ruffo (1). Incaricato di battere la campagna contro i francesi, si abbandonò impunemente al saccheggio, forte della protezione del sovrano, al quale si mantenne sempre fedele e che lo insignì del grado di colonnello. Condusse poi la guerriglia contro l’avanzata del maresciallo napoleonico Massena, difese Gaeta, sollevò la Calabria ed effettuò uno sbarco a Sperlonga. Sconfitto a Sora, fuggì in Abruzzo, dandosi alla macchia. Il 18 ottobre 1806, a capo di una compagnia di 28 briganti, fu visto oltrepassare il fiume Calore, con la scafa presso il ponte delle Caldaie, per prendere la montagna, attraverso la zona chiamata “Selva”. Il famoso bandito potava con sé molto denaro. A tale notizia, si mossero da Guardia Sanframondi 200 soldati francesi che, durante l’inseguimento, pernottarono il 21 ottobre di quell’anno presso il “trappeto del Duca”, in contrada Terranova. Anche la Guardia Urbana di Cerreto, avvertita dal comune di Vitulano della presenza di fra Diavolo in quel tenimento, venne il 2 novembre a Solopaca, per portarsi sulle piste del noto scherano. I pubblici agenti, avendo però ricevuto ordine di non proseguire, perché il malandrino si era allontanato, tornarono indietro e, dopo essersi appostati per tutta la giornata del 4 novembre presso la scafa, rientrarono in Cerreto. Il brigante venne poi raggiunto dal generale Hugo, padre del poeta francese, e battuto con i suoi uomini a Boiano, sul Biferno. Fatto prigioniero, venne impiccato a Napoli, l’11 novembre 1806. L’Auber ne prolungò la fama con la nota commedia musicale (2). In questo periodo i soldati francesi, che stanziavano a Napoli, erano continuamente impegnati nella ricerca e cattura dei briganti (3). L’11 giugno 1807, giunsero in Solopaca, diretti verso la zona di Paupisi e Torrecuso, circa 300 francesi. La civica amministrazione del tempo provvide loro, che erano accampati presso la scafa del ponte delle Caldaie, il desinare a mezzogiorno. Il 15 luglio 1807 passarono per Solopaca altri 250 soldati francesi, di cui molti a cavallo, che trascinavano 53 briganti, ben legati, da Campobasso, e quattro cavalcature cariche di fucili e di altri attrezzi. Pernottarono tutti in paese e all’indomani ripartirono per Capua. Un soldato, per il caldo eccessivo, morì ai Procusi e venne seppellito nella Chiesa Ricettizia. Dal 10 all’11 aprile del 1808, alcuni soldati francesi, diretti per Campobasso, sostarono presso il “trappeto del Duca”, dove accesero per il troppo freddo un gran fuoco. Una folata di vento causò un vasto incendio nella zona circostante, per cui accorsero dall’abitato molti solopachesi, che a stento riuscirono a smorzare le fiamme e a salvare l’edificio dalla distruzione. Il 23 settembre 1809 furono di passaggio circa altri 200 soldati francesi, mandati in aiuto ai commilitoni, che il giorno precedente si erano attaccati, con fucili e baionette, con un folto gruppo di briganti che avevano messo a saccheggio Casalduni: nella colluttazione erano rimasti uccisi 16 briganti ed un gendarme. Provenienti da Campobasso, il 20 ottobre dello stesso anno, giunsero 140 briganti, catturati dalle truppe francesi. La sera alloggiarono nella Chiesa Ricettizia e nella Congrega dei Sette dolori; ripartirono il giorno seguente per Gaeta. A capodanno del 1810, insieme con 20 soldati corsi di fanteria, venne a Solopaca il tenente Ercole, il quale alloggiò presso l’abitazione di Niglio. Durante la loro permanenza nel nostro paese, catturarono sulla montagna due uomini fuggiaschi, cioè Pasquale Giannetti, disertore, e Martino Caporaso, il figliuolo del “Caccianese”. Per ordine dello stesso tenente, dal 1 gennaio, alle ore 2 di ogni notte, si suonava la campana grande, che invitava la gente a non girare per le strade; chi, dopo quell’ora, girando, non portava il lume, veniva arrestato dai soldati. Il 13 gennaio 1810 il suddetto tenente Ercole fece accompagnare da soldati e da guardie civiche i due prigionieri nei pressi della parrocchia di S. Mauro. Il fuggiasco Martino Caporaso, assistito dal sac. don Arcangelo Canelli, venne fucilato da sei soldati corsi, nella piazzetta di S. Maria Te Amo; al medesimo venne reciso il capo, che fu poi sospeso al campanile. Il compagno dello sventurato, Pasquale Giannetti, dopo aver assistito alla fucilazione, ben legato, fu accompagnato di nuovo in carcere; il dì seguente fu condotto a Capua, dove, a distanza di alcuni altri giorni, fu lasciato libero. Onde offrire ai nostri lettori un quadro più ricco del periodo brigantesco nella nostra terra, riportiamo altri episodi, che si trovano annotati nel “Diario” del notaio Giovanni Maria Romanelli:

Addì 4 aprile 1814: una comitiva di briganti ha ammazzato con colpi di fucile Vincenzo Tancredi, presso la fornace di Michele Canelli, nel luogo poco discosto dalla “fontana di San Vincenzo”.

