Le rivelazioni impunitarie della pentita Costanza Diotallevi

Le rivelaziono impunitarie della pentita Costanza Diotallevi
di ITALO ZANNIER
da “Il Risorgimento in Pellicola” a cura di Davide Del Duca, IRRSAE Cinemazero, Pordenone, 1991

L’affaire Diotallevi é certamente come scrive Piero Becchetti, “il fatto più clamoroso di tutta la storia della fotografia italiana”, ma é anche una tra le prime testimonianze della utilizzazione della fotografia per fini politici, facendo ricorso al falso e al fotomontaggio. “Un fatto di inaudita gravità”, afferma il De Cesare nella sua monumentale storia di Roma, “accadde nei primi giorni del febbraio 1862, sollevando un grido di indignazione di tutta la gente onesta, né a Roma soltanto, ma a Parigi, a Vienna, a Monaco, a Torino e a Napoli. Furono fatte e distribuite false fotografie ignobili della spodestata regina, né ingiuria più vile fu immaginata contro l’onore di una donna (…) La polizia si mise alla ricerca degli autori di tanta ignominia, e li scopri in persona dei coniugi Antonio e Costanza Diotallevi, giovani fotografi di fama perduta. Furono arrestati…”. Era il 6 marzo 1862 quando, con l’arresto dei coniugi Costanza Vaccari e Antonio Diotallevi da parte dei gendarmi pontifici, si concludeva a Roma il primo atto della complessa vicenda di cui intendiamo dare notizia, anche sulla base di un sollecitante volumetto pubblicato clandestinamente nel 1863, che é stato pressoché dimenticato fino a oggi, se si esclude qualche incompleta citazione. I coniugi Diotallevi, che pare esercitassero il mestiere di fotografo a Roma, “al numero 9 di Via del Farinon”, vivevano, più probabilmente, “di ripieghi”, non essendo rimasta traccia della loro attività fotografica, se si esclude l’implicazione, forse indiretta, nello scandalo delle false fotografie oscene, che avevano per soggetto gli spodestati reali di Napoli, ospiti del Papa, dopo la fuga dal forte di Gaeta il 14 febbraio 1861. Antonio Diotallevi, sottotenente dell’esercito pontificio, “seconda compagnia del primo reggimento Linea Pontificia”, era stato destituito e “ridotto a vita del tutto miserabile” a causa del suo matrimonio “senza la debita licenza” con Costanza Vaccari, ventenne e bella, ma povera, (non possedeva la dote richiesta di 3000 scudi), celebrato “per contentar la madre moribonda, alle ore 1 e mezzo della notte del dì 5 gennaio 1859”. A causa di questa infrazione ai regolamenti era stato arrestato, ma in seguito liberato, per intercessione della sposa Costanza presso il generale conte De Goyon, comandante del corpo francese di occupazione. Antonio Diotallevi, espulso però dallo Stato Pontificio, si rifugiò temporaneamente in Piemonte, dove entrò in contatto con le organizzazioni patriottiche italiane. Costanza, rimasta sola, nonostante il mestiere di fotografa, pittrice e mosaicista, come in seguito si definì, “studiò di riparare alla miseria non guardando da maritata la sua onestà più gelosamente di quello che avesse fatto mentre era nubile…”; la reputazione dei coniugi Diotallevi non doveva essere comunque delle migliori a quel tempo, anche se non si vuole dare del tutto credito a quanto sul loro conto ebbe a declamare un certo avvocato Dionisi, nel corso di una requisitoria al processo contro i patrioti romani Venanzi e Fausti, dove Costanza, come vedremo, svolgerà il ruolo di “pentita” e quindi di spia, denunciando in modo categorico fatti e personaggi collegati al clandestino Comitato Nazionale Romano, un’organizzazione patriottica pagata dai piemontesi, che dal 1853 stava dando molto filo da torcere alla polizia e alla S. Consulta Pontificia. Durante il processo l’avvocato Dionisi si era, tra l’altro, espresso così; “Mi è forza poi di non discendere a più precisi ragguagli sulla vita e costumi di tali soggetti famosissimi per ogni bruttura e per qualificato lenocinio. E dubbio se i Diotallevi esercitassero il mestiere di fotografo, e neppure la lunga “confessione” di