“IL DOVERE” n.19 Alla Direzione del DOVERE

dovere n 19

Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da” IL DOVERE” GIORNALE POITICO,SETTIMANALE PER LA DEMOCRAZIA – Genova sabato 18 luglio 1863 Num. 19
Pag 145 a 147

Alla Direzione del DOVERE
Lo scritto che vi mando, dacchè vi piace ingombrare le vostre colonne di scritti miei, é tolto in parte da una memoria ch’io scrissi ad amici inglesi sulle cose dell’ Italia meridionale, pubblicata nel Maxmillan Magazine del 1° luglio. Esso contiene alcune mie impressioni personali sullo stato presente di quelle provincie, e sulla infallibile trasformazione civile che un prossimo avvenire riserba alle medesime. Nel rapido viaggio ch’io feci colà in occasione dell’inchiesta, cercaci, quanto mel consentiva la ristrettezza del tempo, di prender note per mio conto e studio sulle disposizioni native e sulla condizione sociale delle popolazioni, sul poco che fu fatto sin qui e sul molto che rimane da fare per fecondare i preziosi semi della natura e dell’incivilimento in una regione tanto privilegiata dal cielo, sull’azione progressiva infine delle forze riparatrici del paese contro l’alternarsi eredità delle tirannidi.
I cenni che seguono sono un sunto di queste note.
A svolgerne il disegno occorrerebbero più mature osservazioni, e soprattutto quell’ampiezza e precisioue di dati statistici, di cui l’Italia sente ancora grandissimo difetto. Ma è mio convincimento che, approfondendo gli studi; le mie impressioni; anziché mutare, si confermerebbero. Ad ogni modo, fatene quella stima che vi piace. La memoria, per l’ ordine delle materie in essa trattate, puó dividersi in tre parti por tre numeri della vostra Rivista.

Vostro AURELIO SAFFI.

CENNI SULLE PROVINCIE MERIDIONALI DELLA PENISOLA
Disposizioni degli abitanti; — condizione degli operai e dei lavoratori del suolo in alcune provincie
Quella parte d’Italia che dalla valle del Tronto e del Liri corre fra l’uno e l’altro mare insino all’acque del Jonio, è di tutte le regioni della penisola la più doviziosamente fornita d’ogni maniera di naturali bellezze e d’utili produzioni. Le tinte brillanti del cielo,le montagne imporporate dal sole cadente,le splendide viste del mare dai seni delle caste odorifere, dove l’olivo e l’arancio crescono in selva lungo le vie, dove l’aloe e il cactus germogliano fra gli avanzi de’templi antichi, danno al paese l’aspetto lussureggiante di una contrada d’Oriente. Da quella natura il poeta nazionale dell’Italia latina prese le ispirazioni e i colori a descrivere i pregi dalla sua terra, madre feconda di messi e di maschia prole, com’ei la cantava. E le vaste foreste che coprono le valli dell’Appennino, i minerali che il suolo nasconde, i laghi sospesi fra le roccie dei monti, e l’acque vive che di lassù scàturiscono ad alimentare le rapide fiumare, presterebbero materia e forza motrice a qualsiasi lavorio d’industria, se alle ricchezze spontanee della natura sovvenisse la mano dell’uomo. Nè gli abitatori del mezzodì sono da meno degli altri italiani per quanto dipende la naturale disposizione. Chè anzi privilegiati dal genio nativo di perspicacissimi intelletti, di vivace immaginazione e di pronto sentir, e ne’validi corpi agitando animi fieri ed arditi specialmente nelle regioni montagnose, sembrano destinati a riprendere nel consorzio della patria italiana quella àperosità e quel grado, che in altri tempi occuparono. Ivi, più che altrove, vivono ancora i ricordi della passata grandezza: Ivi per ogni parte tu incontri ne’ monumenti e nei nomi de’luoghi le reliquie della forte antichità; e un non so che d’antico spira tuttavia dai sembianti e dal far della razza la quale ne’costumi e negl’idiomi, nelle feste e nelle superstizioni, nel sito delle città e de’villaggi pendenti sull’erte de’colli, addita la non interrotta eredità de’ padri Sanniti e Lucani. Poca traccia di sei lasciarono in quelle riposte valli la Longobarda conquista e gli Esarciti alemanni. Le sacre sorgenti della vita indigena rimasero intatte in gran parte in quei santuari della natura; e l’Italia ti si svela fra que? monti nella robusta semplicità delle sue forme native.