Addì 14 aprile 1814: detta comitiva di banditi è stata affrontata da legionari di diversi comuni, presso la località “Postiglione”. Uno dei capi di essa, Nicola Tancredi fu Angelo, è rimasto ammazzato; Mennato Cusani fu Carmine ha avuto crivellata la gamba e, in seguito, portato a Capua, è stato fucilato. Gli altri sono stati tutti feriti e sbaragliati”.

Addì 24 giugno 1814: sono state mortalmente ferire, a colpi di schioppo, la moglie del defunto capo brigante Nicola Tancredi e la zia di lei, nei pressi del casino di don Giuseppe Cusani Sono entrambe morte, a distanza di poche ore. Addì 26 agosto 1814: essendosi Nicola Iannucci portato sulla montagna per affari suoi, è stato preso dai briganti, i quali già portavano, legata, con loro un’altra persona di Vitulano, alla quale avevano tolto denaro e cibarie. Essendosi però a sera scatenato un forte temporale, i briganti sono scappati per trovare un riparo ed hanno lasciato i due malcapitati, che subito si sono diretti verso i loro paesi, dove le famiglie li hanno accolti con grande sollievo.

Addì 16 maggio 1815: la guardia civica ha sorpreso presso l’osteria di Terranova un brigante, sparandogli, contro, due colpi. Il bandito, buttati via il fucile, il tascapane e alcuni panni, se l’è data a gambe, senza farsi riprendere.

Addì 12 ottobre 1816: una comitiva di briganti a Telese ha ammazzato Bartolomeo Malgieri e Francesco Rateta, facendo poi delle rapine a varie masserie di Telese e di Amorosi. In questi giorni, durante la notte, sono state incendiate anche le mete di paglia a vari massari di questo comune.

Addi 24 ottobre 1816: nel tardo pomeriggio, Pasquale Cerracchio, sostando davanti casa sua, è stato prelevato da 8 briganti e portato sulla nostra montagna. La famiglia, per liberarlo, ha dovuto sborsare 150 ducati in contanti, oltre due prosciutti, diversi caciocavalli, pane bianco e vino.

Addì 4 novembre 1816: intorno a mezzanotte, un gruppo di briganti ha sparato una raffica di colpi contro le finestre di Pasquale Tancredi fu Vincenzo e si è poi introdotto nella cantina di Pasquale Cerracchio, svuotando una botte di vino.

Addì 5 novembre 1816: sono stati catturati Giacomo Abbamondi e Casimiro Minauro, mentre, nello stesso scontro con la guardia civica, è rimasto ucciso Domenico Tancredi; erano tutti briganti della comitiva di Paupisi. Mentre però Minauro veniva condotto a S. Maria C. V, è morto lungo la strada, per il freddo rigido.

Addi 10 aprile 1817: sulla nostra montagna, è stata attaccata dai gendarmi reali e dai legionari di Casalduni una comitiva di briganti, dei quali cinque sono restati uccisi e altri due sono stati fatti prigionieri.

Addì 23 maggio 1817: sono stati ammazzati in Paupisi altri tre banditi, appartenenti alla stessa comitiva, dalla quale è riuscito a scappare il brigante Tommaso Ruggiano di Solopaca. Costui poi è stato trovato nascosto in un campo, seminato a fave, nei pressi della masseria di Pasquale Di Mezza; scovato dal giovane Filippo, figliuolo di Pasquale, mediante i suoi cani che abbaiavano verso quella direzione e cercavano di assalirlo, è stato legato e condotto nelle carceri di Solopaca.

