” IL DOVERE” n. 20 – CENNI SULL’ITALIA MERIDIONALE

 

dovere n 20Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da ” IL DOVERE” GIORNALE POITICO,SETTIMANALE PER LA DEMOCRAZIA – Genova sabato 25 luglio 1863 Num. 20
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CENNI SULL’ITALIA MERIDIONALE
II.

La questione sociale e il brigantaggio,

Descrissi nel precedette numero le circostanze dell’agricoltura e della pastorizia nel Tavoliere di Puglia. Aggiungo qui che lo stato delle terre appartenenti ai domani de’comuni e della nazione, e di quelle già usufruite dalle corporazioni ecclesiastiche ed oggi amministrate dal governo, non è gran fatto diversa. Onde può dirsi cbe in molti territori del Mezzodi della penisola il lavoratore del suolo é in condizioni peggiori di quelle d’ogni altro conatadino d’Italia.
Ed appunto nei luoghi dove la campagna è più grama, il brigantaggio è più tenace ed infesto, ed incontra meuo efficace resistenza nelle popolazioni. In Terra di Lavoro, negli Abruzzi, dovunque un miglior metodo di locazioni agraria, o la mezzeria e la piccola e varia coltura rendono più certo il lavoro per tutto il corso dell’anno, e meno infelice la vita del colono e del bracciante, e dove quest’ultima classe è, scarsa in paragone dell’altra addette alla coltivazione della campagna ivi gli elementi nativi meno attristati dalla miseria e men guasti dall’ozio e dai vizi,diedero pochissie reclute al brigantaggio, e il paese più virilmente lo perseguitò. In Basilicata i proprietari, il ceto medio e gli artigiani, associatisi sin da principio nel movimento nazionale, combatterono alacreamente i malfattori, e se ne sarebbero liberati per intero, se la natura de suolo, la più parte montagnoso e coperto di foreste profonde, non avesse prestato ai banditi opportunità di fughe, e rifugi pressochè impenetrabili. Nelle Puglie marittime, dove il commercio, l’industria, il contatti col mare generarono spiriti più intraprendenti e mezzi maggiori di civile convivenza, e dove sono città culte e fiorenti, come Bari, Brindisi, Lecce ed altre simili i briganti furono vigorosamente respinti dalle cittadi nanze. Intorno alle quali, relazioni fra il brigantaggio e le circostanze naturali e sociali de’luoghi, gioverebbe avere dati pceeisi a studio de’rimedi civili, che quelle circostanze richiedono; ma la statistica è ancora bambina in Italia per la lunga guerra che il dispotismo fece alla ricerca delle nostre condizioni interne, e ciò nuoce all’azione legislatrice ed alla amministrativa in un medesimo tempo.
Io mi sono dilungato a discorrere dello stato sociale del paese, perocchè, da ciò grandemente dipenda, sebbene per modo indiretto, la piaga deJ brigantaggio. Non già,che la questiona sociale sia l’incentivo o il pretesto degli assalti, che il brigante muove al civile consorzio; ma certanente la triste vita del paesano scema in questi interesse ed energia a difendere i frutti non suoi della sua fatica, e lo spinge talora al delitto. Le bande de’malfattori, in sè medesime, non hannoo alcun carattere di protesta sociale o politica per le gravezze e le sofferenze di qualsiasi ceto. I paesani, nel chiedere riparazione delle patite ingiustizie, usarono ultimamente metodi pacifici e civili. I contadini dell’Italia meridionale avevano, nelle terre de’municipi, diritti antichissimi di pascere, far legna ec., e in molti casi, erano coloni parziari, od enfiteuti, sia nei fondi del comune, sia in quelli della corona. Tali diritti furono limitati od annullati ad arbitrio ed una porzione de’beni comunali venne usurpata da chi sovrastava,durante l’anarchia del reggimento borbonico.
Il Sindaco, l’avido impiegato municipale, procacciantisi colla prostituzione dell’animo il favore de’padroni, la pottente famiglia che, sotto la protezione del governo, dominava nel luogo, invadevano sovente i mal disegnati confini di quelle terre, costringendo al silenzio i testimoni delle loro esurpazioni. D’ onde nacque contro gli usurpatori una lotta di proteste e di liti, d, cui la tirannide borbonica si valse a strumento di mala signoria, facendo mostra di favorire, secondo era espediente per essa, ora gli offesi ora gli offensori. Aceaduta la rivolutone, l’interesse Sociale e l’interesse politico si trovarono concordi su questo punto; e la questione delle terre comunali fu messa in campo dal partito liberale come opera di giustizia e di rivendicazioae di diritti violati.
Il nuovo governo mandò commissari speciali, col titolo di commissari- ripartitori, a verificare i titoli; ma la opposizione e i raggiri degli intereesati, e le difficoltà inerenti a tale specie di cause civili, attraversarono l’equa e spedita restaurazione delle antiche ragioni.
Ora, i giudizi sulla materia delle usurpaziooi furono affidati ai prefetti delle provincie; ed è importante ed urgente per la quiete di queste, che sia resa giustizia ai reclamanti tanto più che i paesani aderiscono alla definizione legale delle liti con tale moderazione da recar meraviglia a chi pensi come il sentimento della legge fosse tra quelle popolazioni oltraggiato da lunga abitudine di arbitrario potere. Nondimeno questo sentimento senbra sopravvivere in esse dopo tante iatture; e la disposizione a disputare del diritto e del torto per modi legali nel foro, direbbesi redicata nella loro natura quasi da ereditaria influenza e tradizione dello spirito de’loro antichi progenitori. Più agevole e già bene avviata è l’altra questione concernente i beni liberi ossia demani tuttora esistenti dei comuni. I paesani ne chiedevano da lungo tempo la divisione a censo; molti municipi, mutate le cose pubbliche, consentirono alla giusta doman, e le divisioni vanno procedendo con reciproco vantaggio di chi dà e di chi riceve. Del che citerò alcun esempio più tardi.
