I 160 anni di unità d’Italia /3

I 160 anni di unità d’Italia /3 
L’invenzione del Risorgimento nell’Italia senza gli italiani

Lunedì 15 Marzo 2021 di Gigi Di Fiore

Anche il recente dossier, trasmesso il 13 marzo da Rai 2 sui 160 anni di unità d’Italia, si concludeva con il ripetuto dilemma senza risposta: “fatta l’unità politica, bisognava fare gli italiani”. E’ la frase, attribuita a Massimo D’Azeglio, su cui pochi riescono a fare reali riflessioni. Il Risorgimento fu una costruzione politica, raggiunta con la violenza e l’arte della diplomazia, ma priva dei presupposti essenziali: la coscienza unitaria e la comune identità di chi abitava la penisola. Mancavano, insomma, gli italiani che fossero tutti coscienti di appartenere a un’unica nazione.

Un aspetto non da poco, su cui si soffermò anche il professore Roberto Martucci nel suo famoso libro “L’invenzione dell’Italia unita”. Aspetto studiato da più storici inglesi come Christopher Duggan che, nel suo “Forza del destino”, sostenne che l’identità unica italiana non è mai esistita, ma fu una costruzione. Già, ma in che modo? Bisognava far assimilare con strumenti popolari il mito della nazione unica dalla comune lingua e cultura. In questo, con il suo libro “Cuore” fu maestro (anche di iscrizione alla massoneria) Edmondo De Amicis.

Di più, però, fecero gli storici nel secolo che la storiografia considera quello della storia: l’Ottocento. Nella sua lezione alla Sorbona su cosa fosse una Nazione, l’11 marzo 1882 Ernest Renan spiegò che la vera storia è l’opposto della famosa memoria condivisa. E fu più chiaro: per raccogliere consenso su una nazione, va rimosso tutto ciò che prima si ricordava ed era storia. Quindi, la costruzione di una memoria nazionale passa per “operazioni di oblio” su avvenimenti che possano mettere in discussione la legittimità di una entità statale. In questa attività, l’opera degli storici legittimanti il potere istituzionale e politico diventa nevralgica.

Lo fu anche in Italia dopo l’unità, attraverso l’istituzione di Società nazionali di storia (quella del Risorgimento nacque nel 1906), di cattedre universitarie sul Risorgimento (così tanto criticate da Benedetto Croce). Un bellissimo libro di Adriano Prosperi, professore emerito di storia moderna alla Scuola Normale superiore di Pisa, uscito da poco per Einaudi, ha un titolo emblematico: “Un tempo senza storia”. Proprio in questo libro si ricostruisce l’attività di selezione e oblio affidata agli storici per legittimare un sistema di potere istituzionale. Emerge «il carattere sporco della conoscenza storica», scrive Prosperi.

La storia come macchina per dimenticare. La cultura classica rimossa dal cattolicesimo, la storia degli Stati preunitari dagli storici dell’Italia unita con la ridicolizzazione e la bolla negativa. Ma bisognava «fare gli italiani» e convincerli che il grande processo di unificazione avesse fondamento etico necessario. Anche se poi Gaetano Salvemini spiegò che il Risorgimento fu «rivoluzione dei ricchi», che non aumentò la democrazia in Italia ma favorì una elite oligarchica, i pochi autorizzati a votare. Fuori, i contadini, gli analfabeti, la maggioranza degli italiani da fare.

Come fu raccontato il Risorgimento e l’unificazione dell’Italia? Con i meccanismi individuati da Renan: selezione e oblio, perchè «chi controlla il presente controlla anche il passato» scrive il professore Prosperi. Anche attraverso gli archivi, dove la catalogazione dell’immenso materiale possibile da conservare subisce scarti e scelte. E, per questo, inducono sospetto gli storici innamorati e schiavi del «feticcio documento», come unica fonte attendibile. La scoperta di altre e vaste fonti poco tradizionali sarebbe stata l’innovazione degli “Annales” di Marc Bloch.

Ma la trasformazione del fare e studiare storia avvenne in Italia proprio con l’unità, come avveniva altrove nel secolo delle nazioni. Società storiche degli Stati preunitari trasformate in “Deputazioni locali” e, spiega il professore Prosperi, «eruditi locali con il solo compito subordinato e servile di raccogliere materiale da mettere a disposizione per la stesura della storia nazionale, affidata agli Istituti storici nazionali». Un grande fratello da visione unica, che definiva «storia locale», o «di parte» le fonti e i racconti preunitari non funzionali al disegno di spiegare la bontà e la necessità del Risorgimento, inserendo nell’oblio le vicende scomode. Gli storici italiani aumentarono il loro prestigio, come altrove.

Un’operazione che il fascismo avrebbe portato ai massili livelli, con la riforma Gentile, l’esaltazione degli studi sull’impero romano e sul Risorgimento omologato. Garibaldi divenne «il primo fascista dell’Italia», nel 1935 si diede vita all’attuale Istituto di storia del Risorgimento erede della Società nazionale del Risorgimento. Scrive ancora il professore Prosperi, nel suo libro: «Nell’insegnamento e nella ricerca, la storia venne concepita e usata come macchina per dimenticare, con la selezione delle cose da ricordare e far apprendere, cancellando tutte le altre».

È naturale, con questo compito supremo assegnato agli storici, che a loro fosse delegato il racconto esclusivo dell’unica storia accettata dal potere politico, istituzionale e culturale. Mettere in discussione il Risorgimento, anche se solo nei suoi metodi o nelle sue conseguenze immediate, significava mettere in discussione l’Italia come nazione unita. Non stupisce, quindi, il famoso «Giù le mani dal Risorgimento» che urlò Alessandro Galante Garrone contro ricerche non omologate dalle accademie su quel periodo della storia. Ecco, bisognava fare gli italiani e l’operazione, ora neppure più tanto nascosta, fu quella. L’insofferenza su ricerche alternative, vicende strappate all’oblio imposto in quegli anni, ne è la diretta conseguenza. E, sulle celebrazioni per i 160 anni di unità, si avverte tutto il peso di quella eredità culturale.

Fa bene all’Italia e alla sua unità perpetuare questa operazione? «Fare gli italiani», creare un’identità unica che non esisteva neanche nella lingua se i famosi briganti venivano interrogati dagli ufficiali piemontesi con gli interpreti. Gli «storici», in funzione di guardiani del sapere, difendono se stessi. Le ricerche e gli studi di «non storici» vengono respinti per «lesa maestà». L’operazione di oblio non può essere rimossa dopo 160 anni. Ma tutto questo è un pericolo per l’Italia e i suoi problemi da affrontare. Ha scritto Claudio Magris: «L’ignoranza del passato si risolve nell’incapacità di affrontare con adeguate difese i problemi del presente». Ecco, solo una grande operazione verità, fuori da «miti e agiografie», potrebbe oggi «fare gli italiani». Ma è una grande scommessa.

 

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