Fu così annientata tutta la banda che fino allora aveva infestato le province di Terra di Lavoro, di Avellino e di Campobasso. Non mancavano però anche allora le catture di persone che solo dietro esorbitanti riscatti potevano essere liberate. Così, il 20 luglio 1817, una banda di 8 briganti rapì don Michele Maria Cusani da Solopaca e don Filippo Pigna da Guardia Sanframondi, trasportandoli in contrada S. Stefano, presso Paupisi. Furono richiesti 600 ducati per la liberazione del Pigna e 300 ducati per quella del Cusani. Le famiglie riuscirono a riabbracciare i loro cari versando per i medesimi rispettivamente 150 ducati e 100 ducati (5). Un altro fattaccio avvenne nella tarda serata del 21 settembre 1827. Una compagnia di briganti catturò Domenico De Iulio e Domenico Cerreto, che gestivano il molino di Telese, per estorcere loro denaro. Il maggiore Liguori, comandante della gendarmeria, con alcuni uomini, prese alloggio presso l’osteria dei Cacchillo. Alle ore 16 del 24 settembre, i briganti, che tenevano ben legati i due sventurati, furono sorpresi e attaccati con colpi di fucili dalla gendarmeria; nella fuga lasciarono abbandonati De Iulio e Cerreto, ai quali erano stati tolti 512 ducati. Mentre il secondo riuscì a raggiungere Solopaca, De Iulio invece fu ritrovato il giorno dopo, nel bosco di S. Stefano, malmenato a terra, con la testa ferita gravissimamente con colpi di pietra, in pieno delirio e privo di coscienza. Trasportato dagli stessi gendarmi in casa di Vincenzo D’Onofrio, nonostante tutte le cure dei medici e l’assistenza premurosa dei sacerdoti locali, il 3 ottobre morì.
NOTE

(1) Il cardinale Fabrizio Ruffo (l744-1827), di San Lucido (Cosenza), nel 1799 con bande annate e brigantesche, denominate sanfediste perché appartenenti all’Esercito della Santa Fede in Nostro Signore Gesù Cristo, riassoggettò a Ferdinando IV Calabria, Puglia e Basilicata e provocò la caduta della repubblica partenopea.

(2) Auber Daniel (1782-1871), compositore francese, autore, tra le altre opere, di La muta di Portici (1828) e Fra Diavolo (1830).

(3) Dopo la cacciata per opera del card. Ruffo, ritornarono nel 1806 con Giuseppe Bonaparte, nuovo re di Napoli.

(4) Come si può osservare, la piaga del sequestro di persone, a scopo lucroso, che è lamentata in questa seconda metà del sec. XX, non è nuova. Le operazioni di riscatto da parte delle famiglie, spesso sottoposte a veri e propri ricatti, erano le stesse anche al tempo cui si riferisce il fenomeno del brigantaggio.