Tali sono i caratteri della questione sociale nelle campagne dell’ex-regno. I briganti,invece, non si danno verun pensiero di siffatti interessi e ragini, mirando unicamente ad una generale rapina degli averi di tutti, senza distinzione fra grandi e piccoli, fra, liberali e retrivi. E se qua e là, per famigliarità e parentela coi banditi, o per ira di torti ricevuti, o per avidità di bottino e più sovente per timore di vendetta alcuni paesani hanno complicità con quelli,non v’è però nell’universale verun moto o disposizione, che tenda a far causa comune coi medesimi, e a convertire il brigantaggio in una vera guerra sociale. Vediamo, in fatto, i brigrintl rubare ed uccidere non meno ferocemente la gente di villa; che le altre classi de’ cittadini.
Un rapido sguardo sulla storia delle bande e sugli elementi che le compongono chiarirà questa sentenza…Innanzi tutto è da far distinzione fra quelle reazioni, che avvennero al mutare dell’antico ordine di cose, e il brigantaggio nella sua forma presente. Quando Francesco II occupava ancora Gaeta e Civitella del Tronto, era guardata da truppe Borboniche, la fazione retriva diedesi ad eccitare le popolazioni ignoranti delle montagne abruzzesi, spargendo falsi rumori d’intervento austriaco e del ritorno del Borbone a Napoli. I gendarmi di Civitella del Tronto invasero varie terre degli Abruzzi, e la canaglia che li seguiva uccise i magistrati, irruppe nelle case de’liberali, distrusse proprietà e vite senza riguardo ad età od a sesso. Di quelle sollevazioni furono macchinatori una parte del clero e i partigiani della caduta dinastia ne’conventi di Terra di Lavoro, in Capitanata ed altrove. Pari violenze travagliarono, in que’mesi, le piccole città e i villaggi del Monte Gargano e delle circostanti pianure. Si vedevano tra gl’insorti montanari dell’Abruzzo, frati fanatici e feroci, monsignori, ufficiali dell’esercito borbonico, avventurieri d’oltr’Alpe, come De Christen, La Grange; ed altri di simil fatta. Ed in tutti que’moti, gl’interessi di coloro, che traevano profitto dagli abusi del cessato governo, si mescolavano colle passioni selvagge di turbe superstiziose ed avide di saccheggio, sospinte dai preti e dalla loro propria espidità a quegli eccessi. Siffatti tumulti scoppiavano senza ordine o disciplina comune, disgregati, parziali, ne’luoghi sguerniti di truppe, e dove le guardie nazionali non erano ancora bene costituite ed armate. Ma appena alcune centinaia di patrioti e di soldati marciavano contro gl’insorti, costoro si disperdevano o cedevano.
Negli Abruzzi la legione de’volontari indigeni comandata dal maggiore Curci, e poche compagnie di linea bastarono ad abbattere la rivolla, mentre il Generale Pinellí assediava Civitella del Tronto. In capitanata, dove allora non erano forze regolari, la guardia nazionale e i cacciatori dell’Ofanto ristabilirono l’ordine, ed arrestarono buon numero di tumultuanti; fra i quali i più tristi; se riuscirono a scampare, cercarono rifugio nelle foreste; e divennero banditi. Una mano di condannati alle galere – gente perduta – fuggitivi o liberati dalle carceri di Bovino, accrebbero le loro file e la più parte dei capi-banda che da indi in poi infestarono quei distretti, uscirono da tali elementi. Gli ultimi tentativi di simili reazioni, per mazzo delle infime classi specialmente rurali, ebbero luogo nella Basilicata e nel Principato Ulteriore, la primavera e la state del 1861. A quel tempo le città di Venosa, di Melfi, di Rionero, con altii comuni di quellé vicinanze, erano privi di forze; le guardie nazionali nè bene ordinate nè bene armate; e i propretas col ceto medio e gli artigiani, in piccol numero tra 1a moltitudiqe dei braccianti, il malcontento dei quali era stimolato con ogni artificio dai satelliti del Borbone. Alcune delle principali famiglie di quei luoghi semi-feudali erano state grandi e potenti setto il regno di Ferdinando II, e la rívoluzione le aveva in sospetto. Temendo esse di perder grado e fortuna per le novità seguite, si diedero a cospirare con Roma e coi Comitati Borbnici di NapoIi, lusingando con danaro le promesse quelle plebi ignoranti ed inquiete, e concitandole contra i liberali.
E gli errori dei nuovi governanti aggiunsero forzze alla reazione, avendo il ministro della guerra dato licenza di restituirsi per due mesi ai propri focolari a quella parte di soldati borbonici, che un suo decreto obbligava, scorso quel termine, a riprender servizio sottd le insegne italiane. Sconsigliata agevoleza; perocchè costoro; come il resto dei solati sbandati, repugnassero tanto dal servire, quando dal ripigliare le oneste abitudini della vita domestica, onde il rimandarli alle case loro era come farne regalo ai borbonici, i quali se ne servirono ai nostri danni. E si associarono ad essi gli evasi dalle prigioni, fra’quali primeggiarono per vecchi e nuovi deliti.