Dell’ attitudine delle popolazioni al lavoro ed alla coltura intellettuale citerò alcuni esempi notevoli. Sogliono parecchi in Italia e fuori, superficialmente giudicando, fare stima degl’Italiani del mézzodi in generale dalla indolenza e dalle corruttele, che molti anni di pessimo governo ingenerarono massime nella capitale dell’ex regno. Ma dove si lasci da pare il volgo d’ogni Camorra, se bassa od alta non monta, e si faccina più intrinseca conoscenza col buono della popolazine, recherà sorpresa il vedere qual soma di fatiche e di privazioni i contadini e gli operai del Napoletano pazientemente sopportino. Essendo in alcuna delle provincie l’agricoltura affatto rozza e selvatica, unico strumento ai lavori decampi è l’opera manuale dell’uomo il lavoratore, che per lo più dimora, non in case rurali sparse per la campagna, ma nelle città e ne’borghi; esce mentre fa notte ancora, camminando molte miglia al podere lontano; ivi faica l’intera giòrnata, esposto alle intemperie dei verni malsani, od alla cocente sferza del sole estivo, e ritorna la sera allo squallido abituro, munto dalle cure, dagli stenti, e taclor dalla febbre. E tutto questo sostiene per misera mercede, senza porzione alcuna de’prodotti del suolo. Nè però rifugge da nuove fatiche; e dove ron gli sia dato ottere inaffitto, o par concessione del Comune, un campicelio da coltivare nei momenti d’ozio per proprio conto, lascia la stanza natale, quando non vi trovi da collocare l’opera sua, e va a cercare lavoro altrove. Molti contadini della Basilicata, profittando del precoce venir delle messi nelle pianure pugliesi, scendono in quelle nel tempo della mietitura, ritornando poi alle loro montagne per la raccolta de’grani, ivi d’alcuni giorni più tarda. E tutti sanno le annuali migrazioni de’pastori e
de’mietitori abruzzesi nella Capitanata e nella campagna romana, la misera provvigione su di che campan la vita, la parsimonia e la previdenza onde sono naturalmente dotati, e come robusti, laboriosi e perduranti siano quei figli dell’Appennino.
Passando dalla campagna agli opificii industriali tu incontri gli operai dei distretti manifatturieri egualmente disposti al lavoro, assidui, aitanti. Di che basti un esenpio: il Circondano di Sora, in Terra di Lavoro, fu dalla natura provveduto d’ogni comodità opportuna ad opere d’indusiria. Scorrono in quella valle il Fibreno ed il Liri con acque abbondanti, rapide, perenni, beneficio delle alte e nevose montagne e dei laghi in quelle riposti. Onde nelle vicinanze di Sora e di San Germano sorsero da tempo alcuni lanificii e cartiere sotto ordini e privilegi di protezione governativa, com’era il costume del governo borbonico. La protezione e il monopolio produssero i consueti effetti, favorendo i pochi a danno dei molti, giovando alle fortune dei privilegiati, non al progresso delle industrie del lavoro, e della generale prosperità. L’abolizione dei privilegi e i principii della libertà commerciale adottati dalla rivoluzione del 1860, apporteranno grado grado beneficii grandissimi a quella contrada. Ma per ora le condizioni dei distretti di Sora e di San Germano sono di poco migliori da quello che erano tre anni addietro. Le vecchie fabbriche hanno sofferto danni considerevoli dalle abbassate tariffe; e non se ne iatraprescro ancora di nuove a sviluppare i mezzi della ricchezza locale. Tuttavia, in una popolazione di 448,000 abitanti, intorno ad 8500, fra uomini, donne ed adolescenti, sono impiegati negli opifici. Uno de’più vasti stabilimenti del Circondario è la cartiera del Fibreno, appartenente al signor Lefevre, Duca di Balsorauo; la quale impiega 625 operai. Di questo numero più della metà sono donne, e forse 50 ragazzi dai 12 ai 15 anni. Le donne, che lavorano a giornata, ricevono 12 grana, circa mezzo franco, al giorno, quelle che fanno opera a cottimo possono, con lungo lavoro, guadagnare quotidianamente tutta al più 16 o 17 grana; per gli operai speciali, come fabbri, falegnami, cc. il più alto profitto è dai 3 ai 4 carlini, un franco e mezzo o poco più. Minore èil salario degli operai comuni; i ragazzi sono pagati anche men che le donne. Il direttore dell’opificio, di