BRIGANTAGGIO DOPO LA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

[…] ….. dopo i fatti politici del 1860, la nostra vasta zona si trovò di nuovo avvolta da pericolose insidie. La reazione filoborbonica destava serie preoccupazioni fra le nostre popolazioni e gradatamente assumeva notevoli risultati. Occorre però precisare che il brigantaggio, nel mezzogiorno d’Italia, oltre ai motivi politici, presentava anche spiccati aspetti sociali ed economici come si può desumere dalla relazione, letta da Giuseppe Massari e discussa il 3, 4 e 5 maggio 1863 alla Camera dei Deputati, riuniti in comitato segreto…… Dal 1861 infatti le nostre montagne pullulavano di briganti; essi erano liberi in ogni azione, in quanto la forza pubblica non era adeguata per disperderli. ….. Addirittura in alcuni paesi la stessa Guardia Nazionale era stata aggredita ed eliminata con interventi armati. L’8 agosto di quell’anno (1861), circa 50 briganti si portarono a Pontelandolfo, donde erano scappati il sindaco don Lorenzo Melchiorre e altri cittadini liberali. Dopo aver organizzato col popolo minuto un corteo per le vie del paese al grido di “Evviva Francesco II”, aggredirono ed uccisero l’esattore, saccheggiando ed incendiando la casa. Il dì seguente un drappello di 40 soldati piemontesi accorsero da Benevento, ma vennero tosto massacrati dai banditi, coadiuvati in questo dalla stessa popolazione. L’identica cosa accadde a Casalduni. Alla notizia di questi fatti incresciosi e tremendi, il Governo fece partire da Napoli oltre 300 bersaglieri dell’esercito nazionale, comandati da un maggiore, i quali giunsero a Solopaca il 13 agosto 1861. Essi avevano avuto il mandato di distruggere quei due paesi, perchè avevano favorito e aiutato i briganti. Si seppe poi che un altro contingente di soldati si era mosso per lo stesso scopo, in direzione di Benevento e di Cerreto. I bersaglieri partirono all’indomani per Pontelandolfo, seguendo la strada di S. Lupo. Il 15 agosto essi fecero ritorno a Solopaca e riferirono che i paesi di Casalduni e Pontelandolfo erano stati messi a sacco e fuoco, per avere i loro abitanti collaborato attivamente con i briganti. Nel cortile del nostro Palazzo Ducale, dagli stessi soldati furono posti in vendita gli oggetti presi nel saccheggio: posate d’argento, anelli e braccialetti d’oro, capi di biancheria, e, ciò che fece molta impressione, la base d’argento di un sacro Ostensorio, rappresentante due Angeli intorno ad un cuore. Altri oggetti erano stati venduti a S. Lupo. Con tale stratagemma però il brigantaggio non venne eliminato: anzi i fuorilegge, rifugiatisi in montagna, si dettero alle rappresaglie, contro le famiglie di gente onesta o di liberali. Il 1 settembre 1861, sei briganti, dopo aver rapinato le vacche di Luigi Tancredi che pascolavano presso il santuario della Madonna del Roseto, si erano ritirati sul monte Palombella. Ben presto il loro numero aumentò, essendo ivi convenuti anche altri briganti, provenienti dai Piani e dalle vette dei monti sovrastanti il comune di Frasso Telesino. La forza pubblica si sentiva insufficiente ed inadeguata ad intervenire. Soltanto il 23 settembre i banditi si allontanarono da quella zona, con grande sollievo dei solopachesi, che avevano temuto da un momento all’altro una irruzione in paese. Il 21 settembre fu arrestato dalla Guardia Nazionale, in casa di un suo parente, Gabriele Forgione fu Bernardo, un solopachese, che era a capo di una comitiva locale di briganti e al quale erano attribuiti vari furti e ricatti di persone del nostro paese. In quello stesso giorno sopraggiunse in Solopaca un drappello di soldati piemontesi, i quali perlustravano la zona, per la distruzione appunto dei briganti. Essendo stati informati dell’arresto del Forgione, ne ordinarono la immediata fucilazione, che venne eseguita all’imbocco di Via Tazzi. In paese non ci fu alcun rimpianto, in quanto il masnadiere era molto noto per i suoi numerosi misfatti: i proprietari, per timore di essere sequestrati dalla sua comitiva, da tempo non erano usciti più fuori dall’abitato. Il 25 settembre 1861, provenienti da Cerreto Sannita, convennero a Solopaca 8 soldati piemontesi e due carabinieri, i quali erano accompagnati da 20 guardie nazionali del nostro paese, per portarsi nel pomeriggio a Vitulano, dove c’erano da operare degli arresti. All’indomani essi ritornarono tutti spaventati, perché sulla montagna di S. Mennato erano stati attaccati da un folto gruppo di briganti con armi da fuoco. Anzi c’era stato anche un fatto molto increscioso. Sotto la ripa di Formicola, due guardie nazionali Alessandro e Giovanni Tancredi, essendosi staccate dai compagni, furono da lontano prese per briganti e quindi bersagliate con fucilate dai soldati piemontesi. Una delle due, sguainata la sciabola, per farsi conoscere, cominciò a gridare: “Viva Vittorio Emanuele! Viva l’Italia!” I piemontesi, accortisi dell’errore, cessarono