Aldo De Jaco – Distruzione di Casalduni e Pontelandolfo

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TRATTO DAL LIBRO “IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE ” cronaca inedita dell’unità d’Italia a cura di Aldo De Jaco-roma-1979

Da pag.161 A 193

11 agosto 1861 – Distruzione di Casalduni e Pontelandolfo

Il tenente Negri scrive al padre

Lettera di Gaetano Negri tenente della 5^ compagnia del 6° reggimento al padre (Gaetano Negri, milanese, fu scrittore e uomo politico moderato. Sindaco di Milano dal 1884 al 1889, fu deputato e poi senatore alla fine del secolo. Da giovane aveva partecipato alla guerra del brigantaggio, restando anche ferito e meritandosi una medaglia d’argento. Sue lettere di questo periodo sono contenute in Gaetano Negri alla caccia dei briganti di Michele Scherillo.)

Napoli, agosto 1861.

Carissimo papà,
… le notizie dalle provincie continuano a non essere molto liete. Probabilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo.

Gli abitanti di questo villaggio commisero il piú nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni i cui abitanti si erano riuniti a quelli di Pontelandolfo. Sembra che gli aizzatori dell’insurrezione di questi due paesi fossero i preti, in tutte le provincie, e specialmente nei villaggi della montagna, i preti ci odiano a morte, e, abusando infamemente della loro posizione, spingono gli abitanti al brigantaggio e alla rivolta. Se invece dei briganti che, per la massima parte, son mossi dalla miseria e dalla superstizione, si fucilassero tutti i curati (del Napoletano, ben inteso!), il castigo sarebbe piu giustamente inflitto e i risultati piú sicuri e piú pronti…
Alle fiamme Casalduni deserta

… con un battaglione della Guardia Nazionale e due cannoni eravamo di guardia al palazzo reale(Racconta l’ufficiale dei bersaglieri Carlo Melegari, autore del volumetto dei ricordi per altro apparso anonimo).
Persuaso che nulla poteva accadere di importante, alla sera mi recai all’adiacente teatro S. Carlo, prevenendo il capitano piú anziano che, in caso di bisogno, mi avesse fatto chiamare.
Ammiravo la splendita e grandiosa sala, i dorati palchetti guarniti di belle ed eleganti signore, e mi compiacevo di poter assistere ad un magnifico spettacolo, come se ne soleva rappresentare in questo grande teatro; la numerosa e buona orchestra cominciava ad accordare gli strumenti, quando, volgendo lo sguardo al fondo della platea, vidi un tenente del battaglione che, alzando la destra, indicava volere parlarmi.
Lasciata la poltrona, l’incontrai nel vestibolo: « il generale Cialdini, mi disse, la vuole subito al Comando».
Accorsi e trovai invece il generale Piola-Caselli, che, un poco contrariato per il mio ritardo, mi ricevé con queste parole: « Ella avrà senza dubbio udito parlare del doloroso e infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; orbene il generale Cialdini non ordina, ma desidera che di quei due paesi non rimanga piú pietra sopra pietra. Avverta che a Maddaloni vi è un partito che s’agita per insorgere, che a San Lupo il comandante la Guardia Nazionale, essendo proprietario di cave nei dintorni ed impresario di un ponte, ha molto interesse a mantenere l’ordine in quei luoghi; ella potrà avere informazioni dal medesimo, però non se ne fidi troppo. Ella è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo, e non dimentichi che il generale desidera che siano vendicati quei poveri soldati, infliggendo la piú severa punizione a quei due paesi. Ha ella ben capito? ».
« Generale – risposi io – so benissimo come si devono interpretare i desideri del generale Cialdini: ho fatto la campagna della Crimea e quella del 1859 sotto i suoi ordini, e so per prova come egli sia uso a comandare e ad essere ubbidito »; ciò detto mi accomiatai e ritornai al teatro ove potei ancora godere dei due atti degli Ugonotti e del grande ballo I bianchi e i neri…

Spuntava appena il giorno che il battaglione si trovava schierato di fronte a Casalduni. Immantinenti ordinai di circondare il paese, posto in basso, e di aprire il fuoco di fila fino al mio segnale di cessat-il-fuoc; quindi di entrare, baionetta in canna, di corsa, compagnia per compagnia per i diversi sbocchi, onde concentrarsi sulla piazza del paese vicino alla chiesa.
Le campane suonavano tristemente a storno, pochi colpi di fucile partivano dai campanili e dai terrazzi. Dato il segnale di cessar-il-fuoc e di carica alla baionetta, le quattro compagnie irrompevano nel paese senza incontrar resistenza alcuna.
Fui sorpreso di trovare le vie deserte ed un silenzio sepolcrale nelle case. I briganti e gli abitanti, avvertiti dell’avvicinarsi dei bersaglieri, s’erano rifugiati sulla cresta di un monte distante qualche chilometro dal paese. Ordinai allora ad una compagnia di prendere posizione di fronte a quel monte, che brulicava di gente, e di far fuoco appena qualcuno avesse accennato di scendere verso di noi; in pari tempo mandai avviso al colonnello [della Guardia Nazionale] di entrare in paese con i suoi militi che poi, ben contati, non erano piú di 40!
Era giunto finalmente il momento di vendicare i nostri compagni d’armi, era giunto ormai il momento del tremendo castigo. Chiamati a me gli ufficiali delle tre compagnie che si trovavano riunite sulla piazza, ove s’ergeva anche la casa del Sindaco, ordinai loro di fare atterrare le porte e di appiccare il fuoco alle case, a incominciare da quella del Sindaco.
In breve dense nubi di fumo s’elevavano al cielo e l’incendio divampava in diverse parti del paese..
Nella casa del Sindaco già le fiamme, irrompendo dai vani del piano terreno, a guisa di serpenti s’allungavano ed invadevano il piano superiore. Alcuni bersaglieri, udendo strepiti e nitriti, entrati nella scuderia ne tiravano fuori due cavalli furiosi dallo spavento; altri, saliti al primo piano, buttavan giú dalle finestre bandiere borboniche, uniformi, razioni di pane, armi, e fra queste i fucili con le cinghie bianche insanguinate appartenenti ai poveri soldati sopraffatti a tradimento e trucidati barbaramente.