Costanza, pubblicata con note e commenti dal Comitato Nazionale, aiuta a far luce su questa loro condizione professionale; sembra soltanto accertato che Costanza possedeva una “macchina fotografica”, il che era comunque per se stessa una colpa, a leggere il comma secondo del famoso “Editto” del Cardinale Vicario Costantino Patrizi, pubblicato il 28 novembre 1861, con lo scopo di controllare usi e abusi nel settore della fotografia, ma soprattutto “perché da questo utile ritrovato delle Scienze niun danno provenga alla onestà dei costumi…”. La pena per tale misfatto, “ritenere macchine fotografiche per proprio e privato conto”, consisteva nella multa “dagli scudi venti ai cinquanta”, mentre per i “Modelli” che si fossero prestati “a essere effigiati in modo, o atto contrario al costume e alla pubblica decenza si riservava “un anno di opera pubblica”, qualcosa di simile ai lavori forzati. Infatti, “a pochi mesi dalla pubblicazione dell’Editto, nei primi giorni del febbraio 1862, scoppiò lo scandalo…”; lo scandalo delle false fotografie costruite in studio, e dei fotomontaggi realizzati con forbici e colla, che raffiguravano la bella e giovane regina Maria Sofia, e il marito Francesco II di Borbone, in pose oscene, con lo scopo evidente di porre in discredito sia la Corte napoletana in esilio, sia quella pontificia che ne era l’ospite. Il pericoloso mercato delle fotografie pornografiche, non era però allora a Roma cosi ampio da giustificare la fabbricazione e la diffusione di queste impertinenti e diffamatorie immagini, se non con motivazioni politiche, legittimate invece dalla situazione internazionale assai tesa, dopo la spedizione dei Mille, la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861, i tentativi garibaldini di conquistare Roma con la forza. I “piemontesi”, tramite il Comitato Nazionale Romano, avevano creato a Roma una fitta rete di propagandisti e di agitatori (e anche di “terroristi”), che davano molto fastidio alle autorità pontificie, intenzionate però, anche con l’aiuto degli alleati francesi (il corpo degli zuavi, comandati dal De Goyon, prim’attore in questa vicenda e amante della Diotallevi), alla più rapida repressione. Chi altri, se non gli avversari politici del Borbone e del Papa, poteva aver avuto interesse a diffondere presso le Corti europee le immagini di Sofia così oscenamente allusive?

Regina-Nuda

E’ improbabile che l’iniziativa sia stata dei poveri, presunti fotografi Diotallevi, come tentarono di dimostrare quelli del Comitato Nazionale Romano, pubblicando il volumetto di ben 204 pagine, nel quale sono riportate e commentate aspramente soprattutto “le rivelazioni impunitarie di Costanza Vaccari-Diotallevi nella causa Venanzi-Fausti”, in un processo che portò all’arresto di innumerevoli patrioti e fiancheggiatori, denunciati da Costanza in cambio della libertà sua e del marito, accusati come s’é detto, di essere gli autori delle famigerate fotografie, che vennero utilizzate come pretesto per un’ampia operazione di polizia politica. “La Diotallevi, avezza a vendere il suo corpo a chi ne avesse voluto, vendette al Processante la sua coscienza”, precisa l’anonimo estensore dell’opuscolo clandestino, che in appendice contiene anche una serie di lettere autografe di Costanza, stampate in fac-simile con una tecnica fotografica, scritte durante la detenzione, e che avrebbero dovuto convalidare la tesi dei “piemontesi” circa la falsità di molte sue dichiarazioni, e comunque ribadire obbiettivamente l’ambiguità della spia pentita Costanza. Questa sosteneva di essersi infiltrata nell’organizzazione piemontese, per conto del generale De Goyon, “tipo antipatico personalmente, e subdolo politicamente”, precisa il De Cesare, e di essere riuscita a ottenere una tal fiducia presso i patrioti romani, da meritare l’incarico dell’esazione degli “oboli per il Monumento a Cavour… Ma la Diotallevi, scrive De Cesare, “fu spia, ad un tempo, dei comitati liberali, del