di far fuoco. Grazie a Dio, negli scontri nessuno era rimasto ferito. Il 15 novembre, 18 briganti, scendendo per la fontana della Sala e oltrepassando il ponte di ferro, si portarono alla masseria di Giuseppe Foschini, dove catturarono lui e il figliuolo, mentre stavano lavorando. Essendo stati ben legati, i due malcapitati furono condotti in contrada S. Maria delle Grotte, dove il padre fu lasciato libero, per provvedere al riscatto suo e di suo figlio. Dopo molti disagi e preoccupazioni, il poveretto riuscì a procurarsi 18 piastre. Portate a quei banditi, non furono ritenute sufficienti; i due riebbero la libertà soltanto quando invece consegnarono 150 ducati. Faceva parte della comitiva anche un solopachese, Giuseppe Cutillo, cx soldato borbonico, il quale, essendo stato catturato a causa dei continui disordini che procurava nella zona, mentre era scortato da due militi della Guardia Nazionale, Mennato Tancredi e Pasquale Di Carlo, nei pressi di Melizzano, per l’incuria delle due guardie che lo accompagnavano, era riuscito a scappare. Intanto il governo, allarmato per i gravi e continui disordini causati dal brigantaggio fra le popolazioni dei nostri paesi, invitava anche i cittadini a collaborare da vicino con le autorità, per l’estirpazione di quella piaga perniciosa. …….. L’impresa per la normalizzazione dell’ordine non era facile. Frequenti erano gli episodi di terrore e di violenza. Il 28 novembre, Giuseppe Tancredi di Luigi, di buon mattino, se ne andava alla sua masseria, in contrada Vagno; nell’entrare in cucina, si vide all’improvviso aggredito da tre uomini armati, capeggiati proprio da Giuseppe Cutillo, di cui si è parlato innanzi. Il povero sventurato fu legato e menato con loro in montagna, insieme con Salvatore Frascadore di Vincenzo. Il gruppetto fu incontrato da alcuni compaesani all’Acqua Morta. Arrivati al punto della montagna denominato “la Trinità”, il Tancredi venne fatto distendere a terra e, nonostante le preghiere e gli scongiuri, fu duramente bastonato. Quei forsennati addirittura volevano tagliargli un orecchio e mandarlo al padre. Non fu attuato tale proposito, perché i familiari del poveretto in breve tempo fecero pervenire ai fuorilegge una lauta cena. Al sopraggiungere della notte, essendo stati i banditi vinti dal sonno, il Tancredi se la svignò. All’indomani fu grande la loro sorpresa e quindi la loro stizza: fu lasciato libero anche Salvatore Frascadore, il quale, tutto ansante ed estenuato di forze, ritornò a casa, fra le lagrime di commozione dei suoi parenti. Il 6 dicembre 1861 passarono per Solopaca, per la strada nuova, il famoso capo brigante Filippo Tommaselli, assai noto a Pontelandolfo, ed altri due banditi, tutti ben legati, in mezzo agli uomini della Guardia Nazionale di Guardia Sanframondi, che venivano condotti alla fucilazione. Essi erano stati catturati a Caivano, in un modo inaspettato. I masnadieri, dopo aver mangiato, si trattenevano, travestiti, in un’osteria: nell’euforia del vino facevano discorsi di avventure, con parole alquanto sospette. Un carrettiere, che era presente, si accorse della poca onestà dei tre ed ebbe dubbi circa le loro condizioni di vita; raccomandò alla moglie dell’oste di tener d’occhio quei tre clienti ed uscì in paese per trovare qualche uomo della forza pubblica. In mancanza a Caivano della Guardia Nazionale, fu avvertito un sergente dell’esercito nazionale, il quale, con l’aiuto di gente armata di scuri e di roncole, si portò in osteria, mentre quei signori ancora tracannavano bicchieri di vino e discutevano animati. Avendo il militare richiesto ai tre se erano muniti di passaporto, essi risposero che col nuovo regno d’Italia non c’era più bisogno del lasciapassare e perciò ne erano sforniti. Il sergente soggiunse che, se così la pensavano, s’ingannavano; legatili, con l’aiuto di alcune persone presenti, li tradusse nella pretura della cittadina. Filippo Tommaselli alla domanda del giudice come si chiamasse, rispose che il suo nome era Angelo Tommaselli. Il magistrato, onde accertarsi di quanto era stato dichiarato, scrisse al giudice di Guardia Sanframondi, dove il pregiudicato era stato e risiedeva, per chiedere più particolari e precise informazioni su Angelo Tommaselli. Il pretore di Guardia restò sorpreso a tale richiesta, e perché Angelo Tommaselli si trovava in quei giorni in paese e perché la condotta di costui era stata sempre irreprensibile. Si comprese allora che si doveva trattare di tutt’altra persona che era capitata nelle mani della giustizia. Furono perciò inviate due persone notabili di Guardia, don Raffaele Pigna e don Luigi Assini, a Caivano, per meglio identificare la persona incriminata. I due guardiesi restarono oltremodo stupiti nel veder catturato il brigante più famigerato della zona, che era stato la causa principale dell’incendio dei paesi di Casalduni e di Pontelandolfo. Fra le tante stravaganze