A tal vista sentii affluirmi il sangue alla testa dalla collera, e mi parve tenue il castigo inflitto a questa turba crudelmente sanguinaria; tuttavia essendo dopo poco venuto a me il colonnello ed avendomi fatto osservare pietosamente che non tutti erano colpevoli, che in paese vi era pure qualche buon italiano, lo invitai a mettere un milite dei suoi in fazione a quelle abitazioni che dovevano essere risparmiate dai bersaglieri, ai quali avrei dato ordini in proposito. L’incendio continuava l’opera sua di distruzione e da una casa si propagava facilmente all’altra, quando il capitano della 2.a compagnia mi presentò un vecchio simpatico in volto, civilmente vestito, che, scovato dai bersaglieri in casa sua con due vecchie donne, aveva pregato, insistito per parlare col Maggiore.
Lo ricevei in sulle prime bruscamente, quindi gli ingiunsi di parlare; allora egli, pallido, tremante, cominciò cosí: « Maggiore, il castigo che voi infliggete a questo digraziato paese è meritato, è giusto; ma permettete che io vi dica che non tutti noi siamo responsabili del fatto esecrando, e per provarvi la verità di quanto io vi dico, è necessario che voi sappiate come il Sindaco ed il parroco, avversi all’unità d’Italia e partigiani del governo borbonico, abbiano coltivato e fomentato sempre negli abitanti lo spirito di ribellione contro il Governo Piemontese ( ? ). Per quanto io mi adoperassi per distoglierli dai loro ambiziosi ed insensati progetti, per quanto li consigliassi a rispettare la volontà della Nazione, essi non solo non mi davano ascolto, ma mi trattavano anche malamente qual vecchio rimbambito.
« Ai miei compaesani si dava ad intendere che presto il Re di Napoli, alla testa di 30.000 uomini, sarebbe sceso da Roma per conquistare il suo regno. Piú di 400 briganti invasero il nostro territorio e furono i benvenuti in Casalduni e Pontelandolfo.
Il distaccamento, composto solo di 45 soldati e due ufficiali, doveva fatalmente subire, le conseguenze d’una ribellione. Raccapriccio al solo pensiero di quel giorno nefando, per cui m’astengo dal parlarne… ».
« No, – dissi io, – voglio conoscere il fatto in tutti i suoi dettagli: continuate… ».
« Voi lo volete – riprese – ebbene io vi obbedirò; ma notate che, non essendo io presente alla rivolta, potrei incorrere in qualche inesattezza; ciò che però non credo, giacché in paese non si parlava d’altro e lo udii raccontare più di una, volta. I due ufficiali, vista l’impossibilità di mantenere l’ordine e di resistere alla imminente sommossa, avevano la sera del 10 [agosto], d’accordo, stabilito di partire l’indomani all’alba per prendere una posizione piú elevata fra Casalduni e Pontelandolfo, ove avrebbero potuto opporre una maggiore resistenza.
« Le precauzioni prese per tenere segreta la partenza non bastarono: la si venne a sapere in paese e ne fu avvertito Pontelandolfo; allora dai due partiti si combinò le cose in modo che, giunto il distaccamento a metà cammino, i briganti e gli insorti di Casalduni l’avessero assalito alle spalle, mentre quelli di Pontelandolfo gli sarebbero piombati addosso di fronte. Cosí sventuratamente avvenne. I soldati, circondati da migliaia di forsennati, opposero bensí una disperata difesa, ma sopraffatti, sfiniti, caddero in mano d’una turba selvaggia e sanguinaria che, non sazia di trucidarli, commetteva su di loro, fra i più atroci tormenti, le piú oscene sevizie. I due ufficiali, legati nudi agli alberi, costretti prime ad assistere all’eccidio dei loro soldati, venivano poi torturati in tutti i modi: le donne, furibonde, conficcavano loro ferri negli occhi, e tutte le membra del corpo erano barbaramente flagellate e mozzate. Ad un sergente solo fu risparmiata la vita dai briganti, imponendogli il giuramento che egli avrebbe combattuto con loro per la santa causa, e quest’infelice deve ora trovarsi chiuso nella torre di Pontelandolfo.
« Imbaldanzito il partito borbonico dal trionfo proclamò il Governo provvisorio issando la bandiera borbonica.
« Ed ora che siete informato di tutto fatemi fucilare, siete nei vostrii diritti, ho piú di 80 anni, morire un anno prima, morire un anno dopo non è grande sventura, ma vi prego, vi scongiuro in nome di Dio, in nome di quanto avete di piú caro al mondo, perdonate alle mie due sorelle, esse sono innocenti, ve lo giura questo povero vecchio, che con un piede nella fossa non può mentire ».
A questo punto commosso l’interrogai così: « Credete voi che basti il castigo inflitto ai Casaldunesi? Come voi vedete vi sono ancora non pochi fabbricati intatti, solo pochi individui, che dopo aver fatto fuoco contro di noi tentavano fuggire, furono colpiti a morte dai bersaglieri; gli insorti che hanno assistito da lontano all’incendio, appena noi saremo partiti, ritorneranno senza dubbio in paese, credete voi che possano commettere ancora qualche disordine? ».
« No, – mi rispose, – ne sono sicuro. Il Sindaco, il parroco, ed altri piú compromessi informati del vostro arrivo fuggirono di nottetempo, ed a quest’ora sono a Roma a far valere i loro meriti. Quando i miei compaesani ritorneranno, son persuaso che saranno ben pentiti di quello che hanno fatto, e se voi mi fate grazia della vita, essi ascolteranno, ne sono certo, la mia voce, ed i miei consigli ».
Chiamati a me due militi, dissi allora al povero vecchio: « Ritornate presso le vostre sorelle, di guardia alla vostra casa mettete questi due individui, e state tranquillo che non correte più pericolo alcuno ».
Fu tale l’emozione da lui provata a queste mie parole, che non poté proferire motto per ringraziarmi, s’inchinò colle lagrime agli occhi in atto di baciarmi la mano, lo rialzai e lo mandai con Dio.

Era tempo d’agire su Pontelandolfo. Dato il segnale della raccolta disponevo il battaglione a muovere a quella volta, quando vidi col binocolo due compagnie di bersaglieri ed altra truppa comandata da un ufficiale a cavallo schierarsi sulle alture sovrastanti al paese.
Mi premeva conoscere quale incarico avessero queste ricevuto; offrii il mio cavallo al tenente Mancini, che parti, revolver alla mano, di carriera;- di ritorno mi riferí che il colonnello Negri comandante quella truppa aveva dal Gran Comando ricevuto l’ordine di fare su Pontelandolfo quanto io avrei fatto su Casalduni. Pensai allora che il generale Cialdini giudicato che la forza di un battaglione era scarsa per affrontare e sottomettere i due paesi, aveva disposto per l’invio di quella colonna mobile sul luogo d’azione.
Presi perciò posizione in modo da poter, in caso di bisogno, accorrere di rinforzo al colonnello, e poco dopo colonne di fumo annunziavano che anche per Pontelandolfo era cominciato il meritato castigo,nel mentre che alcuni bersaglieri accorsi alle grida che partivano dalla torre avevano liberato il povero sergente.
Compiuta ormai la mia missione, date le volute disposizioni per ritornare e pernottare a San Lupo, salii in carrozza col colonnello della Guardia Nazionale che strada facendo invitò me e gli ufficiali a pranzo a casa sua…
Fatto venire un caporale svelto in presenza di tutti gli parlai cosí: « bevete questo bicchiere di vino alla salute del colonnello, salite colla vostra quadriglia nella carrozza che troverete giú nel portone andate a Casalduni, fate un giro per le vie a piedi, osservate cosa fanno gli abitanti, e venite a farmene rapporto, andate, noi vi aspettiamo qui ».
Prima di notte il caporale era di ritorno e riferiva, che gli abitanti scesi in parte in paese erano intenti a spegnere l’incendio, che quelli che aveva incontrati per le vie, e sulle botteghe al suo passaggio, s’inchinavano e salutavano rispettosamente, e che risalito in carrozza trovò sparse su per i cuscini molte carte, che mi consegnò.
Queste, in forma di suppliche, erano piú o meno dello stesso tenore. Si domandava perdono, si inginocchiava ai piedi di Vittorio Emanuele, si giurava per l’avvenire fedeltà ed ubbidienza al Re d’Italia. Riconobbi da queste espressioni la parola e l’influenza del povero vecchio scampato per avventura alla morte.

Un deputato in Pontelandolfo distrutta

… Nel turbinio degli avvenimenti le nuove si ingrandiscono, le morti si moltiplicano nelle immaginazioni del volgo, il terrore prende mille forme, il silenzio paralizza la lingua del cittadino che, reclamando, teme di essere sospetto, e la confusione giunge a tal punto che io a Napoli non poteva sapere come Pontelandolfo, una città di 5.000 abitanti, fosse stata trattata.
Io ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare un fatto cogli occhi miei. Ma io non potrà mai esprimere i sentimenti che mi agitarono in presenza di quella città incendiata.
Mi avanzo con pochi amici, e non vedo alcuno; pochi paesani ci guardano incerti; sopravviene il sindaco; sorprendiamo qualche abitante incatenato alla sua casa rovinata dall’amore della terra, e ci inoltriamo in mezzo a vie abbandonate.
A destra, a sinistra, le mura erano vuote e annerite, si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e la fiamma aveva divorato il tetto; dalle finestre vedovasi il cielo. Qua e là incontravasi un mucchio di sassi crollati; poi mi fu vietato il progredire; gli edilizi puntellati minacciavano di cadere ad ogni istante. Ricevetti ospitalità in una delle tre case risparmiate per ordine superiore; ma in faccia sorgeva la casa o quasi il palazzo Gugliotti incendiato, rovinato. Tutto un museo di abiti e di medaglie antiche era scomparso nelle fiamme, tutte le gioie erano perdute nelle macerie. Chi può dire i dolori di quella città! E quando volli vedere piú addentro lo spettacolo celato delle afflizioni domestiche, mi trassero dinanzi il signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto nella persona, nobile il volto; ma gli occhi semispenti lo rivelavano colpito da calamità superiore ad ogni umana consolazione. Appena osai mormorare che non cosí si intendeva da noi la libertà italiana. Nulla io chiedo, disse egli, ed ammutimmo tutti. Aveva due figli, l’uno avvocato, l’altro negoziante, ed entrambi avevano vagheggiato da lontano la libertà del Piemonte, ed all’udire che approssimavansi i piemontesi, che cosí chiamasi nel paese la truppa italiani, correvano ad incontrarli. Mentre la truppa procede militarmente, i saccomanni la seguono, la straripano, l’oltrepassano, e i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi, dopo tolto il danaro, condannati ad istantanea fucilazione. L’uno di essi cade morto; l’altro viveva ancora con nove palle nel corpo; e un capitano gittavasi a ginocchio dinanzi ai fucilatoti per implorare pietà; ma il Dio della guerra non ascoltava parole umane e l’infelice periva sotto il decimo colpo tirato alla baionetta. Rinaldi possedeva due case, e l’una di esse spariva fra le fiamme, e appena gli uffiziali potevano spegnere l’incendio che divorava l’altra casa. Rinaldi possedeva altre ricchezze, e gli erano rapite; aveva altro… e qui devo tacermi, come tacevano davanti a lui tutti i suoi conterranei.