Carlo Donatelli, col soprannome di Crocco, Nicola Somma, chiamato volgarmente Ninco-Nanco, ed altri ribaldi, che divennero capi delle bande nella Basilicata: rei di assassinio e di furto, condannati alle galere sotto i Borboni, ed ora da questi stessi adoperati all’impresa della loro ristorazione. Donatelli entrò in Melfi dandosi il titolo di Generale Crocco, fu ricevuto ospite in casa dei signori Aquilania, ed onorato di diplomi dagli agenti di Francesco II nello stesso modo che Fra’Diavolo, Antonelli, ed altri briganti, in principio del secolo, s’ebbero lodi, premi ed onoranze, come sostenitori del trono e dell’altare, da Ferdinando I e da Carolina d’Austria.
Queste reazioni, per altro, furono tosto spente. Le guardie nazionali del!a provincia, guidate da patrioti come Mennuni, Pisani, Bruni, D’Errico ed altrittali; accorsero a liberare i loro concittadini, e poco stante Crocco errava fuggiasco nella foresta di Lagopesole, portando seco, una forte somma di danaro; frutto delle sue rapine. Quella foresta e l’altra non meno impraticabile di Monticchio furono da indi in poi il teatro delle bieche opere dei capibanda mentovati qui sopra; sebbene le guardie nazionali e le truppe, gareggiando insieme di costanza e di abnegazione, abbiano perseguite senza tregua quelle feroci masnade, penetrando sovente nei più iticati nascondigli dei boschi, sorprendendovi le stanze, le provvigioni, il bottiino dei banditi, e facendo toccar loro sbaragli e perdite gravi ( Per, le reazioni della Basilicata vedi, fra gli altri documenti, l’interessante racconto del signor Camillo Battista di Potenza, nel quale sono semplicità, verità, e generoso amore di patria, narrati i particolari tanto delle turpitudini, quando delle vírtù di quella storia domestica).
Delle reazioni del 1861, quelle che scoppiarono nel Principato Ulteriore superarono tutte l’altre in atrociià. Ariano, Montefalcione, Montemiletto furono testimoni del micello dei migliori cittadini. In quest’ultima città, 17 liberali, chè s’erano raccolti a difesa in una casa privata; fra’quali il colto e valoroso giovane Carmine Tarantino e il sindaco Leone, caddero spietatametne mutilati. Due delle vittime, che gridavano fra le torture “Viva l’Italia” furono sotterratee ancora vive fra i cadaveri dei macellati. Il capo degli assassini Vincenzo Petruziello di Montemiletto, fatto più tardi prigioniero e fucilato, cotnfessò in punto di morte che il danaro, per pagare i suoi gli erano mandati da Beirevento e da Roma. Alle quali scelleratezze fu posto termine dalle guardie nazionali di Avellino, di Atripalda e d’altre città della provincia, dalla legione ungarese e da pochi garibaldini stanziati ancora nel mezzodi d’Italia; e chi consideri l’umana natura e la straordinaria barbarie degli aggressori, non maraviglierà se alle opere malvagie di costoro seguirono rappresaglie severe da parte delle popolazioni e delle truppe; se all’eccidio dei 42 militi del 36 di linea a Pontelandolfo i commilitoni delle vittime risposero col metter fuoco a quella terra; e se talora in uno stesso impeto di repressione fu avviluppato col reo l’innocente. La responsabilità di tali sciagure ricade intera su cloro che fomentano e nutrono il brigantaggio; ma più particolarmente su chi potrebbe cessare tante miserie in brev’ora, ritirando le sue forze da Roma,e in luogo di ciò preferisce coprire colla bandiera di una potente nazione; macchiandone
ogni gloria passata, i principali autori del male.
I tentativi di reazione furono così, l’un dopo l’altro, sventati con poco sforzo dei nostri nella primavera e nell’estate del 1861. L’attitudine del paese e la condotta delle guardie nazionali dimostrarono che la dinastia Borbonica non aveva seguaci fra le classi educate, fra gli operai, fra la parte onesta e laborioda dei paesani. Le narrate reazioni furoho,come si è veduto, macchinate dai corrotti avanzi del servodorame borbonico e dalla feccia del Clero, specialmente dopo la legge del febbraio 1861 sulla soppressione dei conventi; eseguite per mezzo dei più tristi elementi della società, e respinte con orrore dalle civili cittadinanze, le quali si sollevarono per tutto a combatterle. Nè una sola città, un solo villaggio, in tutta l’estenzione dell’ex-regno; si dichiarò, o costituì governo, in favore del bandito Re.
E la repressione dei tumulti e delle violenze della fazione, che per lui parteggiava; fu massimamente opera degli stessi cittdini, essendo a quei giorni ancotra scarse e rade le guarnigioni delle milizie regolari nelle provincie Napoletane. Del che fanno irrefutabile testimonianza, oltre le memorie dei fatti compiuti dalle guardie nazionali e dai volontari; tutti i reclami delle autorità locali ai Luogotenenti, che si sucessero in Napoli dall’autunno del 60 all’estate del 61; reclami pieni di dogliarze per essere lasciati soli, senza soccorso di truppe, e con poche e cattive armi, contro i nemici della causa italiana.
Il disonorato vessillo del fuggitiv re venne alle mani dei briganti, unico appoggio ch’ei s’avesse fra gli antichi sudditi; e il brigantaggio apparve – ridotto com’è da quel tempo ai suoi propri caratteri – non altro che una organizzazione di perseguitati dalla giustizia penale per delitti comuni, un assembramento di vagabondi, di oziosi, di avventurieri, intesi sotto pretesto di causa politica a spogliare e nanomettere ogni classe di cittadini.

