Appunti di viaggio da una città fantasma

 

Appunti di viaggio da una città fantasma*

 (Raimondo Augello)

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Alzi la mano chi ha mai sentito parlare di Mongiana. Alzi la mano chi è in grado di dire in quale sperduto punto della nostra penisola si trova questa località. Batta un colpo chi conosce la storia luminosa e al contempo drammatica di questa cittadina e le vicende ad essa legate che si accompagnarono al processo di unificazione nazionale.Raccontare, pur se per sommi  capi, cosa sia stata Mongiana agli Italiani, su cui agisce da parecchie generazioni un esercizio coatto di rimozione forzata della memoria, risulta in verità operazione difficile e imbarazzante. Difficile perché ci sarebbe tanto da dire, anche in rapporto all’azzeramento della memoria da cui è affetto l’ipotetico italico interlocutore, imbarazzante perché non si può parlare di Mongiana e della sorte ad essa toccata senza smuovere nel profondo la coscienza di chi ascolta andando a turbare le rassicuranti certezze placidamente coltivate su quel vuoto di memoria.

 

Perché raccontare le vicende di questa cittadina, posta nel cuore delle Serre calabresi a quasi mille metri di altitudine, significa offrire un paradigma, non isolato purtroppo, capace di farci comprendere le vere ragioni dell’attuale sottosviluppo del nostro Mezzogiorno, notoriamente legato ad un mancato decollo industriale.Prima del 1860 Mongiana si trovava al centro di un ampio distretto minerario e siderurgico che passando attraverso Fabrizia, Ferdinandea e Serra San Bruno arrivava sino a Stilo e alle contrade delle Serre che digradano verso lo Ionio. Lì il ferro si produceva e si lavorava sin dal tempo dei Fenici e sotto i Borboni l’area divenne di importanza strategica. Era lì che si produceva l’acciaio e il ferro per tutto il regno, fu a Mongiana, tanto per fare qualche esempio, che si costruì il primo ponte sospeso in ferro d’Italia, quello sul fiume Garigliano, oggetto di studio sul campo da parte di ingegneri provenienti da tutta Europa. Fu a Mongiana che si costruirono le prime linee ferrate (ricordiamo fra tutte la Napoli-Portici) ed era da Mongiana che proveniva la materia prima per rifornire i cantieri navali di Castellammare di Stabia, ove si forgiavano le navi della flotta mercantile duosiciliana, la seconda al mondo, dopo quella inglese, per stazza e per volume di scambi; quegli stessi cantieri navali in cui ancora nel 1931, nonostante il declino iniziato dopo il processo unitario, si costruiva la nave scuola Amerigo Vespucci. Da Mongiana proveniva inoltre la materia prima che riforniva il Reale Opificio Meccanico e Politecnico di Pietrarsa, presso Napoli, il più importante polo meccanico della penisola prima che ad unità avvenuta lo Stato italiano ne decretasse la chiusura, non esitando a fare sparare sugli operai che manifestavano contro lo scempio, provocando quindici morti e decine di feriti, e ciò al fine di privilegiare la nascita di altre realtà concorrenti come la Fiat o l’Ansaldo. Fu grazie ad eccellenze come Pietrarsa o Mongiana o San Leucio che all’esposizione universale di Parigi del 1856 il Regno delle Due Sicilie fu gratificato del titolo di terzo Paese industrializzato del mondo, dopo Inghilterra e Francia.