Quante scene d’orrore! Qui due vecchie periscono nell’incendio; là alcuni sono fucilati, giustamente, se volete, ma sono fucilati; gli orecchini sono strappati alle donne; i saccomanni frugano ogni angolo; il generale, l’uffiziale non possono essere dappertutto: si è in mezzo alle fiamme, si sente la voce terribile: piastre! piastre! e da lontano si vede l’incendio di Casalduni, come se l’orizzonte dell’esterminazione non dovesse avere limite alcuno.
« Mai non dimenticherò il 14 agosto », mi diceva un garibaldino di Pontelandolfo: Sul limitare di una delle tre case eccettuate dall’incendio, egli gridava ai villici di accorrere, li nascondeva nelle cantine, e mentre si affannava per sottrarre i conterranei alla morte, vacillante, insanguinata, una fanciulla si trascinava da lui, fucilata nella spalla, perché aveva voluto salvare l’onore, e quando si vedeva sicura, cadeva per terra e vi rimaneva per sempre.
Intendo la vostra voce, l’inesorabile voce di tutti i burocrati italiani, non si poteva fare diversamente. Ma in che aveva Pontelandolfo fallito? Ve lo dirò io: Pontelandolfo ha il torto di essere fieramente atteggiato su di un monte in mezzo ai monti, in mezzo alla catena del Matese, d’onde ai trabalzi si va dallo stato romano fino a Cancello, a un’ora da Napoli. Da Pontelandolfo si scopre un’enorme estensione di terreno ondeggiante, e quasi danzante, e nessun milite, nessuna pattuglia potrebbe avvicinarglisi senza essere scoperta a piú miglia di distanza. Indovinate l’importanza di questo posto per i briganti, se potevano accamparvisi, se potevano concentrarvisi, i briganti e la mala gente di Morcone, Fregnatello, Campolattaro, essi potevano spargere il terrore fino nei dintorni di Napoli, e diffatti appena si udí che Pontelandolfo era da essi invasa, il terrore nei dintorni fu tale che fino a Solopaca le autorità inviarono le donne e i fanciulli a Napoli, raccogliendo ogni arma per resistere.
Ma il sacrificio di Pontelandolfo ha forse distrutto i briganti? Il 1° novembre io non potei avviarmi a quella volta senza ricevere molti consigli di prudenza ed anzi un vero biasimo sul mio progetto. Quando giunsi a Maddaloni, e mi presentai al Comandante per chiedergli due o tre uomini, per avere un’apparenza di difesa, mi rispose: non potermi dar meno di venti uomini, se no i briganti ci fucilerebbero; gli ordini di Napoli erano precisi. Ben presto congedai tanta scorta; ma quandoo a sera, di ritorno da Pontelandolfo, scherzava con gli amici sui nostri innocui revolvers, il vetturino ci disse sorridendo: ecco gli amici, e vedemmo il fuoco dei briganti che si ristoravano nella grotta di Santa Maria, d’onde erano visti da tutto il paese in giro a tre leghe di distanza, e dove nessuno pensava alla possibilità di assalirli.
Dopo questo fatto, o signori, io non vi parlerò di nessun altro, né di Cotronei, né di Gioia, né di nessun’altra città, poiché io troppo rispetto il vostro dolore, e troppo ne sono io partecipe…

(dal discorse dell’on. Ferrari nella seduta parlamentare alla Camera del 2 dicembre 1861)

Giuseppe Ferrari, avvocato milanese per lungo tempo esule in Francia, fu filosofo e uomo politico. Le sue concezioni lo portavano a battersi per un futuro federalista e repubblicano del paese; fu dunque in parlamento all’opposizione, su posizioni radicali. Ebbe molta influenza per la serietà del suo impegno e la grande cultura. Le sue concezioni erano di origine vichiana e si incentravano sulla concezione della storia come storia delle rivoluzioni.
Le mani della giustizia su cinquecentosettantanove briganti

Nel registro dei crimini istituito dal giudice Francesco Mazara il 27 novembre 1861 e conservato nell’archivio di Pretura di Pontelandolfo sono rubricate:
1) una « processura » contro 219 individui,quasi tutti di Pontelandolfo per a) banda armata col reo proponimento di distruggere l’attuale forma di governo, e di eccitare gli abitanti ad armarsi contro i poteri dello Stato, suscitando la guerra civile fra popolazione e popolazione; b) disarmo nel posto di guardia, nelle case di campagna e nell’abitato; c) oltraggio, violenza e distruzione delle venerate effigie del Re Vittorio Emanuele II e di Garibaldi, nonché delle diverse bandiere tricolori e stemmi dell’attuale Re; d) incendio degli archivi comunali e del giudicato regio; e) furti, col saccheggio del giudicato regio, del fondaco del sale, delle Case particolari, delle carrozze e traini di passaggio; f ) omicidio con prodizione e sevizie, qualificato per assassinio, in persona di Angelo Tedesco, Agostino Vitale, D. Michelangelo Perugini, Libero d’Occhio e col sequestro di quest’ultimo, e ferimento in persona di Pellegrino Petrocco, eremita di Sassinoro; g) incendio della casa del detto D. Michelangelo col cadavere di costui: reati perpetrati dal dí 7 fino al mattino del 14 agosto 1861.
Un secondo procedimento venne istruito contro ben 103 individui di Campolattaro per i moti reazionari deplorati in quel paese; il terzo procedimento, contro 105 individui di Casalduni, fra i quali il Sindaco Don Luigi Orsini e 34 di Ponte riguardo la reazione di Casalduni; il quarto procedimento infine si riferiva al massacro dei 43 soldati italiani al comando del tenente Bracci.
Vennero rubricati ben 118 individui dei quali soltanto 28 di Pontelandolfo; gli altri erano: 53 di Casalduni, 34 di Ponte, 2 di Morcone e 1 di Campolattaro.
Interrogatorio del capobrigante Cosimo Giordano

Addí 23 aprile 1883 interrogato in Benevento il capobrigante Cosimo Giordano(Nato a Cerreto Sannita, Cosimo Giordano combatté nel ’60 a Capua nelle file dell’esercito borbonico, venne poi a Napoli dove fu accusato di furto. Nel maggio del ’61 si diede alla latitanza e dopo due mesi partecipava ai fatti di Casalduni e Pontelandolfo. Continuò la sua vita brigantesca fino al ’65 quando si rifugiò a Roma per passare poi in Corsica e, nel ’70, in Francia. Tornò in Italia ne’ 1882 sotto falso nome e fu arrestato. Due anni dopo venivaa condannato ai lavori forzati a vita. Mori in carcere nel 1887.) risponde:

« Prima d’ogni cosa prego la vostra Giustizia d’inserire nel presente mio interrogatorio, che io protesto e ricorro per cassazione contro la Sentenza d’accusa notificatami con atto del 20 aprile volgente, come pure mi oppongo alla Sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d’Assise di Benevento nell’anno 1876 in mia contumacia ».
A domanda, risponde: « È vero che nei mesi di luglio e agosto 1861 io ho formato parte d’una banda armata in Pontelandolfo, scorazzando quelle contrade ».
A domanda, risponde: « E’ falso, poi, che io avessi avuto parte nell’omicidio in persona di Libero D’Occhio ».
Ad altra domanda, risponde:’ « Nel mese di agosto suddetto, siccome vi erano varie bande sparse sulle montagne vicine, varie di queste vollero sottoporsi al mio comando, ed io le ammisi sotto l’espressa condizione di dover sottostare alla disciplina militare, e non si dovevano commettere furti né assassinii, ma semplicemente difendersi ne’ casi in cui fossero stati attaccati ».
« Un giorno, mentre volevo discendere con la mia banda a San Lupo, ebbi un attacco con la Truppa, e dopo averla costretta d’indietreggiare, discesi in San Lupo, ove sostenni un altro combattimento con altra truppa, e di là mossi per Pontelandolfo con la mia banda di circa 150 individui, ed osservai con meraviglia che il paese andava in fiamme. Entrato ivi, fui accolto da quei Cittadini chiamandomi Comandante, e seppi allora che essendo venuto un dissenso tra’ Liberali ed i Borbonici, questi ultimi avevano posto a fuoco le case dei Liberali, pria che io entrassi. Questo fatto può essere accertato non solo da’ Cittadini, ma anche dall’Arciprete, che mi venne incontro, e che io invitai a cantare il Te Deum in Chiesa.
« In quanto al detto omicidio di Libero D’Occhio, aggiungo alla risposta di sopra, che ora è la prima volta che ne ho inteso parlare, perché nel tempo che io stetti a far da capobanda in quelle contrade, non ne intesi parlare… ».
Ad altra domanda, risponde: « In quanto poi ai reati commessi in Pontelandolfo da’ Borbonici, distruggendo gli Archivi Pubblici, derubando il procaccia ed il deposito delle privative, in questi reati io non vi presi parte, perché commessi prima che io fossi giunto. Voglio aggiungere che fui premurato altresí da’ Cittadini di Pietraroia, ed io mi ricusai per evitare che con tal pretesto si fossero commessi degli eccessi che si commisero in Pontelandolfo. Voglio anche fare questa dichiarazione, che io mi era dato in mcampagna non per commettere reati contro le persone e le proprietà, ma a solo oggetto di sostenere la Dinastia, sotto la quale avevo prestato giuramento; ed infatti discesi in Puglianello, e non feci che impadronirmi di tutte le armi, senz’altro commettere ».

Dichiarazione di Cosimo Giordano inviata dal carcere al Presidente della Corte d’Assise di Benevento il 23 aprile 1884

Ill.mo Signor Presidente,
il sottoscritto, nel momento dello esame, mi sono dimenticato di accennarli il caso strano della morte di quarantasei soldati, che furono trucidati in Pontelandolfo. Io le darò le spiegazioni di come fu successo il fatto.
Io mi trovava sulla Montagna di Morcone colla mia banda, quando le mie sentinelle mi chiamarono, dicendomi: « vediamo venire due a tutta corsa e facendo segni con le mani », e dicevano « venite »; ed io dissi a quei due: « cosa volete? ». Mi fu risposto: « sono arrivati quarantasei soldati al paese ». « E che cosa li avete fatto? ». « Li siamo ligati, e siamo venuti per sapere cosa volete fare ». Io ho risposto: « Andate subito, e ditegli da parte mia che non gli facciate nessun oltraggio, che io sarò subito appresso di voi ». Cosí partirono essi avanti e noi appresso, quando, arrivato a Pontelandolfo, domandò: « dove sono? ». Mi fu risposto che erano stati presi e portati in una grotta distante dal paese, e li hanno fucilati; ed io fu tanto dispiaciuto che li risposi: « Malvagi che site, perché avete fatta questa viltà a que’ poveri disgraziati, che quelli erano soldati che avevano preso il giuramento come noialtri, per cui devono servire il comando de’loro Superiori: ma è sicuro che un giorno vi pentirete di questo torto che avete fatto ad essi ed a me ». Ed io partii con la mia banda sulla montagna. Dopo qualche giorno fui chiamato che mi avessi portato in Pontelandolfo. Subito discesi con 250 della mia banda, e mi dissero che avevano avuto la spia che venivano 250 soldati da Solopaca. Io mi accampò al di fuori del paese presso le sentinelle, rimasto d’accordo, che quando venivano i soldati, di far suonare le campane all’arma, e casi sarebbero accorsi tutti quelli della Città e quelli della campagna. All’alba della mattina io feci battere la sveglia dalle mie trombe, perché subito scopriii quattro colonne di soldati, e subito capii che era la vendetta che facevano de’ quarantasei soldati, e io, per far pentire gli uccisori del macello fatto a quei poveri infilici, feci sparare qualche colpo, ma poi feci battere ritirata. I soldati entrarono e cominciarono a bruciare le case, ed io non volli piú saperne di quel paese. Poi dopo seppi che si facevano molti arresti di giorno e di notte, e li portavano a Cerreto Sannita, e che subito erano fucilati, e cosí pagavano la loro pena.
Riguardo al Procaccio che l’Ill.mo Signor Presidente mi parlò, non so se fosse quello della sera ch’io fui chiamato quando venivano i soldati da Solopaca in numero di cinquanta ( ? ): mi fecero vedere tre traini, carichi di sacchi di grano; tutta la popolazione diceva che era il Procaccio: io risposi di farli stare nella taverna, quando sarà al domani si vedrà, perché ora non è tempo. Cosí la mattina giunsero i soldati, e io non seppi piú nulla. Ecco le mie spiegazioni.
Il suo subordinato detenuto Cosimo Giordano.
Come il tribunale ricostruisce i fatti

Dalla sentenza della sezione di accusa della Corte di Appello di Napoli, 7 giugno 1864