nazione francese, professavasi contentissimo di quella buona gente. Avere egli visitato, dicevami, le manifatture di Francia, dell’Inghilterra, del Belgio, ma non essersi mai avvenuto in tanta assiduità, forza fisica, e naturale intendimento. Poneva quella razza fra le più perduranti nella fatica, e più pazienti dei disagi e delle privazioni, ch’ egli conoscesse. Senonchè la loro educazione fu miseramente negletta. Pochissimi operai sanno leggere e scrivere. Al difetto d’istruzione supplisce la facilità dell’ ingegno. Nè dei scarsi salari sono malcontenti, chè vivono di pochissimo, e le donne sono d’una frugalità primitiva. Ne’casi di malattia l’amministrazione della Cartiera somministra gratuitamente le medicine e mezza paga agl’infermi; il che pare gran beneficio, e v’è offerta di braccia oltre il bisogno della manifattura. Devo aggiungere ad onore de’fabbricatori italiani di quello stesso Circondario, che alcuni di loro, mettono, assai cure nel migliorare lo stato dei loro operai.
La Cartiera del signor Visochi in Atina, più che un opificio d’industria, è una istituzione di beneficienza e d’educazione. Il sig. Visochi è Sindaco di quella città, e vi si adoperò con ogni suo mezzo a promuovere le scuole elementari e l’istruzione popolare, prestando personalmente l’opera sua ad educare i figliuoli del povero e gli artigiani, sì rell’arti loro come nelle virtù cittadine e nell’amore della patria comune. Certo sig.Zino, il quale conduce un lanificio vicino a Sora, allorchè, nell’autunno del 1860 e nell’inverno del 1861, la reazione minacciava quei dintorni, mantenne costantemente al lavoro i suoi uomini, sebbene ciò gli tornasse a perdita grande per le difficili circostanze del mercato; ma per tal modo prevenne maggiori disordini e rimosse dagli operai tentazioni sinistre.
Il sig.Pulsinelli di Arpino, vecchio e venerando patriota, il quale possiede. un lanificio ad Isola sollevò in armi i suoi operai, marciando con essi contro le bande, che, pagate da Roma, travagliavano il confine.
Onde forse si spiega come, per la influenza di questi cittadini – oltre la vigilatiza militare sulla frontiera – e per la condizione del Circondario alquanto più lieta di quella d’altre provincie in opera d’agricoltura e d’industrie, il brigantaggio non vi mettesse radici, sebbene quel territorio sia situato quasi alle porte di Roma.
Della attitudiue degl’intelletti a ricevere rapidamente i benefici della istruzione fanno testimonianza i progressi dei fanciulli e dei giovani nelle scuole. E sono tanto più da deplorare la lentezza e la negligenza, con cui municipi e governo procedono in questa bisogna della pubblica educazione, vedendo i frutti della scarsa coltura sino ad oggi applicata in quelle provincie. Dei quali frutti, più generosi del seme, fui testimonio io medesimo in un esperimento d’una scuola istituita per associazione di particolari a San Severo in Capitanata, dove gli alunni, di corto cominciati ad ammaestrare, diedero ottimo saggio di sè medesimi.
Ma, non ostante tanti vantaggi della natura e dell’ingegno dell’uomo, varie provincie del mezizodi della penisola sono travagliate dalla miseria e dal decadimento morale. Ovvia e popolare spiegazione di questo fatto e il dispotismo borbonico in esso successo ad altre tirannidi non meno malvagie. Il dspotismo non fu certamente inoperoso anche negli altri Stati d’Italia, ma la civiltà non ne ricevette detrimento eguale a quello che afflisse alcune provincie del Napoletano. I borboni non si limitarono a perseguitare le opinioni politiche ed a porre a tortura le umane membra; impedirono inoltre, con più studio ed ostinazione ch’altri non facesse, ogni maniera di progressi civili, incatenando il paese a quella pecie di barbarie nella quale era stato lasciato da’suoi Baroni e dalla signoria spagnuola. E i buoni principii della nuova dinastia nel passato secolo furono al tutto spenti dallo inselvatichirsi ed imperversare della medesima nel presente. Onde in varie provincie del mezzodi si protrasse, in mezzo alla civiltà del secolo XIX, uno stato di cose da lunga tempo dimenticato nella rimanente Italia; o che ricorda i masnadieri e i bravi del medioevo.