commesse, vestito da generale borbonico, il Tommaselli aveva ordinato un giorno a tutti gli abitanti di Pontelandolfo di stendere, allo spuntare del sole, tutti i loro vestiti lungo le strade, in modo da formare un unico tappeto, su cui egli doveva passare, per andare a cantare il Te Deum di ringraziamento al preteso ritorno da Roma del re Francesco II. A Solopaca la notizia di tale cattura fece molto rumore e ben presto interessò tutti gli abitanti. Il Tommaselli, giovane molto audace, era riuscito a mantenere, con i suoi uomini, in allarme l’intera provincia. Era stato appunto lui, con la sua banda, a bersagliare, dalla vetta di S. Mennato, la nostra Guardia Nazionale, che passava per quei pressi, per portarsi a Vitulano. Aveva 26 o 27 anni di età; era biondo e di simpatico aspetto. I suoi compagni arrestati furono Bartolomeo Di Crosta da Cerreto Sannita, che, insieme con altri briganti, aveva trucidato don Annibale Piccirillo da Guardia, e un tal Pasquale Meoli da Casalduni. Il primo dicembre 1861 Angelo Napolitano, essendo andato per legna alla montagna, giunto al luogo denominato “Piano del Melo”, che coincide con la piccola valle che divide la montagna di S. Maria del Roseto da “la Palombella”, si incontrò col brigante Giuseppe Cutillo, il quale gli tirò un colpo di fucile, ammazzandolo, forse per qualche parola ingiuriosa all’indirizzo del malvivente. Il 14 gennaio 1862, giorno di martedì, una quarantina di briganti, verso sera, invasero la taverna di Francesco Di Massa; dopo aver depredato ogni cosa, catturarono il figliuolo Pasquale, insieme con alcuni carrettieri che erano di passaggio, trascinandoli sulla montagna, precisamente a “Vallone d’Utri”, dove era caduta una grande quantità di neve. Stettero quivi accampati per due giorni. Dopo aver in seguito ricevuto un tomolo e mezzo di pane dal proprietario della taverna, liberarono il figliuolo Pasquale, trattenendo con loro soltanto i carrettieri. In paese tutti dicevano che una spia aveva guidato i briganti alla rapina; appunto nella serata della loro irruzione, erano infatti giunti all’osteria due ricchissimi carrettieri di Miano, dai quali i banditi avevano preteso una forte somma di denaro. I solopachesi, dopo questi fatti, si erano rinchiusi in casa, come in prigione; solo pochi avevano l’ardire di camminare per le strade pubbliche. Il 21 luglio, per tre giorni, numerosi briganti si trattennero nei pressi del santuario della Madonna Del Roseto; altro non facevano che mangiare e divertirsi. Otto di loro il giorno 24 dello stesso mese scesero, intimorendo la gente, fra le prime case di Capriglia, dove restarono, per tutto il giorno, mangiando e bevendo. Solo a tarda notte fecero ritorno in montagna, sparando a salve e gridando: “Viva Francesco II”. Nei primi di agosto, dai Piani calarono a S. Maria del Roseto, in cerca di briganti, circa 200 soldati, i quali, sospettando che i banditi si trovassero all’interno dell’eremo, spararono numerosi colpi di fucile contro le mura e le finestre; dopo avere scalato le mura, con le armi spianate, penetrarono nell’interno. Dentro però non trovarono uomini, ma molta roba da mangiare: maccheroni, salame, carne verdura, ecc.. Intorno ai tavoli erano disposte numerose sedie. Intanto a Solopaca furono avvertite le nutrite scariche di fucili, provenienti dal santuario; tutto il paese fu messo in allarme. Molti soldati, che ivi si trovavano di passaggio da Caiazzo per Vitulano, si incamminarono senz’altro per la strada di S. Maria; essendosi però incontrati con gli altri militari, che discendevano dal monte, tutti insieme se ne tornarono indietro. Giunti nell’abitato, i briganti ricomparvero nuovamente sul monte del Roseto, sparando alcuni colpi, in segno dì sfida ai soldati. Questi corsero di nuovo verso il monte Palombella, ma senza alcun esito. I banditi si erano completamente dileguati. In tutte queste vicende, a favorire la presenza dei briganti sulle nostre montagne, non furono estranee le donne di Capriglia che, per motivi di lucro, procuravano loro vino, pane, maccheroni, capi di biancheria ed altri generi dì prima necessità. Un gruppo di questi malviventi, alcuni giorni dopo, andò a porsi in agguato poco lungi dal Casale di S. Salvatore Telesino, per catturare il ricchissimo don Salvatore Pacelli. Mentre costui si recava in carrozza alla sua tenuta di Torre di Marafi, fu bloccato all’improvviso dai briganti. Lo sventurato si difese coraggiosamente, e, scansando con destrezza i colpi di fucile che gli tiravano, riuscì a svignarsela e ad allontanarsi con la sua carrozza. Fallito questo colpo, la comitiva si diresse verso la montagna. Essendosi, lungo il cammino, fermata alla “Taverna delle Starze” per bere del vino, seppe che erano per passare di lì due figli del sig. Brizio, da S. Lorenzo Maggiore. Essi venivano dal loro casino, bene armati, su due cavalli, e, prima di ritirarsi in paese, sarebbero venuti alla taverna. I