…Nel Luglio ed Agosto del 1861 non ancor disillusi i proselitii della caduta Signoria de’ Borboni, e speranzosi d’un possibile ristabilimento di essa sul trono di Napoli, si agitavano operosamente sotto i validi impulsi de’ Comitati Borbonici di Roma, Malta e Marsiglia. Ebbe origine allora la trista guerra del brigantaggio che pur volgendo al suo termine, ancor non finisce di desolare queste belle contrade e di contaminarne per la seconda volta l’istoria. Sursero in armi molte bande raggranellandosi intorno a capi spesso idioti, scellerati quasi sempre, i soldati del disciolto esercito delle Due Sicilie, che ripugnavano di riprender le armi in servizio del novellamente costituito reame d’Italia.
Parecchie di esse scorrevano la nuova Provincia di Benevento, ed una avea fissato il suo quartier generale sui monti accosto a Pontelandolfo, e tenendovi relazioni e corrispondenze con taluni de’ cittadini aspettava propizia un’occasione per tentarvi un colpo di mano, impadronirsene e piantarvi la bandiera de’ Borboni, creando un governo provvisorio nel nome di Francesco II. Preparavano il terreno quei di dentro disponendo gli animi de’ creduli contadini e operai a far buona accoglienza ai sopravvegnenti, e spaurando con minacce la classe de’benestanti, sicché questi, dai quali soltanto potea venire opposizione, trafugandosi libero il campo lasciassero al folleggiare de’sediziosi.
L’Arciprete specialmente si occupava a formare in questo senso la pubblica opinione, discorrendone liberamente dalla cattedra, e ne’ privati ritrovi. Altri non meno influenti si adopravano a far ben forte di numero la banda, adescandovi con promesse quei che viveano di giornaliera mercede, e persuadendo specialmente i soldati sbandati dell’esistenza di un dovere che li chiamasse a riprender servizio in pro del caduto Borbone.
A dar maggiore aspetto d’importanza alla cosa, serviva pure ben la favola agevolmente propalata, e presto creduta, che a capi delle bande stessero il Principe Luigi di Borbone zio di Francesco II, e il Generale Bosco.
…Una corrispondenza attiva precedette fra le bande del Matese col clero, coi borbonici di Pontelandolfo, in modo che si conobbe dagli onesti e liberali l’avvicinarsi della discesa nel paese di quelle masse in armi per attaccare il potere del Governo costituito, e far man bassa su quelli ad esso affezionati, ed alla nazione Italiana, nonché a far saccheggio sulle loro proprietà. Cosicché non pochi galantuomini fuggirono da quel paese abbandonando le loro case, e quanto loro apparteneva, e ciò travedevasi dalla audacia di alcuni de’retrivi, dall’agitarsi dei preti e di altri, dalle voci e dalle predizioni che faceansi dai piú imbecilli e malvagi. Tutto annunziava che vi esistevano le fila di una vasta cospirazione.
…Il sette agosto in Pontelandolfo, piú dell’ordinario conveniva la gente, celebrandosi la festa di San Donato coi riti ecclesiastici e colle esterne celebrazioni di giubilo. Verso le ore vespertine una sacra processione incedeva per le vie del paese; e fu giusto quello il giorno ed il momento che tra la banda e gl’interni cospiratori erasi convenuto per intraprendere la loro opera di reazione. Entraron dunque quei della banda, niuno resistente, acclamando Francesco II e con mentita pietà invitando i ministri della Chiesa a render grazie a Dio di questo per loro tanto fausto avvenimento. Si univano ad essi nelle clamorose dimostrazioni di festa quelli che nel paese avevano intelligenza della cosa, e quelli che anche ignari dei precedenti concerti, la credettero di facile riuscita, e gravida di bei risultamenti. Presa cosí importanza il movimento si diedero i sediziosi a consumare una serie di atti nettamente il carattere dell’attentato alla distruzione dell’attuale governo. Il posto di guardia disarmato; le bandiere nazionali calpestate; lo Stemma Sabaudo a colpi di fucile abbattuto ed infranto, gli archivi della Giudicatura e del Municipio incendiati, il botteghino dei generi di privativa forzato distraendovi il danaro trovatovi e le merci, in danno dello Stato, il traino del procaccia arrestato appropriandosi del denaro che trasportava, la carrozza postale danneggiata distruggendovi il Regio Stemma scolpitovi, i cavalli sottrattine, forzate le prigioni e liberati i detenuti.
Né di questo contenta la furibonda turba resa piú ardita dal successo, prese ad inveire contro i particolari, e contro quelli specialmente che avean fama di devozione all’attuale organamento politico dello Stato.
Parecchi omicidi consumati nelle persone di Agostino Vitale, Angelo Tedeschi, di Libero d’Occhio, e del Signor Michelangelo Perugini; la casa di quest’ultimo messa a sacco e incendiata rimanendone distrutto eziandio il suo cadavere. Le case de’Signori Filippo Jandonisio, Antonio Sforza, Lorenzo Melchiorre e Filippo Lombardi parimenti saccheggiate. Ai Signori Samuele Perugini, Gaetano Fusco, Nicola Rinaldi, e Tommaso Pesce estorti con minacce viveri e danari.
È questa la sanguinosa istoria di Pontelandolfo compiutasi nel periodo di sette giorni in che quei tristi poterono impunemente gavazzar nel delitto, e le imputazioni che ne risultano, che or qui si andranno annoverando partitamente e per capi secondo il carattere che lor viene dai sopra esposti fatti.
Tutti questi fatti vanno classificati nelle seguenti imputazioni, caoe:
1. Di banda armata all’oggetto di cangiar o distruggere la forma del Governo, o di eccitare i regnicoli ad armarsi contro i Poteri dello Stato, o all’oggetto di suscitare la guerra civile tra gli abitanti dello Stato inducendogli ad armarsi gli uni contro gli altri, oppure di portare la devastazione, la strage od il saccheggio in un comune dello Stato e contro una classe di persone.
2. Di attentato coll’oggetto sopra menzionato.
3. Di omicidi volontarii in persona di Agostino Vitale, di Angelo Tedeschi, di Libero d’Occhio e del Signor Michelangelo Perugini
4. Di saccheggio, guasto ed incendio nelle case del suddetto defunto Signor Perugini, e de’Signori Filippo Jandonisio, Antonio Sforza, Lorenzo Melchiorre e Filippo Lombardi.
5. Di violenta estorsione di viveri e di danari in danno de’Signori Samuele Perugini, Gaetano Fusco, Nicola Rinaldi e Tommaso Pesce.
6. Di procurata fuga de’ detenuti dalle carceri giudiziarie.
…Nelle ore pomeridiane del 7 agosto 1861 giungeva la nuova in Casalduni della discesa de’ briganti in Pontelandolfo, della uccisione di Michelangelo Perugini e dell’incendio della casa di costui. Non tardò molto che altre voci d’allarme si intesero in modo che si riteneva per certo l’entrata delle bande in Casalduni, sicché in un subito si videro da molte finestre sventolare la bandiera Borbonica, e poscia si vide illuminato il paese. Allora i tristi che avevano preparato le cose uniti al popolaccio incominciarono a scorrere per le vie gridando viva Francesco II, e Maria Sofia, poscia riunitisi intorno al posto di Guardia con quelle sediziose grida, ove scassinarono le porte ed entrati si impadronirono dei fucili e munizioni che in esso vi rinvennero abbattendo lo stemma sabaudo, e gittando sulla via quanto in esso vi era passarono nella casa comunale per dare alle fiamme tutte le carte ivi esistenti, ma essendo stati dissuasi abbandonarono un tal proposito.
Il Sindaco Orsini mandava il bando pel paese a nome di Francesco II sul disarmo dei galantuomini e Guardie Nazionali; in effetti parecchia di quella forsennata gente si recarono nelle case dei proprietari a prendersi le armi e le munizioni. Il grosso de’rivoltosi si radunava innanzi la fontana che sta poco lontana dal posto di guardia, e concertavano di dare il sacco ai ricchi, ed amici del governo; e l’avrebbero eseguito se non fossero stati contrariati da persone influenti del paese.
Nel mattino seguente 8 agosto tutti gli insorti si videro armati di schioppi, scuri, mazze ed altri istrumenti, e tutti forniti di sacchi vuoti attendendo il segnale del saccheggio, il quale doveva aver principio dalla venuta della banda di Pontelandolfo; ma anche questa volta quell’orda fu distolta dalla rapina, mediante il concorso di persone autorevoli presso la plebe.
Mentre il paese presentava una tranquillità apparente videsi appressare allo stesso una turba schiamazzante, questa era composta quasi tutta di naturali di Casalduni che conducevano l’infelice Rosario De Angelis ligato schernito e vilipeso da quella ciurmaglia colle grida « eccolo qua il garibaldino, ecco l’uomo garibaldino ». A sí commovente vista accorse il 1° sergente Leone, il quale giunse ad ottenere da quei forsennati che l’avessero sciolto e liberato, ma essi lo sciolsero e non vollero però metterlo in libertà conducendolo negli arresti. Poscia questi ultimi uniti ad alcuni di Pontelandolfo si diedero a girare le case dei proprietari, per avere armi e munizioni. A circa le ore 18 del medesimo giorno, venne la segnalata vittima di Rosario De Angelis strappata dalle prigioni, dicendo quell’orda che del De Angelis doverne fare un presente al Principe Luigi di Borbone che unito al Generale Bosco si trovava sulla montagna. Lo trascinarono in effetti quegl’inumani su di essa. Indi fu trascinato in Pontelandolfo da dove riuscí ad evadere; ma raggiunto verso Fragneto fu fucilato.
Gli eccessi di quella masnada e le reazioni consumate nei diversi paesi giunti alla conoscenza delle autorità di Campobasso, furono spediti in Pontelandolfo 45 soldati di truppa italiana per sedare la rivolta.
Diretti costoro nel dí 11 agosto 1861 verso Pontelandolfo trovarono ammutinate le popolazioni, ed armati in modo che furono attaccati, e dovettero prendere riparo in un sito chiamato Torre Perugini, poiché furono nel cammino da molti della banda tirati dei colpi di fucile.
Essi pensarono poscia esser miglior partito prendere le alture, poiché erano chiusi e bersagliati da colpi di armi da fuoco, in modo che usciti presero la volta di Casalduni, ma giunti sulla detta prainella furono attaccati da quell’orda ed anche dalla banda comandata da Angelo Pica, furono essi disarmati e spogliati della divisa militare, e furono condotti arrestati al posto di guardia di Casalduni ove li rinchiusero.
Dopo un’ora però per ordine di Angelo Pica alias Picozzo ventilato di doversi quei prigionieri presentare sulla montagna al Borbone, ciò che venne generalmente e con piacere accettato, furono i detti soldati ligati e menati verso il largo Spinella prossimo a quell’abitato. Però videsi il detto Angelo Pica che comandava quelle masse venire sulla casa del Sindaco, forse per prendere dei provvedimenti e fu inteso nel discorso fra Pica e il Sindaco Orsini che li avesse fucilati, ed in eletti allontanatisi Pica, e rivoltosi alla casa del Sindaco anche dal fratello di costui Giuseppe fu fatto segno per la fucilazione. E giunto Pica presso i prigionieri ordinò di farsi fuoco contro i medesimi, ed immediatamente vennero barbaramente uccisi a colpi di arma da fuoco, di scure e mazze…
Come giustizia fu fatta su Casalduni e Pontelandolfo