IMGP0171. L'ingresso della reale armeria di Mongiana

Mongiana, dunque, nel momento di massimo sviluppo ospitava più di duemila tra ingegneri, tecnici specializzati, operai con le relative famiglie, possiamo anzi dire che il paese si era sviluppato intorno agli impianti siderurgici  e che in essi trovava una sua ragion d’essere. Gli operai di Mongiana furono i primi al mondo a fruire, compartecipando ai costi, di mutua, assistenza medica e pensione. Inoltre, contrariamente a quanto in modo diffuso accadeva altrove tra gli operai, il fenomeno dell’alcolismo era sconosciuto. Una realtà di prosperità e un modello di integrazione sociale che coinvolgeva, come accennato, un ampio comprensorio e che non mancò di richiamare la presenza di ingegneri e tecnici tedeschi, svizzeri, inglesi, francesi, piemontesi anche, mossi dall’intento di carpire i segreti di una tale eccellenza.  Con l’arrivo dei Piemontesi fu in breve decretata la chiusura di Mongiana e le rotaie che servivano al trasporto dei minerali furono vendute come ferro vecchio. L’intero comprensorio industriale, ormai svuotato di significato, fu venduto all’asta ad un tal Achille Fazzani, ex garibaldino poi divenuto parlamentare, noto per un coinvolgimento in una truffa colossale ai danni dello Stato. Invano operai  e personale specializzato implorarono Vittorio Emanuele II di mantenere aperti gli stabilimenti, dichiarandosi disposti anche ad un dimezzamento della paga; Mongiana pagava dunque la colpa di essere troppo efficiente e troppo concorrenziale nei confronti di altre realtà, come la Falck, la cui nascita sarebbe stata di lì a poco favorita dallo Stato italiano e i cui primi passi sarebbero stati seguiti con amorevole e trepido afflato. Agli abitanti di Mongiana non  restò che la disperazione e l’alternativa di rifugiarsi sui monti circostanti alimentando la guerriglia partigiana (quella che ci hanno raccontato sotto il nome di “brigantaggio”), o emigrare. Ed emigrarono a frotte i mongianesi, portando con sé il bagaglio delle raffinate conoscenze tecniche acquisite attraverso un lento e faticoso esercizio generazionale, laddove era possibile: nelle acciaierie di Terni e nel bresciano, soprattutto, a Lumezzane, dove si contano centinaia di immigrati originari di Mongiana. Per coloro che scelsero la via della fuga, dunque, la scelta obbligata tra lavoro e terra natìa portò al sacrificio inevitabile di quest’ultima.  Lo scrittore Pino Aprile, nel suo best-seller “Terroni”, ha  dedicato alle vicende di Mongiana un intero capitolo scegliendo un titolo ispirato da raffinato e provocatorio sarcasmo: “I Meridionali non hanno cultura industriale”; in esso, tra le altre cose, si legge che “a Mongiana si colgono i segni di una civiltà bruscamente interrotta. Restano in piedi e vuoti i templi, i palazzi del potere, l’ossatura (senza più carne, sangue, pelle) di una capacità economica vampirizzata: mute cattedrali di dèi senza più sacerdoti. Così è sulle Serre, nella sottostante valle di Rossano, nella Calabria intera (i filatoi, i mulini per la produzione di zucchero di canna, le tonnare, le fabbriche di liquirizia), nell’intero Sud (dalle industrie tessili ai cantieri navali, alle officine, le cartiere, i pastifici. Il che” conclude Aprile “fa del Mezzogiorno un paradiso dell’archeologia industriale” e di Mongiana, aggiungiamo noi, uno dei sacrari da visitare in un itinerario ideale di un’Italia del domani rinnovata e capace di fare i conti con il proprio passato.     Questi fatti e tanti altri ancora che qui ometto, dunque, mi si affollavano nella mente durante un pomeriggio di luglio insolitamente uggioso per quelle latitudini, in cui mi sono trovato a percorrere la strada che partendo dal lago Angitola nei pressi di Pizzo si inerpica attraverso le Serre calabresi: ero in vacanza in Calabria e non mi volevo lasciare sfuggire l’occasione di verificare con i miei occhi quanto avevo letto su Mongiana. All’arrivo il paese mostrava un volto spettrale: oggi Mongiana è un centro di poche centinaia di anime e rari si offrivano passanti cui potere chiedere indicazioni sull’ubicazione degli antichi opifici. A tale sensazione di desolato abbandono si accompagnava anche un sentimento di grottesco imbarazzo a mano a mano che mi inoltravo per l’abitato: entrando per la via Vittorio Emanuele II si passa attraverso la via Vittorio Emanuele III e districandosi attraverso le vie Cavour, Garibaldi e similari, si procede sino alla piazza nella quale sorgono i resti della Reale Fabbrica d’armi, per la quale è stato scelto il nome di piazza regina Elena. E’ come se il potere nel voler soffocare ogni parvenza di memoria in questo paese avesse voluto offrire il meglio di sé e dei suoi metodi di rimozione sino a rasentare il ridicolo, se pur è concesso ridere di simili drammi che la storia ci propone. Un passante cui chiedo indicazioni, invitato da me a commentare un simile grottesco fenomeno toponomastico, mi dice: “I cittadini di Mongiana sono concordi: è il sindaco che deve porre fine a questa vergogna provvedendo a rimuovere dalle nostre vie i nomi di questi…” … padri della patria che il mio interlocutore apostrofa con cordiale e colorito disprezzo. E poi aggiunge con un tono di malcelato orgoglio: “Giorni fa alcuni turisti tedeschi capitati qui raccontavano di come ‘a la Germania’ ci siano ancora oggi rotaie della ferrovia che recano il timbro di fabbrica ‘Mongiana’ ”  Dopo una veloce visita ai ruderi dell’impianto siderurgico e al monumentale ingresso della Reale Fabbrica d’armi, cerco di riguadagnare la via d’uscita dal paese, ripercorrendo a ritroso le vie da quei nomi altisonanti; all’ultima curva  prima di uscire da Mongiana mi colpisce la presenza di un pub, forse l’unico luogo di svago in quel posto dimenticato da Dio. Mi rincuora osservare che chi ha aperto quel pub lo ha voluto chiamare con sarcastica eloquenza “Lu briganti”, quasi a volere levare il proprio irridente sberleffo a quella nomenklatura ufficiale imposta dalle autorità. Rincuora sapere che in quel luogo perduto c’è anche chi nel suo piccolo ha accettato la sfida di riprovare a fare impresa vantando fiero la propria identità: contro il corso della storia e contro il coro, quasi novello Peppino Impastato, facendo della propria irriverenza l’arma tagliente di denuncia contro i giochi del potere.

 

*Postato da Raimondo Augello il 8/29/2012

 

 

Da : http://www.lionspalermodeivespri.it/wordpress/2012/09/02/appunti-di-viaggio-da-una-citt-fantasma/