generale De Goyon, del De Merode, di monsignor Sagretti, del Collemassi (il Processante, n.d.a.); ingannò tutti e spillò denaro da tutti… Nonostante ciò, Costanza Diotallevi, a poco più di vent’anni riuscì ad essere un personaggio di primo piano, durante l’importante processo politico a “Venanzi-Fausti”, e anche se la sua cultura, come quella di altre donne “delle quali in ogni tempo si servì la corte pontificia, adoperandole negli incarichi più gelosi della diplomazia, delle cospirazioni e dello spionaggio (…) non superava una discreta conoscenza della lingua francese…”, nelle sue dichiarazioni al Processante, il giudice pontificio Collemassi, riportate nel libretto dell’ottobre 1863, rivela una notevole abilità e furbizia nel destreggiarsi con i fatti e con gli innumerevoli personaggi da lei coinvolti e quindi fatti arrestare. Gli incartamenti relativi alla “rivelazione” di Costanza erano stati poi “sequestrati” dal Comitato Piemontese, che aveva subito provveduto alla pubblicazione e a depositare le carte processuali e le lettere originali, “nell’ufficio del giornale fiorentino La Nazione”, ove rimasero “per lo spazio di due mesi a datare dal 1 ottobre (1863 n.d.a.), a disposizione di chiunque avesse avuto intenzione di leggerle e di verificarle. Circa le fotografie in questione, che però nel processo ebbero un parte secondaria e pretestuosa, il Comitato Nazionale Romano tentò di attribuire tutta la “ignobile” iniziativa ai Diotallevi, mentre Costanza invece sostenne nella sua deposizione, che gli scopi dei “piemontesi” erano quelli di fare offesa alla coppia reale, anche mediante altre iniziative, tra cui un’aggressione al Re, non riuscita, lungo i viali del Pincio, e una “impertinenza” a Maria Sofia, durante una delle sue abituali uscite da Palazzo in carrozza. Il processo ebbe inizio il 3 febbraio 1863 e in questa occasione Costanza si offrì di “fornire prove sulla reità del Fausti”, abbandonandosi inoltre a un racconto ben più ampio, articolato e senza inibizioni, circa le fotografie oscene delle quali era accusata d’essere l’autrice e che forse non erano neppure in possesso del Tribunale, se Costanza dovette descriverle nel dettagli. Per questa oratoria, Costanza si meritò una sfilza di epiteti poco lusinghieri, da chi ha scritto il libretto in questione, che, di volta in volta, così la definisce: Arianna, Sibilla, fatidica, Signora riservata, Madama, Dulcinea, prostituta, ispirata dama, Dea, Minerva, in un alternarsi di rabbia e di ironia Occupandoci noi ora soprattutto degli aspetti che riguardano la fotografia, è opportuno ricordare in questa cronaca che a quel tempo, a Roma, il ritratto della bella Sofia era assai ricercato e in città circolavano molte “carte de visite”, che la ritraevano in pose e abbigliamenti vari e anche stravaganti, come scrive Louis Delatre nei suoi “Ricordi di Roma”, quando afferma che essa si prestava volentieri a quei capricci e ne nacque una serie interminabile di ritratti… Era vestita da artigliere, da marinaio da zuavo, da amazzone, da monaca, da borghese, da signora; a piedi, a cavallo, in tilburv; col fucile, col crocefisso, col frustino, col ventaglio” (ma dove sono conservate queste fotografie? n.d.a.). Delatre, quasi per giustificare l’esistenza delle fotografie oscene aggiunse che “insomma non mancava più che raffigurarla da Venere o da Eva… “Un fotografo anonimo non si peritò di colmar tal lacuna precisa infatti Delatre, e “fece la regina in Venere del Tiziano circondata da cardinali, da monsignori e da guardie nobili che le presentavano i loro omaggi. Il Papa, in fondo, dava a tutti l’apostolica benedizione”. Il “fotografo anonimo”, secondo il Comitato Nazionale Romano e, in un primo tempo, anche per convinzione della polizia pontificia, sarebbe stata Costanza Diotallevi, oppure suo marito, che avrebbe utilizzato la moglie come modella, essendoci, si assicurava una notevole somiglianza fisica tra Costanza e Maria Sofia di Borbone. Ma