Nel 1861 (ecco ciò che riuscii a raccogliere da persone di Pontelandolfo e a chiarire coi libri) regnava nel paese un malcontento per cambiamento di governo, malcontento dovuto non solo all’opera turbolenta di pochi, ma al fanatismo dell’arciprete di Pontelandolfo, Epifanio De Gregorio, – uomo assai rispettabile al di fuori della politica, – il quale esaltava l’ignara fantasia colla religione, facendo rilevare come il nuovo governo tendesse a scacciare dagli animi il sentimento religioso… Certo è che i poveri contadini pendevano dalle labbra dell’Arciprete, ed agivano come egli voleva. Stavano cosí gli animi turbati per nuovo governo, quando verso le ore 21 del sette agosto, mentre in paese mancava la forza pubblica che occorreva nel giorno della festa di San Donato, il clero, in compagnia della musica, fu minacciato da un manipolo d’armati sceso dalle alture, spiegando la bandiera bianca, con a capo Cosimo Giordano di Cerreto, e Donato Scutanigno, perché si gridasse: « Viva Francesco II ». Come un’eco infatti si senti quel grido. « E al Clero ch’era in processione alla cappella, si fece cantare il Te Deum » (De Sivo: Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861), volendo cosí mostrare la restaurazione del governo borbonico. Oh! Ma di quanta tristezza fu causa l’opera di quei pochi! Ritiratasi la processione e la maggior parte del popolo, al « largo della Tiglia » non rimasero che baracche, con rivenditori di castagne e torroni, e contadini avvinazzati che ballavano al suono di tamburo e nacchere.

Ecco però che a disturbare quell’allegria venne Donato Scutanigno coi suoi seguaci. Tutti, colla paura nell’animo, fuggirono di quà, di là. Un povero giovane di San Lupo (un Tedeschi) fu ucciso, perché ritenuto spia. La banda armata, entrando sempre piú in paese, dié sfogo a barbari eccessi. Quegli irruenti incendiarono gli archivi del Giudicato e del Comune, e depredarono le case dei cittadini che erano fuggiti. Sull’ufficio dell’esattoria, avuto fra le mani il povero esattore, Michelangelo Chiantella, lo legarono sul letto e lo bruciarono unito alle carte dell’ufficio. Altri vogliono che nell’entrata della banda in paese, il Chiantella si trovasse in un caffè e che preso dai malfattori fosse costretto a gridare per le vie: « Viva Francesco ». Ma con quanta poca voce poverino! Presago di ciò che l’aspettava egli adagio adagio camminava a testa china: giunto sulla casa dell’esattoria fu bruciato. Mentre il suo corpo scricchiolava fra le fiamme, i malviventi andarono via per assassinare ancora un negoziante ed un altro cittadino. Uccisero ed arsero la casa al liberale Michelangelo Perugini e tolsero mobili nelle case di Jandonisio, Melchiorre e Sforza, perché questi erano contro il dispotismo dei Barboni. Ciò avveniva perché il paese era privo di forza armata, trovandosi solo il Giudice con i pacifici cittadini.
Per sedare i disordini fu mandato l’11 agosto, da Campobasso (capoluogo della provincia nella quale era già compreso Pontelandolfo) un drappello di 45 soldati, con a capo il tenente Luigi Augusto Bracci, e 4 carabinieri. Questi uomini, partiti per imprudenza dalla torre di Pontelandolfo e incontratisi a Casalduni con
la banda di Angelo Pica (ricco massaio, creatosi generale), parte furono uccisi, parte fatti prigionieri. Dopo tali avvenimenti « a Casalduni per sicura nuova di soldati marcianti, nessuno riposò; cittadini di ogni specie, ordine, età e sesso fuggirono; pochissimi nell’innocenza fidando stettero, ma Pontelandolfo niente sapendo fu colto » (De Sivo).
E cosí all’alba del 14 agosto, mentre tutto d’intorno riposava, giungeva da Benevento il colonnello Negri con 500 soldati (erano bersaglieri) e pare che sentendo suonare le campane, cui un tale ricorse vedendoli spiegarsi intorno al paese, credettero che insorgesse contro di loro.
Il Brigante Giordano,nascosto coi suoi dietro un ombroso boschetto, alla vista dei soldati ordinò di sparare, uccidendo nella scarica una ventina d’uomini di truppa. Voleva continuare a tirare contro, ma alla vista del numero superiore dei soldati, fuggi.
Il Negri indignato ordinò ai suoi (e il comando parrà sempre ingiusto) ordinò di slanciarsi contro il paese, contro la popolazione che calma riposava. L’impresa pel Negri riuscí piú facile cosí, e il paese da un momento all’altro fu in subbuglio. Il suono lento o disteso delle campane, le scariche dei fucili, il correre su e giú dei soldati svegliarono le mamme, che stringendo a loro i bambini ancora addormentati si domandavano il perché di quel finimondo. Tutti correvano alle finestre, ai balconi, alle porte per rendersi ragione di ciò che accadeva. I soldati, slanciandosi per le scale del paese, e nelle case, abusando dell’ora presta, della nudità, del sonno, dello spavento dei cittadini, si abbandonarono « a fatti orrendi, a saccheggi sozzi, azioni infami » (De Sivo). Uccisero nelle domestiche mura, alla presenza dei genitori, due figliuoli buoni, innocenti: i Rinaldi. Uccisero una graziosa fanciulla – Concetta Biondi – la quale, per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne e la mano assassina colpi a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate confondendosi col sangue. Fucilarono Nicola Biondi ed uccisero Giuseppe Santopietro, dopo avergli strappato dalle robuste braccia il caro bambino. A nulla valsero le sue preghiere, le sue suppliche: voleva vivere pel caro angioletto… Ad una donna che non voleva cedere ad impuri desideri, vennero strappati gli orecchini. Il marito affettuoso, venuto in suo aiuto, fu codardamente ucciso. Quali orrori!
A dare maggiore spavento agli animi dei miseri cittadini si uni l’incendio del paese e della chiesa. Alcuni manigoldi entrati nella chiesuola in fiamme gettarono le ostie consacrate, rubarono i doni e la corona della Madonna, e fuggirono per timore…
Dopo varie ore di saccheggio sozzo di uccisioni, il colonnello Negri ritornò a Benevento per Fragneto-Monforte, temendo di essere sorpreso per altre vie dai reazionari; e, prima di lasciare il paese, fece bruciare, dinanzi alla chiesa di San Rocco, una ventina di cadaveri dei suoi, per non mostrare le sue perdite. Il suo allontanarsi fu un bene pel paese, perché il popolo subito si affrettò ad estinguere l’incendio. Oh… ma quanta rovina! Erano state bruciate anche le case non abitate.
La roba rubata, i doni strappati alla chiesa girarono di mano in mano, in tutta la provincia; i rapinatori la vendevano.
I trionfatori, nel 15 agosto, annunziarono per telegrafo: « Ieri, all’alba, giustizia fu fatta, contro Pontelandolfo e Casalduni ».
(da « L’incendio di Pontelandolfo » di Nicolina Vallino, articolo apparso sul n. 6, anno V, 1919 della « Rivista storica del Sannio »)
Un piano prestabilito, una punizione esemplare, un triste destino