briganti, avendo risoluto di catturarli, si disposero presso l’osteria. I due giovani, giunti in quel luogo, si videro all’improvviso spianati contro di loro una ventina di fucili, a corta distanza. Dietro intimazione di fermarsi e di scendere da cavallo, essi subito smontarono; dopo di essere stati completamente disarmati e legati, furono menati sulla nostra montagna, attraverso il fiume, presso la contrada “la Volla”. Il giorno seguente furono visti altri briganti portarsi, a tarda sera, a S. Lorenzo Maggiore. Venivano da Paupisi e da Cerreto ed erano agli ordini del capobanda Cosimo Giordano. Per la strada, s’imbatterono in don Pasquale Melchiorre, ricco proprietario del luogo. Appena lo scorsero, lo aggredirono e, con l’aiuto di altri compagni che erano rimasti appostati, lo trascinarono via, senza che i paesani, tutti atterriti, avessero potuto opporsi. Lungo il cammino fu catturato un altro galantuomo, appartenente alla famiglia Cinquegrani, anche di S. Lorenzo Maggiore. I due, attraverso la contrada S. Stefano, furono condotti con la forza in montagna, precisamente in località “Sette Sierre”. Quivi si trovavano anche i figliuoli del sig. Brizio, arrestati il giorno precedente. I briganti, come riscatto dei due Brizio e di Cinquegrani, mandarono a chiedere alle famiglie 6.000 ducati, mentre per il solo Melchiorre domandarono 4.000 ducati Per i primi tre ebbero soltanto 1.000 ducati, alcune armi e diverse vettovaglie. Per Melchiorre invece non fu raggiunto alcun accordo, in quanto i malandrini fecero comprendere che avevano intenzione di vendicarsi di alcune antiche offese. Continuarono perciò a trattenerlo per altri cinque giorni; nonostante avessero ricevuto una somma superiore a quella già richiesta di 4.000 ducati, il 25 agosto lo ammazzarono e subito dopo lo bruciarono. Per spiegare un così barbaro e spietato trattamento, “chercbez la femme”; in tal modo Cosimo Giordano intendeva vendicarsi della violenza che la “sua ragazza cerretese” aveva subito dal Melchiorre, nel pagliaio, nei pressi di valle Marina. Alla notizia di questi disumani ricatti, il governo provvide a mandare una truppa di militari piemontesi a Solopaca; i soldati però, anziché mettersi alla ricerca e alla caccia dei briganti, si mantennero nella pianura, scorrazzando e bivaccando lungo le campagne. I pochi soldati che si erano portati in montagna, alla vista dei briganti, si astennero dall’attaccarli, facendo tranquillamente ritorno in paese. Dopo qualche giorno tutta la truppa andò via. In quello stesso mese di luglio, una comitiva di briganti sorprese Giuseppe Leone fu Antonio, contadino di Solopaca, mentre stava nel suo fondo: il poveretto con minacce fu condotto sulla nostra montagna e fu lasciato in libertà solo dopo 24 ore e previo il versamento da parte della famiglia di 1200 ducati e di numerose vettovaglie. Gli stessi malviventi ricattarono poi il figlio di Raffaele Onorato, anche contadino di Solopaca: gli recisero un orecchio e lo liberarono dopo aver ricevuto una forte somma di denaro. Così, verso la metà di settembre del 1862, fu sequestrato pure don Antonio Zotti, figliuolo di don Vito Zotti, mentre stava nella sua campagna, al di là del ponte Maria Cristina; a forza venne trascinato sulla nostra montagna, dove restò per oltre due giorni. Per il suo riscatto furono chiesti 3000 ducati. La famiglia poté riabbracciare il figlio, finalmente liberato, dopo aver fatto tenere ai banditi 2500 ducati, armi e copiosi commestibili. Tutti questi fatti impressionavano enormemente le nostre popolazioni e le tenevano continuamente atterrite; esse non si ritenevano più sicure e tranquille. Il governo piemontese volle intervenire con mezzi drastici e tempestivi; per eliminare la tremenda piaga del brigantaggio, in una sola notte, fece imprigionare a Solopaca oltre sessanta persone, fra parenti e complici dei briganti. Tutte le prigioni della provincia rigurgitavano di uomini e di donne; essendosi imprigionate intere famiglie, che potevano essere liberate soltanto se si costituivano i briganti loro congiunti, dopo sette giorni dalle disposizioni emanate ed attuate, si era presentato un solo pregiudicato. Nella stessa retata delle persone sospette fu incluso anche il sac. don Filippo Cutillo: tutti però restarono sorpresi e attribuirono il provvedimento ad avventate calunnie a suo carico. In tutte le province del meridione il governo, onde tutelare la salute e gli interessi dei cittadini, in data 26 settembre 1862, con regolare ordinanza, dispose che tutti gli abitanti delle campagne sloggiassero dalle loro case, insieme con gli animali, e si ritirassero nei centri abitati. Anzi, fin dall’anno precedente, perché i briganti venissero maggiormente messi in difficoltà, aveva ordinato che fossero distrutti tutti i pagliai che si trovavano nelle zone rurali. La situazione era molto grave. I fatti di sangue non cessavano e si succedevano