Costanza Diotallevi, nelle sue “rivelazioni”, offri altre versioni, per scagionarsi, coinvolgendo nel contempo diversi fotografi romani, sia pure indirettamente, tra cui addirittura don Antonio D’Alessandri (1818-1893) che, assieme al fratello Paolo Francesco, aveva uno studio, prima in Via del Babuino 65 e quindi in Via Condotti, 61-63 ed era “fotografo pontificio”‘ il nome del D’Alessandri, scrive però Silvio Negro, che si è occupato in varie occasioni dell’affaire Diotallevi, “si trovò senza colpa mescolato nello scandalo fotografico verificatosi ai danni della Regina di Napoli, esule a Roma, la bellissima Maria Sofia…”, in quanto i due fratelli D’Alessandri avevano “la privativa dei ritratti di Pio IX e della Corte papale e furono anche i fotografi dei Borboni a Napoli esuli a Roma dopo il ’61… Costanza, come si legge più precisamente nel suo racconto, indica quale autore di una parte delle fotografie incriminate (i fotomontaggi), un certo Belisario Gioia “ritoccatore nello studio D’Alessandri in via Condotti, che è quello che ha fatto tutti i ritratti della regina e ne ha privativa”, che avrebbe prelevato alcune copie delle immagini di Sofia e da esse tagliato “la testa a quella che sta in volgimento a destra a mezzo profilo e a grandezza normale”, provvedendo a “copiarla ed attaccarla poi al corpo pur copiato e decapitato della modella”. (La fotografia della modella nuda, sempre secondo Costanza, sarebbe invece stata sottratta dallo studio del fotografo “Mariannecci al Babuino “). Questo Belisario Gioia, dunque, risulterebbe tra i primi autori di fotomontaggi politici, ossia l’Heartfield della Roma papale, ma non vi é purtroppo nessun’altra traccia della sua esistenza, se si esclude questa descrizione di Costanza, che offre comunque altre indicazioni sulla tecnica usata, precisando che “il detto Gioia ritoccò il tutto perché non si conoscesse l’attaccatura”. La regina, in uno di questi fotomontaggi, continua Costanza, é raffigurata “in piedi, ignuda totalmente, con le mani, che l’una tiene l’altra al basso ventre, e Goyon alla borghese che la sta guardando”, dove evidentemente era stata utilizzata nella composizione a collage, una fotografia di repertorio del generale. Costanza Diotallevi risultò coinvolta anche in questa faccenda, perchè sua sarebbe stata la macchina fotografica che, lei stessa confessò, “si trovava di aver prestata a Catufi, il quale l’ha tuttora; ed appunto non me ne rifiutai perché volevo conoscere minutamente il tutto per il fine che mi ero”; ossia di fare la spia per conto del De Goyon. Quanti fotomontaggi vennero in effetti prodotti e diffusi? Costanza affermò che di quello descritto “ne hanno fatte più produzioni”, pur ritenendo “che non siano state pubblicate se non dentro Roma”, mentre di “un altro fatto in simile positura sostituendo però al generale De Goyon l’Eminentissimo Antonelli…”, non seppe indicare quante copie vennero fatte, perche quando fu arrestata “stavano lavorando”. Il fotografo Gioia finì naturalmente in carcere assieme a molti altri, tra cui Domenico Catuffi (“pittore di quadri” in vicolo del Vantaggio 8), Antonio Marianecci e Achille Ansiglioni, fratello di Giuliano, fotografo attivo in Via del Corso 150, che venne però a sua volta compromesso dalle dichiarazioni di Costanza, come si rileva dal suo racconto, che riportiamo più avanti integralmente, dove si fa ampia luce sul contenuto delle immagini in questione, per le quali forse era stata la stessa Costanza, come s’è detto, a far da modello, invece della giovane “scuffiara”, sosia di Sofia, che non venne mai rintracciata Nella complessa vicenda fu coinvolto, come fotografo, anche monsignor Filippo Bottoni, che venne arrestato per aver eseguito fotografie pornografiche, a suo dire realizzate come innocenti studi di nudo, per conto di alcuni pittori; “al Cardinale Vicario di Roma”, scrisse così allora nella sua deposizione mons. Bottoni, “giustamente inquieto per le fotografie