Due fatti principali siano d’argomento ai lettori a giudicare della infelice condizione che la barbarie borbonica fece a que’popoli.
Prima di tutto le provincie Napoletane furono con ogni studia chiuse ad ogni esterna influenza d’incivilimenlo, isolate le une dalle altre e tenute quasi interamente prive di strade. In secondo luogo i lavoratori del suolo, la maggior parte braccianti poverisimi, o, come i francesi dicono proletari, non associati da alcun diritto, interesse od affezione alla terra, furono ridotti all’estremo della miseria, e gli stessi proprietari grandemente impoverirono, in taluni luoghi pei vicoli che inceppano il possesso e la coltivazione dei fondi, da per tutto per gli ostacoli opposti al commercio dei cereali, alla colonizzazione dei terreni incolti, alla divisione dei possedimenti comunali a beneficio dei paesani. A queste cagioni fondamentali di miseria sociale s’aggiungevano, come accessori e stimoli al male, le corruttrici ingerenze del clero, le vessazioni della polizia, il favore e la venalità posti in luogo della legge, e la malvagità delle sette servili, che i reggitori adoperavano in ogni Comune a spiare i pensieri e gli sguardi della gente onesta e liberale, premiando siffatti servigi colla licenza di usare ed abusare delle cose municipali, e di esercitare sui deboli e sui perseguitati angherie e spogliazioni d’ ogni fatta.
Delle vie e de’mezzi di comunieaziane dirò sol questo. Le tre Calabrie non hanno che una strada, la quale le congiunge a Napoli, interrotta in più d’un luogo, e senza ponti sugli impetuosi torrenti. Dalla Capitanata alla Terra di Molise e agli Abruzzi non è via praticabile con vetture. Il servizio postale da Teramo e Chieti a Foggia facevasi per Napoli, di modo che una settimana non bastava alle corrispondenze fra provincie e città vicine, oggi poste dalla ferrovia a distanza di due o tre oro l’una dall’altra. La Basilicata, provincia importantissima, poco men vasta della Toscana, naturalmente ricca e capace, tra valli, pianure e coste nlarittime, d’ogni varietà di prodotti dall’abete e dal cerro della montagna all’olivo; al cotone, al tabacco, manca per quattro quinti di strade, é in molte parti deserta, squallida, contristata dalla mal aria, per l’abbandono in che la lasciò l’industria dell’uomo. Aggiungete il difetto di comodi porti, malgrado l’ampiezza e la facilità delle spiaggie, in ciascuno dei tre mari che le bagnano, e potrete inferirne la solitudine e il deperimento, al quale un governo selvaggio condannò per mezzo secolo ogni ragione di commerci; di utili operosità e di studi civili nell’Italia meridionale. Lasciando da parte le opportunità topografiche offerte per tal guisa alle bande dei malfattori, erano necessari effetti di queste cagioni l’incaglio della produzione per ristrettezza e difficoltà di mercato, l’ozio forzato e l’abbrutimento della popolazione, la mancanza di un ceto medio illuminato, attivo, indipendente, e di una classe di operai numerosa ed aspirante a sollevarsi moralmente a dignità cittadina, ogni germe di virili virtù prostrato, il vizio e la frode signoreggianti.
Chi abbia veduto alcuni de’più selvaggi territori dell’ex-regno, come per esempio il Gargano, le rive del Fortore, le foreste di Monticchio di Lagopesole, e le lande spopolate della Capitanata, non maraviglierà che quelle triste solitudini fruttino briganti.
In quest’ ultima provincia, particolarmente, i possessi e il lavoro della terra durano costituiti in modo, da sfruttare ogni beneficio della natura. L’ignoranza dell’ uomo e la perfidia de’cattivi governi inventarono la miseria e il dissolvimento sociale, dove tutto cospirava a prosperità di civile convivenza. La Capitanata si stende dalle alture del Gargano e dalle più basse colline dell’Appennino in vastissimo piano lungo le coste dell’Adriatico, da Manfredonia a Canosa. Fu, sin dai tempi più antichi, comune pastura de’greggi e dagli armenti delle montagne, ch’ivi scendevano, per la mitezza del clima e per la fecondità de’pascoli, ne’mesi d’autunno e d’inverno.