spaventosamente, i reati contro le proprietà non si contavano più, i pacifici cittadini, per non esporsi al bersaglio dei fuorilegge, non uscivano più di casa. Le amministrazioni comunali vivevano in un torpore incredibile e, per non crearsi delle animosità, fingevano dì non avere né occhi per vedere e né orecchie per sentire. Tutto si lasciava in balia della malavita, perché tutti la temevano. La sera del 28 settembre si presentarono al sindaco di Solopaca due briganti del luogo, Domenico Frascadore e il figliuolo di don Pasquale Sasso, per farsi mettere in carcere. Anche a Cerreto si costituirono alla forza pubblica cinque pregiudicati di quella zona. Al principio del 1863 il governo però fu costretto a prendere nuove misure repressive; il luogotenente Ponza di S. Martino e il generale Durando ebbero l’ordine di perlustrare, con forti reparti dì militari, tutte le contrade frequentate dai briganti. Ciò nonostante, gli assassinii, i ricatti e gli incendi aumentavano ed i briganti continuavano ad agire con coraggio e spietata ferocia. I contadini avevano abbandonato le campagne, le quali erano continuamente devastate dai briganti. La fame era entrata inesorabile in molte famiglie. All’imbrunire non si vedevano più cittadini camminare per le vie del paese. Il commercio era paralizzato e dovunque si notavano segni di devastazione. Per venire incontro alle necessità dei sinistrati dal brigantaggio, il Ministero dell’Interno ordinò, per costoro, di fare addirittura delle collette. ……. Il primo novembre 1863, a circa un’ora di notte, giunse notizia alle autorità di Solopaca che dal fondo del lago a secco, detto de “la Sommaria”, proveniva una voce d’uomo che invocava aiuto. Accorsero subito in questa località il sindaco, l’assessore anziano, il capitano della Guardia Nazionale e un ufficiale della truppa piemontese, che stanziava in paese, per contrastare le continue molestie dei briganti. Nella voragine, che ha la profondità di 50 palmi, fu ritrovato un sergente piemontese, il quale venne estratto, mediante due lunghe scale, aggiunte insieme. Il poveretto presentava sul corpo tre ferite di pugnale, ma non mortali, e da undici giorni giaceva in fondo a quel baratro, alimentandosi per tutto quel tempo di sola acqua, che, in poca quantità, ancora si trovava nel lago. Appena si fu rimesso, riferì che giorni innanzi, mentre con altri soldati saliva la montagna, nel versante presso il Casone di Santo Stefano, essendo rimasto dietro agli altri per un atto naturale, all’improvviso si vide aggredito da sei briganti; fu disarmato e ben legato, e, appena si furono allontanati i compagni, senza che si accorgessero dell’accaduto, fu condotto presso il lago sunnominato e, a colpi di pugnale, fu spinto nel vuoto. Il sergente raccontò di non ricordarsi come fosse precipitato e avesse raggiunto il fondo del precipizio; si risvegliò soltanto la mattina seguente e si accorse di trovarsi in quel fosso, donde gli era stato difficile uscire. Le nostre autorità e quanti vennero a conoscenza del fatto non seppero spiegarsi come il sergente, cadendo da quell’altezza, fosse potuto rimanere incolume e vivere senza cibo in quella caverna, per tanti giorni. Il sergente in tanto venne ritrovato, in quanto un ragazzo, che teneva in quei paraggi a pascolo una capra, faceva del rumore e alzava la voce per richiamare la bestiola. Poiché il militare aveva avvertito la presenza del pastorello, gridò con tutto il fiato dal basso, implorando aiuto. Il pastorello, sbigottito dalle grida provenienti da quella voragine, corse subito ad informare dell’accaduto il fratello maggiore. Questi si portò immediatamente presso la zona del lago e, constatata la penosa condizione del poveretto in fondo al precipizio, si affrettò a venire in Solopaca e ad avvertire le autorità locali, le quali immediatamente accorsero sul luogo indicato. Appena il disgraziato, dopo non lievi difficoltà incontrate da alcuni ardimentosi, che si calarono nel profondo dell’abisso, fu riportato in salvo, fu trasportato in paese, dove ebbe tutte le cure del caso. Rimessosi completamente in salute, ritornò poi in Napoli, al reggimento cui apparteneva. In quel turbinoso periodo è rimasta tristemente famosa la figura di Cosimo Giordano, ex soldato borbonico e violento bandito, le cui scellerate vicende ebbero come teatro non solo la nostra regione, ma per diverso tempo anche Roma e l’estero. Nella nostra zona perpetrò numerosi misfatti, specialmente sulle montagne di Guardia Sanframondi, Cerreto, Cusano Mutri, Pietraroia, Morcone e sul massiccio del Matese. Fu di passaggio anche nel territorio di Solopaca, dove spesse volte fu visto, con i suoi compagni, presso il “Saucolo”, le “Cercarelle”, “S. Stefano”, sulle rive del Calore, ecc.. …. Le sue numerose imprese, spesso avvolte dalla leggenda e alterate dalla fantasia popolare, specie in questi ultimi tempi, hanno interessato molti cultori di storia patria.