Verso i primi di agosto del 1861 una banda di briganti scorazzava le montagne tra Cerreto, Pietraroia e Pontelandolfo, ingrossata da soldati sbandati(L’autore di questo scritto, Vincenzo Mazzacane, dichiara di averlo elaborato riassumendo un manoscritto definito « spopositato e disordinato » dal titolo “Storia fatti di Pontelandolfo scritta da Antonio Pistacchio”; copia eseguita da don Rocco Caterini che assicurava essersi attenuto all’originale). Circolavano voci paurose e insistentemente si mormorava di un prossimo ritorno di Francesco II. I semi della reazione, abilmente sparsi in seno alla popolazione, composta da massima parte di contadini, germogliavano. La Guardia Nazionale era insufficiente e restia al proprio dovere: i pochi liberali scoraggiati, disarmati, non protetti, anzi fatti segno a continue minacce. Erano stati chiesti aiuti al governatore della Provincia, e il 3 agosto giunse in paese l’ex colonnello garibaldino Giuseppe De Marco alla testa di 200 guardie mobilizzate. Il giorno seguente costui inviò corrieri nei comuni vicini per avere altra forza. Ne richiese a Morcone, a Fragneto, a Circello, a S. Croce e altrove. Casalduni ne richiese invece a lui, ma il De Marco – e gli avvenimenti dovevano dargli ragione – non stimò prudente dividere i pochi uomini che aveva seco, é il 5 si recò a San Lupo per conferire in proposito col cav. Iacobelli. Le voci paurose ingrossavano: che i soldati, sprovvisti del necessario, trovavano critica la loro situazione. Il sindaco e l’ufficiale della Guardia Nazionale si presentarono al De Marco, appena tornò da San Lupo, e lo pregarono di trattenersi ancora in paese. Il comandante osservò che i soldati erano sprovvisti di tutto, e che si sarebbe fermato ben volentieri, se il Comune o i privati avessero provveduto al mantenimento della truppa. « Ma – nota il Pistacchio – non si trovò nessuno in Pontelandolfo che avesse cacciato un obolo per mantenere l’ordine e la forza. » Trionfava cosí l’occulto lavorio dell’arciprete De Gregorio. Il De Marco, stretto fra le esigenze della soldatesca e le condizioni dello spirito pubblico, timoroso di un movimento reazionario che sarebbe stato impotente a reprimere, parti lo stesso giorno 5 agosto. Inutilmente si insistette per novelli soccorsi; inutilmente si esposero le gravi condizioni del paese, dove la popolazione era sparsa, poco disciplinata la scarsa forza locale, fervida la propaganda d’odio dell’elemento borbonico. I due terzi circa della Guardia Nazionale, composti di individui che abitavano in campagna, furono disarmati dai briganti; l’altro terzo, per la sorte toccata ai compagni e per l’abbandono in cui versava il paese, rimase in preda al terrore. Lo sbigottimento si propagò al ceto civile: molti fra i migliori fuggirono, e da quel momento lo sventurato paese fu votato al suo triste destino. Il 6 agosto cominciava la fiera di San Donato. L’arciprete usci in piazza e divulgò che, contrariamente a quanto aveva detto il Sindaco il giorno precedente, la fiera vi doveva essere: assicurò che i briganti non sarebbero scesi dalla montagna, e che, del resto, essi erano regi, e, se mai, avrebbero fatto male solo ai liberali. Serpeggiò la voce che il De Gregorio si fosse inteso con i briganti, o con un loro emissario, al Piano della Croce, e li avesse sconsigliati di venire in paese, di mattino: data l’affluenza dei forestieri, sarebbero avvenuti dei tumulti, e chi avrebbe portato le offerte al Santo? Meglio discendere verso sera, quando la processione tornava da San Donato… Fondata o meno, la voce non era fatta per sollevare lo spirito pubblico. La plebaglia insultava pubblicamente i liberali; il Sindaco era fuggito; fuggiti i pochi gentiluomini. Il luogotenente della Guardia Nazionale aveva invitato i militi, ma appena 26 se ne erano presentati, pavidi e senza fiducia, e la sera di quello stesso giorno si sciolsero e al Corpo di Guardia non rimasero che pochi ufficiali. Un incubo pauroso gravava sul paese; cupe voci circolavano: c’era in aria l’odore della reazione.