oscene che erano in giro per la città, nelle quali veniva offesa l’onestà della Sacra Persona del Santo Padre e della ex Regina di Napoli, era stato riferito esservi un prete dilettante di tali schifose operazioni…”. Comunque, Costanza Diotallevi, nel secondo atto di questa tragicommedia, diede sfogo alla parola, forse anche alla fantasia, durante la “rivelazione impunitaria”, e così spiegò al Processante, per filo e per segno, come si erano svolti i fatti di cui era a conoscenza: “Sappia adunque che il partito divisò di fare ingiuria alla corte di Napoli col ritrarre in mosse le più oscene la regina, ed ecco come si principiò a dare esecuzione all’iniquo divisamento. Evvi una giovane scuffiara, romana per quanto credo di nascita, dell’età di circa vent’anni, che nei primi dì del gennaio 1862 lavorava come giovane presso la cuffiara al pozzo delle Cornacchie, e che, dopo aver cercato di prender con essa entratura ordinandole un cappello di scudi 5 che inutilmente ho atteso, non ho potuto più sapere ove sia andata, e non mi si é voluto dire né dalla cuffiara né dalle altre giovani ove sia ed ove dimori. Questa giovane che somiglia quasi alla perfezione, fu chiamata da… (i puntini sono nel testo originale, n.d.a.) Deangelis della Manziana: portata a casa sua, sotto pretesto di far cappelli alla sua amica che tiene, e per la quale ha abbandonata la famiglia, ebbe dallo stesso Deangelis da prima scudi 100, con la qual somma dopo tante renunzie, condiscese a farsi ritrattar nuda con la fotografia quattro volte, ossia si stabilì dovesse stare a quattro pose di diverso atteggiamento sempre perfettamente ignuda. Fu ritratta nella stessa camera del Deangelis dall’ottico Ansiglioni padrone proprio del negozio al Corso (il corsivo è nel testo originale, n.d.a.), uomo grasso, basso, rosso, di circa anni 35, fratello di Achille Ansiglioni su nominato. Domenico Catufi poi fu quello che incollò nei cartoni e ritoccò le negative del ritratto. Ne tirarono circa 60 copie, delle quali 15 ne furono mandate a Torino, 10 a Parigi, a mezzo di spedizione qui fatta a Terni a Pietro Patrizi, mentre esso ha trafile certe di corrispondenza; per Roma ne furono mandate una trentina e ne spedirono, credo, per la posta un esemplare al re di Napoli e forse anche all’Eminentissimo Antonelli, e al General francese. Uno degli atteggiamenti era totalmente ignuda, seduta semisdraiata in una poltrona, con la mano alla natura in atto di far ditali avente in prospettiva di essa i ritratti di Sua Santità, del signor Generale, dell’Eminentissimo Antonelli e dell’ufficiale de’ zuavi De-Castro. La seconda posizione rappresentava la regina ignuda al bagno in una bagnarola rotonda sulla quale galleggiavano membri umani di tutte le proporzioni quali essa andava accarezzando. La terza si vedeva ignuda, lunga sopra un sofà, avente sopra in atto di coito uno zuavo in modo da non vedersi il volto, e si divulgò essere quello De-Castro ufficiale dé zuavi; sotto poi a questa esposizione leggevasi in lingua spagnuola “Tomes sit gigar” (prendete questo zigaro). Gli posero questa espressione, perché al dir di essi, stando in un giorno De-Castro dal re dopo il pranzo, nel dare un sigaro alla regina così si esprimesse e che nel riceverlo le stringesse la mano; del che accortasene la regina madrigna facesse chiassi, e che irritata la regina giovane di ciò, prendesse un pizzo della tovaglia e mandasse in guasto la tavola; ciò che ha riferito un giovane da me sconosciuto, ma che la corte chiama sempre in aiuto dei camerieri per servire a tavola, e che vi fu a servire anche all’occasione che fu a pranzo dal re di Napoli Sua Santità. Questo birbante seppe dire perfino che Sua Santità si era ubriacato, appoggiando che questa era la sborgnia del giorno avanti allorché Sua Santità si svenne dicendo o assistendo messa la terza festa di Pasqua 1861. La quarta posizione rappresentava la regina sempre ignuda in un sofà mezza addormentata, e Sua Santità che sta per entrare nella porta che vedesi traschiusa, ed il Generale francese in distanza vestito però alla borghese che segue Sua Santità. Debbo avvertire che dopo tali ritratti, la giovane é svanita da ogni mia ricerca. Hanno voluto far nuove ingiuriose produzioni; ma non essendo reperibile la detta giovane cuffiara, hanno per farle presa una copia di modella che esisteva nello studio da fotografo di Mariannecci al Babuino, e questa copia fu comprata da Achille Ansiglioni ….”