I pubblicani romani ne cavavano grossi proventi,e v’ha chi deriva il nome di Tavoliere dalle tabelle de’loro conti.
Nell’età di mezzo i signori feudali si appropriarono quelle terre, e le tennero nella loro giurisdizione sino a che, nel XV secolo, A!fonso II d’Aragona, re di Napoli; le ritirò alla Corona, cacciandone coloro che avevano parteggiato contro di lui, ed affittandole annualmente ad uso di pascolo, a pastori la più parte Abruzzesi, mediante contratti appellati “professazioni” dalla dichiarazione che quelli far dovevano del numero degli animali, che vi menavano a pascere. Questo sistema dal quale la fiscalità de’governanti ritrasse somme considerevoli a danno della buona agricoltura e della bene ordinata pastorizia, fu continuato, con varie alterazioni nella misura delle imposte, sino al regno di Giuseppe Bonaparte, il quale nel 1807 fece una legge che mutava le annue professazioni in una specie di affitti permanenti o censi, con obbligo ai censiti di pagare un canone al demanio regio oltre le tasse ordinarie. I più doviziosi fra i locati,che così chiamavansi coloro che avevan l’uso del pascere, ottennero nel nuovo concorso la preferenza sui meno abbienti, e nacquero da ciò grandi apparenze di vaste possessioni con poca sostanzaa di capitali per ridurle a coltura. La restaurata dinastia borbonica annullò nel 1817 questa riforma del Tavoliere, ritraendo in parte le cose al vecchio stato con accrescimento di miseria per tutti. Secondo la legge del 1807 ipossessori del Tavoliere avevano facoltà di coltivare le terre ed affrancarle.
La legge borbonica restrinse a un quinto d’ogni possesso la libertà della coltura e vietò gli affrancamenti, eccetto in piccola misura e con lunghe e dispendiose formalità. Oltre a’quali impedimenti il governo borbonico, facendosi, ad assegnare da capo te locazioni, non tenne conto, a beneficio degli attuali possessori, delle spese da questi applicate alle migliorie agrarie, onde molti; non potendo sostenere le perdite fatte e i nuovi pesi, dovettero cedere parte delle terre, e gli abbandonati poderi furono concessi ai sattelliti e favoriti della Corte.
Così la legge Bonapartiana tornò di poco vantaggio e la Borbonica di rovina alla Capitanata e agl’interessi generali del paese collegati colle industrie di quella provincia; avendo la prima incoraggiato l’avidità de’grandi possessi invece di dirigere con savi provvedimenti una giusta distribuzione della proprietà ad incremento dell’agricoltura e della prosperità universale, e la seconda distrutto ogni buono ordine civile ed economico. Onde i possessori antichi del Tavoliere, già ridotti al verde dalle spese sproporzionate ai mezzi, dalla necessità di prestiti a condizioni inique e dallo accumularsi dei debiti; furono la maggior parte disfatti; e de’nuovi alcuni crebbero a grandi fortune per la facilità de’pascoli spontanei, ma la vera ricchezza fondata sulla coltura del suolo e sulla operosità della classe agricola venne sempre più decadendo, le campagne si spopolarono, le città intristirono, un volgo sinistro di vagabondi e di ladri rurali, sotto il nome di terrazzani, vi si annidò in sozzi e miserandi tuguri. E fuori ampissime estensioni di terreno ritornarono all’antica selvatichezza; le bene ordinate e fiorenti masserie divennero rare; povera ed infrequente la vegetazione, tranne di pasture incolte, senz’alberi stalle né case, dove errano, come in deserto, i greggi, gli armenti, e le neglette razze de’cavalli pugliesi.
Ivi il viandante cammina per molte miglia nella solitaria e monotona pianura, senza incontrare indizio di domesticità, di vita e di lavoro, toltone, di tanto in tanto, qualche povero pastore abruzzese, avvolto nel suo logoro mantello, e vagante per molti mesi dietro alla sua mandra, senza tetto, senza amici; maravigliosamente rassegnato al suo destino.

(Continua).