Il giorno 7, festa e fiera di San Donato, mentre il clero, verso le ore 22 italiane, tornava dalla cappellina intitolata al Santo, ove s’era cantato il vespro, un gruppo di circa 40 briganti, ingrossato via via da reazionari, da manutengoli, da paurosi, da indifferenti, impose al clero di fermarsi per poi procedere insieme verso il paese. Ivi briganti e popolo assalirono il Corpo di Guardia e lo devastarono; fu ucciso Angelo Tedeschi di San Lupo, furono feriti Agostino Vitale ed un eremita.
L’esattore Michelangelo Perugini, malgrado si proclamasse borbonico, fu barbaramente massacrato e il suo cadavere bruciato nella casa. La calca inferocita si sparse poscia per il paese saccheggiando, imponendo disarmo e taglie, mentre il clero si rifugiava nella chiesa e in varie abitazioni.
Il giorno seguente si sollevarono i reazionari di Casalduni e di Campolattaro, e il 9 convennero in Pontelandolfo insieme a quelli di altri luoghi vicini. I Campolattaresi, circa una trentina, armati di grossi pali e di schioppi, con bandiera bianca, gridavano « viva Francesco II » e unitisi a pochi di Pontelandolfo si limitarono a saccheggiare qualche casa. Verso le ventuno e mezzo furono visti sulla Prainella circa cento fra briganti e sbandati, pochi armati di fucile, i piú di accette e di pali. Indossavano camicia e calzonetti bianchi, e molti erano scalzi. Costoro si incontrarono per via con un altro gruppo che veniva dalla Parata, e giunti a S. Donato (l’entrata del paese) forzarono il tamburo della banda musicale a precederli e fecero il loro solenne ingresso urlando e inneggiando a Francesco II. Assalirono poscia il giudicato regio, chiesero quà e là da mangiare e da bere, terrorizzarono il pubblico, e finirono con l’accamparsi in Piazza Tiglio e su le Campetelle; ma col cadere della notte preferirono ritirarsi su la montagna, meno pochi, che piú tardi si unirono a circa 50 briganti sopraggiunti da Casalduni e si diressero verso Campolattaro, e ciò indotti da voci di soldati marcianti. .
Il 10 agosto il paese rimase relativamente tranquillo; non si videro briganti né paesani né forestieri. Circolavano però le piú strane notizie, e si dava a credere che Francesco II fosse giunto a Napoli.
Qualcuno rientrò nell’abitato per nascondere quello che non aveva fatto a tempo a celare il 7, ma scappò di nuovo all’annunzio, gravido di terrore, dell’arrivo di 30 briganti. Invece il giorno seguente, domenica, si videro giungere 45 soldati italiani, sventolando fazzoletti bianchi in segno di pace. Si celebrava la messa cantata: il sacerdote si affrettò a finirla, e i villani di corsa scapparono nelle loro masserie. I soldati procedevano intanto guardinghi, incerti. Erano briganti coloro che fuggivano, o spie che correvano a dare l’allarme? Si rassicurarono appena seppero che i briganti si erano ritirati su le montagne o nei paesi vicini. Chiesero delle autorità: si rispose che erano fuggite; chiesero di ristorarsi per poi partire: la popolazione, scarsa e paurosa, si mostrò restia a dar loro del cibo per tema di essere sorpresa dai briganti e di trovarsi in qualche conflitto. Giunse un soldato, rimasto indietro, e narrò di essere scappato dalle mani dei paesani e che un altro compagno era stato forse disarmato e un altro ucciso. Accorsero allora tutti sul Piano della Croce e tirarono molte fucilate, ma senza ferir nessuno. Due soldati soltanto erano rimasti in una bettola del paese, e sarebbero stati certamente uccisi senza l’intervento del cocchiere di don Giovanni Perugini (Domenico Brugnetti) che scorto il gesto di intesa di due briganti, riuscí ad intenerire Michelangelo Pistacchio il quale scongiurò il delitto facendo comprendere il male che ne sarebbe venuto al paese. Dal Piano della Croce i soldati passarono nella masseria di don Saverio Golino che risparmiò la fucilazione a qualche concittadino, e poscia rientrarono in paese e si diressero verso la Torre. Ivi, scavalcato il muro di cinta, si accamparono nel giardino, posero sentinelle, fecero portare pane e vino. Si intesero però subito dei colpi di fucile, e una delle sentinelle avverti l’ufficiale che masse di contadini si riunivano nei dintorni, e che i colpi erano stati tirati in direzione della Torre; l’ufficiale decise allora di uscire per tema di un accerchiamento. Vuolsi che a tale determinazione non fosse estraneo il Golino, il quale per timore di rappresaglie da parte dei briganti, se fosse stato scorto con i soldati, avrebbe fatto intendere a costoro essere pericoloso un posto come quello, facile ad essere accerchiato. I soldati uscirono infatti e, sparando, si diressero verso le Campetelle; di là si dettero a precipitosa fuga, temendo di essere raggiunti dai briganti che già si vedevano verso le masserie Guerrera. Quella fuga contribuí a perderli. Donne, uomini, ragazzi, li avevano seguiti fermandosi su l’altura e gridando allarmi. Si ritenne fuggissero per paura dei soldati di Francesco II e il dubbio che fossero dei vili rese feroci gli animi. La folla, composta in gran parte di donne, urlava dimenando le braccia, e il Pistacchio esprime il convincimento che, specie le donne, tutte della peggiore feccia del paese, volessero additare í fuggenti ai briganti. Per la via molino di sotto i Piemontesi erano intanto usciti su la Consolare. Di collina in collina si ripercuotevano le grida di allarme, e in un baleno la vetta di S. Nicola si gremí di gente discesa dalla montagna e di sbandati di varie contrade. I soldati, che erano sulla strada che circonda la collina, si videro assaliti da un numero assai superiore di forze. Spaventati, storditi dalle grida incessanti, forse con poca energia guidati, piegarono su Casalduni, sperando in un paese amico, o dove, nella peggiore ipotesi, potessero soltanto essere fatti prigionieri. Ma alle prime svolte della strada, nei pressi della cappellina De Angelis, intesero suonare a stormo le campane di Casalduni… Cominciò il massacro; due furono trucidati in una masseria di quelle vicinanze, l’ufficiale lungo la strada; gli altri consegnarono le armi e furono condotti al posto di guardia di Casalduni ove accorse gente di Pontelandolfo e del paese. Ivi chiesero di confessarsi: fu risposto negativamente. I briganti di Casalduni e pochi di Pontelandolfo tennero consiglio e decisero di trucidare gli infelici. Qualche sbandato tentò di opporsi, ma Angelo Pica e Pellegrino Meoline vollero il massacro, perché non si unissero all’altra forza piemontese cosí come avevano fatto coloro che erano stati risparmiati dai briganti di Colle. Erano le 22 e mezzo. Furono atterrati a colpi di schioppo, di scure, di falce, di zappelle, di pietre. Un Piemontese si finse morto e rimase nascosto sotto i cadaveri dei compagni fino a tre ore di notte; poi si diresse a Campolattaro, ove assalito da altri briganti fu, malgrado una strenua difesa, assassinato e sepolto. Il giorno successivo, 12, in Pontelandolfo non furono visti che pochi briganti; molti se ne aggiravano invece su per la Prainella. Il cav. Iacobelli mosse contro di loro da San Lupo ma, scortone il numero, non stimò prudente attaccarli, e tornò indietro sbigottito. Dettò allora, d’accordo con un individuo di Morcone, che assicurava di aver modo di comunicare con Cialdini, un rapporto che segnò la fine di Pontelandolfo.
Vi si diceva che 45 soldati, tra i piú valorosi figli d’Italia, erano stati colà, il giorno precedente, tenuti a bada dai naturali fino all’arrivo dei briganti. Giunti costoro, i soldati avevano subito attaccato, ma era accorso il popolo costringendoli a fuggire. Inseguiti e sempre combattendo, erano pervenuti nell’abitato di Casalduni ove sopraffatti dal numero s’erano dati prigionieri ed erano stati barbaramente uccisi. Il Pistacchio narra che il plico, accompagnato da una lettera privata per il ministro De Blasio di Guardia Sanframonti, fu recato con un calesse a Napoli e che egli sbigottito accorse subito colà per tentare, informandone don Giovanni Perugini, di salvare il paese, ma giunse troppo tardi. I briganti intanto, dopo che il Iacobelli tornò indietro senza attaccarli, si riunirono su la Parata e nei luoghi vicini.
Si aggiunse a loro Angelo Pica che propose qualcuno si recasse a prendere il Generale per avere gli ordini di Francesco II. Accettò di farlo Cosimo Giordano che, con una decina di compagni fra i piú arditi, andò in Casalduni ove il Generale si trovava. Era costui tal Filippo Tommaselli, che spacciavasi generale di Francesco II, e munito di pieni poteri. Egli gridò evviva Francesco, emanò dei bandi, arringò i seguaci e promise quattro carlini al giorno ai soldati semplici e uno di piú per ogni grado superiore; tornato Francesco avrebbero avuto ducati trenta e carlini 15 al mese ciascuno, vita durante.
Venuto in Pontelandolfo, accompagnato dal Pica e dal Giordano, ordinò di portar viveri ai suoi, sulla montagna, ma essendosi detto che a Solopaca erano giunti 200 soldati con alla testa il colonnello De Marco, li chiamò in paese. Un soldato del Piemonte tratto innanzi a lui ebbe promessa di libertà purché gridasse viva Francesco II; rispose negativamente: aveva giurato, e piuttosto che mancare al suo giuramento preferiva di essere trucidato come i suoi compagni. Era uno dei 45 soldati, scampato all’eccidio dell’ll per essere rimasto indietro agli altri, nascosto in fosso, al toppo di S. Nicola. Il suo coraggio confuse il Tommaselli e gli altri briganti. Riuscito a fuggire, quel valoroso fu poi preso, al di là di Ponte, da un’altra banda.
Verso l’alba del 14 furono visti dei soldati avanzarsi alla volta del paese. I briganti che erano rimasti accampati su le Campetelle chiamarono alle armi; il posto di Portanova tirò dieci o dodici fucilate, altre ne furono tirate da diversi posti: in tutto una trentina. Poscia, sgomentati dal numero dei soldati, fuggirono in varie direzioni, mentre qualcuno di essi, tolte le chiavi al sagrestano, prese a suonare a stormo. I cittadini atterriti si alzarono, si chiamarono, fuggirono. I soldati entrarono nell’abitato tirando contro chiunque incontrassero. Furono cosí uccisi i due figliuoli di don Nicola Rinaldi e vari altri; un solo brigante fu preso ed ucciso. Il paese venne dato alle fiamme, e la prima casa chee bruciò fu quella dell’arciprete Epifanio De Gregorio che il Pistacchio chiama « reazionario,ambizioso,mangione e scialacquatore ».
Dopo i soldati si abbandonarono scheggio e ad atti di lascivia…
Per quanto sembrino strane, a proposito di un episodio cosi doloroso e cosí vicino a noi, possono trascurarsi le divergenze che riguardano particolari di poca o niuna importanza; ma tra questi può annoverarsi l’uccisione di 20 soldati sardi narrata dal De Sivo, e che sarebbe avvenuta ad opera dei briganti capitanati da Cosimo Giordano la mattina di quel tristissimo 14 agosto. Scrive lo storico borbonico che i briganti rimasti in Pontelandolfo si erano ridotti a quelli della banda Giordano, circa una cinquantina, e che costoro, appiattati in un boschetto, fecero fuoco sui soldati che avanzavano verso il paese uccidendone alla prima scarica 25; poi si tanarono. Il Negri aveva il debito – continua il De Sivo – di inseguirli; invece tirò al paese e, dopo il saccheggio e l’incendio, bruciare i 25 cadaveri dinanzi alla Cappella di San Rocco per nascondere le sue perdite. Nel racconto del Pistacchio è taciuta questa circostanza e -come sopra si è visto – si legge solo che i briganti a guardia del posto di Portanova tirarono dieci o dodici fucilate, e altre ne tirarono i compagni: in tutto circa 30 colpi di fucile. Non si parla di soldati morti, né di cadaveri bruciati. Vero è che il Pistacchio quel giorno era assente da Pontelandolfo, per essersi recato a Napoli col proposito di salvare il paese dall’eccidio, ma sembra davvero inesplicabile che abbia potuto ignorare un particolare cosí grave e che certo non era sfuggito a qualcuno dei pochi riimasti sul posto, quale che fosse stata la fretta del Negri nel bruciare, con ogni cautela, i cadaveri.
È opportuno a questo punto rilevare che anche senza la morte dei 25 soldati del Negri, Pontelandolfo sarebbe sempre andato inncontro al suo triste destino. Trattavasi di seguire un piano prestabilito, di infliggere una punizione che servisse da esempio; e la stesa sorte toccò a Casalduni…
(da « I fatti di Pontelandolfo nel manoscritto di un contemporaneo » di Vincenzo Mazzacane, pubblicato sulla « Rivista storica del Sannio », n. 3, anno IX, 1923
Ricerca e elaborazione a cura del Prof.Renato Rinaldi