. Questa é la efficace descrizione dettata da Costanza Diotallevi, circa alcuni tra i più antichi falsi della storia della fotografia, utilizzati allora dai “piemontesi” in un’operazione politica, che mise però a rumore, non tanto il disattento popolino romano, quanto le Corti europee, dove appunto vennero inviate le verosimili immagini, credibili quel tanto che la fotografia lascia intravvedere, comunque sufficiente, anche per i sottintesi, a gettare maliziose ombre di sospetto sul comportamento di Maria Sofia, e certamente valide invece, per la loro formulazione satirica, a ridicolizzare, demitizzare, e “castigare” infine, la perduta regale dignità. “Le rivelazioni della Diotallevi”, specialmente quelle relative al programma di attentati alla persona fisica e non soltanto morale degli ex regnanti napoletani, commenta il De Cesare, “portarono radicali mutamenti nelle abitudini dei sovrani di Napoli… La Regina al Pincio andò di rado, né scese più dal legno, ed ai teatri fu meno assidua; e disgustata di tutto quanto era avvenuto, non ebbe che un solo pensiero: lasciare Roma”. Maria Sofia, con la sua Corte, partì per la Baviera nel maggio del 1862 e ritornò a Roma soltanto nel 1869, a Palazzo Farnese, “rinunciando al pensiero di chiudersi in un Monastero”, il re aveva a quel tempo solo trent’anni e la regina ventisette… Nell’ultimo atto di questa vicenda, il sipario si alza ancora dinanzi ai coniugi Diotallevi che, “dopo pochi mesi, con grande meraviglia di tutti e sdegno della corte di Napoli”, vennero messi in libertà e ottennero inoltre un assegno mensile di quindici scudi da Monsignor de Meroe, che acquistò nel contempo i compromettenti biglietti amorosi indirizzati dal generale De Goyon, alla bella e pentita “fotografa” Costanza. Nel 1866 Costanza tornò ad essere presente nelle cronache del Sant’Uffizio, al quale si era decisa nel frattempo “a fare una spontanea” (una dichiarazione sotto il suggello della confessione), riconoscendo di aver asserito il falso, “ma di esservi stata indotta da un fine nobile e onesto, quello di difendere il Papa e la Sede Apostolica dai nemici; di aver errato, ma in buona fede”. De Cesare precisa che tale confessione non poteva essere da altri utilizzata essendo stata fatta con procedura del giuramento e del segreto; Costanza Diotallevi infatti, “non ebbe a soffrir nulla e continuò a riscuotere la pensione anche sotto il Governo Italiano” Le “ignobili” fotografie di Maria Sofia (ottenute sul corpo della misteriosa “scuffiara”, o su quello della bella Costanza?), scomode in effetti a entrambi le parti politiche, vennero distrutte, oppure occultate nel segreto degli archivi, ad eccezione di qualche analogo esemplare, come le due immagini riportate da Gilardi nella sua “Storia sociale della fotografia”, che però sono diverse da quelle descritte da Costanza e risultano disegnate. Non dimenticarono comunque alcuni romani, le innumerevoli denuncie fatte da Costanza durante la sua “rivelazione impunitaria”, e il 20 settembre 1870 l’aggredirono in una piazza, dove venne a stento sottratta dalle ire popolari; qualche anno dopo Costanza “tornò in carcere per reati comuni” e venne riconosciuta (la data non é indicata dal De Cesare, ma dovrebbe essere in un anno sul finire del secolo), dal deputato municipale Domenico Ricci, durante una visita alle carceri del Buon Pastore, “né altro si sa di lei”. Venezia, aprile 1982 (per gentile concessione di Fotologia, editrice Alinari, Firenze).