E di questi caratteri del brigantaggio napoletano, come della ripugnanza delle cittadinanze a seguire le parti de’vecchi padroni, abbiano a testimonio tale, che nessun retrivo ed amico della legittimità in Europa può cuntraddire.
Nell’autunno del 1861; lo spagnuolo Borjès, jngannato dai vanti de Comitati Burbonici in Roma e altrove, si avventurò, com’é noto, ad impresa, che gli riuscì funesta. Giunto in Calabria e di là passato nella Basilicata co’suoi compagni,si trovò attorno,non come egli credeva un’onorata mano di partigiani politici presti a combattere, ma una vile accozzaglia di ladri e di assassini, a’quali s’erano accostati con diversi intenti alcuni stranieri, e fra questi certo francese Langlois, che Borjès ebbe tosto a schifo. L’esito, della spedizione di costui è noto a tutti, e non mi farò qui a ripeterne i particolari, ricordando solamente che la sua audacia fu rotta dalla pronta resistenza oppostagli dalle guardie nazionali, mentre il generale Della Chiesa gli lasciava aperta la via con inesplicabile condotta.
E furono mirabili i fatti de’Comuni di Pietragalla, di Muro, di Avigliano, di Bella e finalmente di Pescopagano, (De’fatti di Peescopagano esiste una relazione scritta del Signor Luca Araneo colto e benemerito cittadino di quel comune, e in quella difesa contro i briganti primo a combattere e a soffrire danni considerevoli. La detta relazione fu pubblicata nel Giornale napoletano “Il Paese” del 27 febbraio 1862). contro le bande raccolte dal guerrigliero spagnuolo;fra le quali Crocco, Ninco-Nanco, Coppa, Langlois e simili, capitaneggiavano, e davano ordine alle ribalderie. Dopo la disfatta toccata a Pescopagano, Crocco e il rimanente della masnada abbandonarono Borjès e i suoi pochi compagni rubandoli del denaro e del vestiario che avevano, e lasciandoli andare, mezzonudi, pe’fatti loro, su per le più inospite montagne dell’Appennino. E tutti sanno la fine di quegl’illusi, esempio agli stranieri, che si fanno propugnatori ditirannide, in casa altrui. Borjès lasciò fra le sue carte un Giornale (Il Diario di Borjes fu pubblicato per intero da Carlo Monnier nel suo libro sul brigantaggio nelle provincie napoletane. ) o Diario, di ciò che gli avvenne, dallo sbarco in Calabria sino alla dispersione delle bande im Monticchio, dolo l’accgennata sconfitta.
Quel Diario è pieno di passi come i seguenti:
Trevigno 3 novembre”…..il disordine più completo regna fra i capi stessi. Furti, eccidi e altri fatti biasimole furono le conseguenze di questo assalto. La mia autorità è nulla.”

5 novembre “…..ci arrestiamo (a. Caliciana); è stato saccheggiato tutto senza distinzione, a realisti e a liberai in un modo orribile; è stato assassinata una donna e tre o qualifo contadini.”
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9 noembre. “Giungiamo ad Alliano (villaggio reazionario dove la popolazione ci riceve col prete e colla croce alla testa, alle grida di Viva Francesco II:ciò non impedisce che il maggior disordine non regni durante la nkte. Sarebbe cosa da recar sorpresa se il capo della banda e i suoi satelliti non fossero i primi ladri ch’io m’abbia mai conosciuuto..”

Ricigliano 24 novembre “….I disordini più inauditi avvennero in questa città; non voglio darne i particolari., tanto sono orribili sotto ogni aspetto.”

Tali erano le forze el legittimo refra la vantata fedeltà de’piccoli, che la sua casa aveva contristati.
Allorché Borjès fu fatto prigione, disse all’ufficiale che lo scortava a Tagliacozzo: “io andava a Roma a dire al re Francesco II, che non vi hanno che miserabili e scellerati per difenderlo, che Crocco è un Sacripante e Langlois un bruto.”
Dopo la mala prova di Borjès, il dare indirizzo politico e militare al brigantaggio doveva apparire impossibilee agli amici interni ed esterni de’Borboni. Non per tanto, le mene della cospirazione continuano. I tentativi non mai riusciti i sul confine, si ripetono ostinatamente; la Francia guarda e lascia fare; i suoi battelli postali trasportano i briganti più micidiali da un porto all’altro del Mediterraneo; i passaporti di costoro hanno il visto francese; è non v’ha il menomo dubbio intorno alla diretta complicità di Francesco II e del governo pontificio coi masnadieri, sotto la protezione della bandiera imperiale. La Commissione d’ inchiesta ha diligentemente raccolte dai processi le prove giuridiche di questo turpe giuoco nel quale l’infamia altrui è solo inferiore alla nostra vergogna. Sino
a quando sapporteremo noi quest’onta alla patria nostra ed alla umanità? Il certo è questo, che sino a tanto che la occupazioue francese faccia di Roma un sicuro asilo ed un baluardo di tutti i nemici d’Italia, il male non cesserà d’infestarci, ed occorreranno sforzi continui di vigilanza e di repressione per limitarlo.

(Continua)